Particolare tenuità del fatto per i reati tributari: la Cassazione l'ammette ma di fatto la esclude

Ciro Santoriello
24 Maggio 2016

Nonostante la lettura di diverse decisioni della Cassazione possa far pensare che la giurisprudenza abbia pacificamente riconosciuto la possibilità di applicare l'istituto della particolare tenuità del fatto anche agli illeciti tributari – ed in particolare a quelli, come i delitti di omesso versamento degli acconti Iva o di omesso versamento delle ritenute fiscali, per i quali sia prevista una soglia di punibilità – ad un esame più attento emerge come, di fatto, assai di rado il disposto di cui all'art. 131-bis c.p. potrà essere ritenuto dalla giurisprudenza aderente a tali fattispecie criminose.
Massima

La causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto può operare anche con riferimento al reato di omesso versamento degli acconti Iva, dovendosi considerare, fra i diversi indici di insignificanza della vicenda criminale indicati dall'art. 131-bis c.p., in primo luogo l'entità delle somme non versate all'erario.

Il diritto dell'imputato ad ottenere, prima dell'apertura del dibattimento un termine per il saldo del pagamento già in corso impedisce la possibilità di dichiarare ai sensi dell'art. 469, comma 1-bis, c.p.p. la non punibilità del fatto per la sua particolare tenuità.

Il caso

Nonostante la lettura di diverse decisioni della Cassazione possa far pensare che la giurisprudenza abbia pacificamente riconosciuto la possibilità di applicare l'istituto della particolare tenuità del fatto anche agli illeciti tributari – ed in particolare a quelli, come i delitti di omesso versamento degli acconti Iva o di omesso versamento delle ritenute fiscali, per i quali sia prevista una soglia di punibilità – ad un esame più attento emerge come, di fatto, assai di rado il disposto di cui all'art. 131-bis c.p. potrà essere ritenuto dalla giurisprudenza aderente a tali fattispecie criminose.

Nel caso di specie, la Corte di legittimità doveva decidere della sorte di un privato contribuente il quale non aveva versato gli acconti Iva per un importo che superava per circa € 10.000 la nuova soglia di punibilità prevista dall'art. 10–bis d.lgs. 74 del 2000, come modificato dal d.lgs. 158 del 2015. Condannato in sede di appello dopo essere stato assolto in primo grado, l'imputato ricorre in cassazione prospettando sostanzialmente due motivi di ricorso.

La questione

Con una prima argomentazione, la difesa lamentava che la Corte di appello aveva escluso che l'omesso versamento degli acconti Iva potesse trovare giustificazione in una causa di forza maggiore in cui l'imputato era venuto a trovarsi in particolare della crisi di liquidità che aveva interessato la sua azienda.

Con il secondo motivo di ricorso la difesa richiedeva che, considerato che l'evasione posta in essere dall'imputato non era particolarmente significativa – essendo, come detto, la nuova soglia di punibilità superata di sole € 10.000 – che il fatto contestato fosse dichiarato non punibile per la sua particolare tenuità, così come previsto dall'art. 131-bis c.p. di recente introduzione.

