Manifestazione del metodo mafioso e c.d. mafia silente

Donatella Perna
24 Luglio 2017

La fattispecie giunta all'attenzione della S.C. trae origine da un'importante inchiesta giudiziaria, concernente l'insediamento in Liguria e basso Piemonte di articolazioni periferiche della ‘ndrangheta calabrese, denominate “locali”, ma strettamente collegate alla organizzazione madre. Il processo, svolto nei confronti di numerosi imputati accusati di avere fatto parte di tali strutture locali ...
Massima

L'esternazione del metodo mafioso trova difforme declinazione e differente manifestazione a seconda della direzione finalistica delle condotte dei sodali e non può essere valutata secondo unitari e aprioristici moduli ermeneutici. La proiezione esterna del sodalizio non postula necessariamente azioni eclatanti, potendo l'esercizio del metodo mafioso esternarsi in forme più subdole e striscianti, finalizzate al controllo delle attività economiche e all'inquinamento degli apparati pubblici.

Il caso

La fattispecie giunta all'attenzione della S.C. trae origine da un'importante inchiesta giudiziaria, concernente l'insediamento in Liguria e basso Piemonte di articolazioni periferiche della ‘ndrangheta calabrese, denominate “locali”, ma strettamente collegate alla organizzazione madre.

Il processo, svolto nei confronti di numerosi imputati accusati di avere fatto parte di tali strutture locali, perviene al vaglio del Supremo Collegio su ricorso del procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello, dopo una c.d. doppia conforme, ovvero dopo che la sentenza di assoluzione di primo grado resa dal Gup all'esito di rito abbreviato, era stata confermata anche in secondo grado.

Secondo il Gup infatti, sebbene l'associazione mafiosa possa esistere anche senza la commissione di reati fine, essa non può prescindere dalla esteriorizzazione della sua forza intimidatrice in considerazione del carattere strumentale del metodo mafioso rispetto ai fini illeciti indicati dalla legge: invece, nel caso concreto, quantunque gli imputati risultassero effettivamente legati alla ‘ndrangheta della quale riproducevano riti e segretezza, non emergeva in alcun modo, se non in via meramente ipotetica, che avessero riprodotto in Liguria le caratteristiche operative dell'associazione madre, né che interagissero con l'ambiente esterno come appartenenti ad un'associazione di tipo mafioso. Essi, infatti, si limitavano ad incontrarsi tra loro in segreto, ad utilizzare un linguaggio richiamante regole e ruoli della ‘ndrangheta, a discutere della partecipazione a matrimoni e funerali, o della scelta di appoggiare alcuni candidati piuttosto che altri alle elezioni amministrative del 2010, onde assicurarsene i favori.

La Corte d'appello ha confermato la sentenza di primo grado, osservando che il metodo mafioso non può realizzare una conseguenza esterna alla sfera dell'associazione, cioè l'assoggettamento, senza manifestarsi nell'area di presunta operatività, sicché costituisce una sorta di presunzione iuris et de iure dell'esistenza della condizione di assoggettamento la mera presenza, sul territorio, di un'articolazione periferica di una mafia storica, non essendo sufficiente a giustificarla la sinistra notorietà dell'associazione madre.

Come sopra anticipato, avverso la sentenza della Corte d'appello ha proposto ricorso per cassazione il procuratore generale, osservando che l'unitarietà della ‘ndrangheta, di cui le locali liguri fanno parte, importa che l'accertamento dell'esistenza del metodo mafioso e delle condizioni di assoggettamento ed omertà che ne deriva debba essere condotto avendo riguardo alle modalità operative e all'estensione territoriale complessiva dell'intero sodalizio, non potendosi considerare il solo contesto territoriale in cui è insediato il singolo locale, come se fosse del tutto indipendente, atteso che gli imputati – facendo parte della ‘ndrangheta calabrese – sfruttano o si avvalgono del prestigio criminale dell'associazione e dell'alone di diffusa e permanente intimidazione che la stessa è riuscita a creare.

La questione

Da tempo ormai si dibatte intorno al fenomeno delle infiltrazioni mafiose in territori, come ad es. il settentrione d'Italia, geograficamente e storicamente distanti da quello in cui le varie associazioni indicate nell'art. 416-bis c.p. – mafia, camorra, ‘ndrangheta – sono nate e ancor oggi operano.

La premessa sulla quale sembrano tutti d'accordo, è la seguente (per riprendere le parole utilizzate dal Primo Presidente della S.C., nell'escludere la ravvisabilità di un contrasto giurisprudenziale sul punto): «l'integrazione della fattispecie di tipo mafioso implica che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non solo potenziale, ma attuale, effettiva ed obbiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti» (cfr. provvedimento del 28 aprile 2015).

Tuttavia, appena ci si cala nel caso concreto, ci si chiede quali siano le condotte minime in grado di integrare tale capacità di intimidazione; quando essa sia non solo potenziale, ma attuale, effettiva, ed obbiettivamente riscontrabile: in altri termini, quando possa dirsi concretizzato il c.d. metodo mafioso, anche con riferimento alle articolazioni periferiche dell'organizzazione principale.