Le soluzioni giuridiche

Con riferimento alla prima questione la Cassazione ribadisce il consolidato orientamento secondo cui non è possibile ritenere scriminata e quindi non penalmente rilevante la condotta di mancato versamento degli acconti Iva (e delle ritenute fiscali) quando tale inadempimento sia stato determinato dalla crisi economica ed in particolare dalla carenza di liquidità che connota la posizione del contribuente che svolga attività di impresa. In particolare, si conferma che il reato di omesso versamento degli acconti Iva – ma non solo, giacché la medesima conclusione è assunta con riferimento al mancato versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti o di omesso versamento delle ritenute fiscali – richiede il mero dolo generico (per tutti, Cass. pen., Sez. un., 28 marzo 2013, n. 37424. Se ne veda il commento di TRAVERSI) per cui il predetto reato risulta integrato, sotto il profilo della condotta, dalla mera omissione dei versamenti, mentre sotto il profilo soggettivo sarebbe sufficiente che il singolo sia consapevole al momento dei fatti del suo inadempimento (Cfr. anche, Cass. pen., Sez. III, 9 ottobre 2013, n. 5905; Cass. pen., Sez. III, 8 gennaio 2014, n. 15416, secondo cui la situazione di colui che non versa l'imposta si risolve in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute e successivamente con l'omesso versamento mensile secondo le cadenze prevista dalla normativa tributaria ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla normativa penale. In senso critico verso questa posizione, in dottrina, PIERDONATI, che esprime forti censure alla tesi secondo cui sarebbe necessariamente sussistente, in capo all'imprenditore che non versa le somme dovute, il dolo generico: in effetti, il contribuente che non paga il fisco è consapevole di tale sua condotta, ma ciò non significa che è sua intenzione porla in essere, giacchè tale omissione può dipendere anche – per l'appunto – dall'impossibilità di provvedere al versamento di quanto dovuto, stante la crisi di liquidità in cui versa l'azienda, posto che il soggetto obbligato ben potrebbe non avere a sua disposizione la somma dovuta in conseguenza di un evento estraneo alla sua volontà e che lui non ha potuto evitare).

Uniche aperture sul punto sono rappresentate dalle – invero non così infrequenti decisioni – nelle quali la Cassazione ha riconosciuto che in alcune ipotesi l'imprenditore si trova in situazioni che gli impediscono di assolvere l'obbligo tributario e quindi è non è penalmente responsabile in ragione delle condizioni economiche in cui versava ma la possibilità di accedere a tale valutazione è però subordinata – onde evitare una facile elusione della normativa fiscale – alla presenza di una serie di presupposti. In primo luogo, la condizione economica del contribuente non deve consistere in una mera difficoltà finanziaria, nella difficoltà di rinvenire le disponibilità liquide per il pagamento dell'imposta ma deve ricorrere un'assoluta impossibilità di provvedere altrimenti all'esigenze dell'azienda, se non per l'appunto non pagando i debiti erariali. In secondo luogo, il contribuente ed imputato deve dare piena dimostrazione di tale impossibilità, non essendo sufficiente allegare davanti al giudice penale l'esistenza di una crisi economica, magari facendo riferimento alle generalizzate cattive condizioni dell'economia nazionale: piuttosto, bisogna dimostrare da parte del privato che non gli era stato possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidita, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili.

In proposito va osservato come la Cassazione in più occasioni abbia indicato quali prove l'imputato può fornire sul punto, sostenendo che una sufficiente dimostrazione dello sforzo del contribuente di rispettare le scadenze è data dalla circostanza che il contribuente – prima di procurarsi la liquidità necessaria evadendo il fisco – abbia fatto ricorso anche al suo patrimonio personale, come ad esempio mediante il ricorso allo sconto bancario delle fatture emesse non saldate (Cass. pen., Sez. III, 14 aprile 2014, n. 15716, inedita; Cass., sez. III, 6 marzo 2014, n. 10813; Cass, sez. III, 17 luglio 2014, n. 18501, v. nota di SANTORIELLO).

Quanto alla seconda questione – inerente l'applicazione agli illeciti tributari della nuova causa di non punibilità presente nell'art. 131–bis c.p. introdotto con il decreto legislativo 67 del 2015 (su tale innovazione, cfr. SANTORIELLO; CAPRIOLI; BARTOLI; GROSSO) – la decisione merita una lettura più attenta perché il tema è assai delicato e le affermazioni della giurisprudenza secondo cui nulla impedisce di applicare la causa di non punibilità agli illeciti tributari paiono in realtà sconfessate dai fatti.

Come è noto, l'art. 131-bis c.p., al comma 1, prevede che nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale; lo stesso articolo poi indica una serie di ipotesi in cui l'offesa non può essere ritenuta irrilevante nonché gli indici ed i caratteri della vicenda sulla cui base operare tale valutazione di significanza dell'aggressione al bene giuridico protetto.

Da tempo la giurisprudenza riconosce la possibilità di applicare questa disciplina agli illeciti tributari quando il reato fiscale sia punito nel massimo con pena della reclusione non superiore a cinque anni – il che si verifica praticamente per tutti i reati tributari salvo le fattispecie di cui artt. 2, 3 ed 8 d.lgs. 74 del 2000 (Cass. pen., Sez. III, 9 settembre 2015, n. 43599; Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2015, n. 15449, v. nota di SANTORIELLO. In senso favorevole a tale decisione GATTA secondo cui la presenza di soglie di punibilità (nei reati tributari come nei reati societari, nei reati ambientali, nei reati di guida in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di stupefacenti, e così via) potrebbe infatti essere intesa come una sorta di presunzione legale di rilevanza penale dei fatti che si collocano al di sopra delle soglie stesse, incompatibile con l'istituto introdotto nell'art. 131-bisc.p.. Senonché, nel momento in cui si riconosce che le soglie di cui si tratta misurano l'offesa rilevante (danno o pericolo), non vi è motivo per escludere in via di principio una particolare tenuità dell'offesa, appunto, in relazione ai fatti che si collocano di poco sopra le soglie stesse. Nello stesso senso, anche se in maniera assai più problematica, differenziando in parte la risposta a seconda della fattispecie criminosa considerata CARACCIOLI).

Questa impostazione pare destinata a consolidarsi in termini indiscutibili. Due decisioni delle Sezioni unite della Cassazione hanno infatti riconosciuto, senza mezzi termini, la possibilità di applicare la disposizione del codice penale ai reati puniti in caso di superamento di una soglia di punibilità (cfr., Cass., sez. un., 6 aprile 2016, nn. 16381 e 16382, entrambe relative relative al delitto di guida in stato di ebbrezza ma contenenti osservazioni pacificamente applicabili anche con riferimento ai delitti tributari).

Quanto ai profili della vicenda da considerare per riconoscere la sussistenza della particolare tenuità del fatto di evasione, la giurisprudenza – e la presente pronuncia ne fornisce conferma – riconosce rilievo particolare all'importo dell'imposta non versata: la scelta di ancorare il riconoscimento della particolare tenuità del fatto all'ammontare delle somme non versate il fisco è pienamente comprensibile, essendo questo profilo l'elemento principale per accertare la gravità della violazione tributaria contestata nonché essendo un dato avente una portata numerica e quindi oggettiva, il cui apprezzamento non è dunque interamente rimesso alla libera discrezionale del giudice.

In secondo luogo, anche se in proposito la decisione in commento non contiene alcuna affermazione, a prescindere della individuazione dell'importo dovuto e non versato, è da ritenere che non potrà essere ritenuto non particolarmente tenue l'illecito fiscale allorquando, pur in presenza di un'evasione contributiva di scarsissimo importo, ci si trovi in presenza di una pluralità di omissioni, in quanto la pluralità di inadempimenti evidenzia una sorta di atteggiamento abituale da parte del contribuente, in contrasto con quanto previsto dal citato art. 131–bis (Cass. pen., Sez. III, 24 aprile 2015, n. 47256).

Osservazioni

A fronte delle superiori osservazioni sembrerebbe che la questione inerenti i rapporti fra la causa di non punibilità prevista dall'art. 131–bis e gli illeciti tributari non presenti profili di problematicità nel senso che nulla impedisce che il primo istituto trovi applicazione anche con riferimento a detti reati – fatta salva l'ipotesi che l'evasione concerna importi particolarmente significativi o che i delitti siano sanzionati con pena superiore ai 5 anni di reclusione nel massimo (il che in sostanza si verifica solo con riferimento alle ipotesi di cui agli artt. 2 e 3 d.lgs. 74 del 2000).

A nostro parere, però, questa affermazione risulta sconfessata nei fatti, laddove si considerino quali sono le conclusioni che la Cassazione ha assunto con riferimento ai singoli casi portati alla sua attenzione. Va segnalato infatti come la suprema Corte – nel mentre in astratto si pronuncia in senso favorevole all'applicazione dell'art. 131–bis c.p. alle violazioni dei precetti di cui al decreto 74 del 2000 – abbia fino ad ora sempre escluso la sussistenza della causa di non punibilità per l'irrilevanza del fatto, riconoscendo una particolare gravità dell'evasione anche in presenza di inadempimenti del contribuente di importo assai esiguo – nel caso di specie si era in presenza di un superamento della soglia di € 10.000,00 mentre in un'altra occasione, sia pur relativa al reato di omesso versamento di contributi previdenziali (Cass. pen., Sez. III, 10 luglio 2015, n. 40350), è stata ritenuta penalmente rilevante la mancata corresponsione di € 5.000,00.

Orbene, è evidente che a seguire questa impostazione dovrebbe concludersi nel senso che inadempimenti relativi ad obblighi di versamento di somme nei confronti dell'erario o delle casse dello Stato dovranno sempre essere ritenute penalmente rilevanti. Inoltre va considerato come sia facilmente rinvenibile un'ulteriore ragione per cui l'affermazione circa la possibilità di applicare l'art. 131–bis anche ai reati tributari non è di fatto destinata a trovare nel futuro alcuna applicazione: la recente riforma degli illeciti tributari ha infatti notevolmente innalzato le soglie di punibilità previste per i reati tributari – si pensi che oggi l'evasione penalmente rilevante in tema di acconti I.V.A deve ammontare, rispetto al precedente valore di €. 50.000,00, ad €. 150.000,00, mentre il mancato versamento delle ritenute fiscale deve raggiungere la somma di €. 250.000,00 –, sicché, a fronte di un superamento anche irrisorio di importi così significativi ed elevati, è difficile pensare che si possa addivenire ad una qualificazione in termini di tenuità della vicenda.

A prescindere dalla precedenti affermazioni, la decisione in commento sembra avanzare un'ulteriore argomentazione che escluderebbe – questa volta in termini generali – la possibilità di ritenere applicabile la causa di non punibilità di cui all'art. 131–bis ai reati tributari.

La Cassazione, infatti, ricorda che per i reati di cui agli artt. 10–bis, 10–ter e 10–quater, d.lgs. 4 del 2000 è prevista una speciale causa di non punibilità rappresentata dall'integrale pagamento, prima dell'apertura del dibattimento di primo grado, degli importi dovuti dal contribuente all'erario – comprese le somme dovute a titolo di sanzioni ed interesse. Orbene, la suprema Corte pare sostenere che la previsione, con riferimento ai suddetti illeciti tributari di suddetta causa di non punibilità, impedisca al contribuente infedele di beneficiare della causa di non punibilità per la particolare tenuità dell'offesa: questo almeno è il significato che pare doversi attribuire alla frase, riportata al punto 6.3., secondo cui il diritto dell'imputato ad ottenere, prima dell'apertura del dibattimento un termine per il saldo del pagamento già in corso … contraddice (ed anzi esclude) l'applicabilità del meccanismo processuale previsto dall'art. 469, comma 1-bis, c.p.p. [norma processuale che governa la decisione del giudice di merito di ritenere il fatto di reato non punibile per la sua irrisoria gravità] per poterlo prosciogliere dal medesimo reato per la particolare tenuità del fatto con sentenza pre–dibattimentale, meccanismo processuale non richiamato, né fatto salvo dalla norma in questione.

L'estrema sinteticità della affermazione, assai poco motivata, impedisce di ricostruirne con certezza il significato. In proposito, possono formularsi due ipotesi.

In primo luogo, potrebbe sostenersi che, secondo la Cassazione, la previsione con riferimento ai reati tributari di una particolare causa di non punibilità rappresentata dall'integrale pagamento del debito tributario impedirebbe al giudice di merito del fatto di pronunciare sentenza di non punibilità solo nella fase predibattimentale, non precludendogli però tale possibilità una volta che sia terminato il processo. In sostanza, accogliendo questa ricostruzione, secondo la Suprema Corte l'imputato che volesse celermente definire la propria posizione con riferimento ad un'accusa di evasione fiscale non potrebbe chiedere al giudice di pronunciarsi in sede predibattimentale ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 131-bis c.p. e art. 469 comma 1-bis c.p.p., ma dovrebbe far ricorso alla speciale causa di non punibilità di cui all'art. 13 d.lg. n. 74 del 2000: si tratta, in verità, di una soluzione che non ci sembra imposta dal dettato normativo, anche se la stessa ha una sua logica rimettendo alla difesa la scelta fra ottenere immediatamente la pronuncia di assoluzione per pagamento del debito tributario o rimandare l'ottenimento di tale decisione ad una fase successiva, al termine cioè dell'istruttoria dibattimentale qualora il giudice si convinca che l'evasione presenti un carattere di particolare tenuità.

Molto meno convincente è la seconda ricostruzione che pure può farsi della sopra riportata affermazione della Corte di legittimità ed in base alla quale per il contribuente infedele non ci sarebbe altra alternativa, qualora volesse ottenere una sentenza di non punibilità relativamente la sua condotta di mancato pagamento delle imposte, di procedere al versamento di quanto dovuto all'Erario ai sensi di quanto previsto dall'art. 13 d.lgs. 74 del 2000. A seguire questa tesi, dunque, secondo la Cassazione la presenza nel sistema del diritto penale tributario di una speciale causa di non punibilità rappresentata dal pagamento integrale precluderebbe in assoluto l'operatività della disciplina contenuta nell'art. 131–bis c.p. e quindi, il privato contribuente si troverebbe di fronte alla drastica alternativa o di versare imposte o di vedersi inevitabilmente condannato per il delitto contestato a prescindere dalla rilevanza economica del suo inadempimento.

Una tale ricostruzione del sistema ci pare francamente insostenibile nel senso che non riusciamo a rinvenire alcuna norma che consenta di addivenire a tale soluzione. Al più quello che può fondatamente affermarsi è che a fronte di una evasione di importo particolarmente significativo e che quindi non potrebbe essere qualificata come particolarmente tenue l'imputato non può procedere al parziale pagamento dell'imposta dovuta, riportando il suo debito in un alveo di minore significatività economica, e poi richiedere una pronuncia di non punibilità ai sensi dell'art. 131–bis c.p. In tali ipotesi, infatti, quando cioè l'evasione fiscale si presenta assolutamente significativa in relazione alle imposte non versate, l'imputato non ha altra possibilità, se vuole evitare la condanna, di procedere al pagamento di quanto dovuto ai sensi dell'art. 13 d.lgs. 231 del 2001 precludendogli la gravità di quanto commesso di godere del beneficio della causa di non punibilità di cui all'art. 131–bis c.p., essendo irrilevante che prima del processo si sia proceduto al parziale pagamento dell'imposta e magari il debito residuo non sia di particolare rilievo.

Oltre questa affermazione non ci pare si possa andare. In sostanza, se deve riconoscersi che non si può sostenere che l'imputato possa procedere al parziale pagamento dell'imposta dovuta per riportare il debito residuo in un “alveo numerico” meno significativo e godere così dell'istituto di cui all'art. 131–bis c.p., non ci pare assolutamente giustificato sostenere che la presenza della causa di non punibilità di cui all'art. 13 d.lgs. 74 del 2000 non consente in nessuno caso al contribuente infedele di godere della causa di non punibilità di cui all'art. 131–bis c.p..

Guida all'approfondimento

BARTOLI, L'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. Pen. Proc., 2015, 664;

CARACCIOLI, Non punibilità per particolare tenuità del fatto: l'impatto sui reati tributari, in Fisco, 2015, 17, 1659;

CAPRIOLI, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, ivi;

GATTA, Note a margine di una prima sentenza della Cassazione in tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. cont.;

GROSSO, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, Dir. Pen. Proc., 2015, 522;

PIERDONATI, Crisi dell'impresa e responsabilità penale del vertice della società verso nuovi equilibri giurisprudenziali, in Dir. Pen. Proc., 2013, 965;

SANTORIELLO, Applicazione ai reati tributari della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Fisco, 2015, 19, 1886 (nota aCass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 15449);

SANTORIELLO, La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, Napoli, 2015; DIES, questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuità, in Dir. pen. cont.;

SANTORIELLO, La crisi di impresa può giustificare l'omesso versamento Iva, in Fisco, 2015, 2179 (nota a Cass, sez. III, 17 luglio 2014, n. 18501);

TRAVERSI, Interpretazione rigorosa delle Sezioni Unite sull'omesso versamento dell'IVA e delle ritenute, in Corr. Trib., 2013, 3487 (nota a Cass. pen., Sez. un. 28 marzo 2013, n. 37424).

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