Le soluzioni giuridiche

Gli studiosi osservano che il metodo intimidatorio che caratterizza le associazioni mafiose può palesarsi attraverso espliciti atti di violenza o minaccia, ma anche attraverso condotte caratterizzate da messaggi intimidatori indiretti o larvati o, addirittura, in assenza di avvertimenti diretti.

Tali associazioni, «quando si manifestano con modalità silenti, “si avvalgono” della fama criminale conseguita nel corso degli anni nei territori di origine, successivamente diffusa ed esportata in altre zone del territorio nazionale ed anche oltre i confini nazionali» (R. SPARAGNA, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont., 2015).

Le modalità silenti di manifestazione del metodo mafioso, si dice, possono assumere due forme: una prima, larvata ed indiretta, che costituisce un chiaro avvertimento della sussistenza di un interesse dell'associazione verso un comportamento attivo od omissivo del destinatario, con implicita richiesta di agire in conformità: ad es. l'affiliato che chiede denaro per l'assistenza a compagni carcerati non meglio individuati, sicché la condotta della persona offesa è determinata dalla consapevolezza della “mafiosità” del richiedente, e dell'essere questi organico ad un sodalizio criminale di stampo mafioso.

Una seconda, in cui vi è addirittura assenza di messaggio ma la pretesa implicita, e quindi silente, è comunque avvertita come stringente dalla persona offesa destinataria: è il caso del taglieggiato che, anche in mancanza di richiesta espressa, si determina spontaneamente a consegnare il denaro per i carcerati, a seguito della semplice visita dell'affiliato (SPARAGNA, ibidem).

Quanto al versante giurisprudenziale, la gran parte delle decisioni in materia riguarda – tra le c.d. mafie storiche – la ‘ndrangheta calabrese, organizzazione di stampo mafioso introdotta dal Legislatore nell'art. 416-bis, comma 3, c.p. nel 2010, il quale ha così riconosciuto e tipizzato l'esistenza di una organizzazione di tipo mafioso avente caratteristiche proprie e di rilievo non inferiore alla mafia siciliana e alla camorra (cfr. relazione dell'ufficio del massimario presso la Corte di cassazione).

Tale associazione criminale, come e forse più di altre, ha saputo esportare il proprio modello organizzativo e riprodurne lo schema operativo anche in territori molto distanti da quello di origine (territori c.d. refrattari), in cui il fenomeno lato sensu mafioso era misconosciuto.

Di fronte ad una realtà fenomenica e processuale ormai acclarata (infiltrazioni ‘ndranghetiste in Piemonte), già nel 2012 la Suprema Corte aveva affermato che il reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche in difetto della commissione di reati-fine, purché l'organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione ed il livello organizzativo e programmatico raggiunto, ne lascino concretamente presagire la prossima realizzazione (Cass. pen., Sez. II, n. 4304/2012).

Negli anni successivi, la sempre più frequente “delocalizzazione” di strutture appartenenti alla ‘ndrangheta calabrese,ha posto un nuovo interrogativo, e cioè se la mera dislocazione territoriale di un'articolazione della struttura associativa principale, implichi di per se sola l'esteriorizzazione del metodo mafioso proprio dell'organizzazione madre, anche quando, di fatto, tale metodo non sia stato concretamente accertato.

Come osservano i giudici in una delle più interessanti decisioni in argomento, «[] i gruppi criminali cd. delocalizzati possono anche avere, della tradizionale associazione mafiosa, la struttura verticistica e familistica, i riti di affiliazione, l'omerta' interna, gli obiettivi (cioè l'acquisizione in modo diretto o indiretto della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, o il fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali), ma non anche il metodo. Ciò può dipendere dal fatto che, in ipotesi, pur senza veri e propri atti di intimidazione, essi riescono ad inquinare, nei nuovi territori di elezione, la realtà economica e quella politico-amministrativa che su di essa incide attraverso appalti di opere e/o servizi pubblici»(Cass. pen., Sez. II, n. 15412/2015).

Ciò nondimeno, l'alternativa di fondo tra metodo mafioso meramente potenziale o in atto, può avere conseguenze assai rilevanti, come ad es. riconoscere la mafia «[] solo all'interno di realtà territoriali storicamente o culturalmente permeabili dal metodo mafioso”, ignorando “la mutazione genetica delle associazioni mafiose che tendono a vivere e prosperare anche "sott'acqua", cioè mimetizzandosi nel momento stesso in cui si infiltrano nei gangli dell'economia produttiva e finanziaria e negli appalti di opere e servizi pubblici» (Cass. cit.).

Sulla scorta di tali considerazioni si è andato progressivamente formando un filone giurisprudenziale secondo cui il reato previsto dall'art. 416-bis c.p. è configurabile – rispetto ad una nuova articolazione periferica (c.d. locale) – anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella "madre" del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi di tale sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l'ordine pubblico (Cass.pen., Sez.V, n. 31666/2015, c.d. sentenza Albachiara).

Tale orientamento si è andato nel tempo sempre più consolidando: non occorre che ogni cellula delocalizzata abbia dato luogo alla manifestazione del metodo mafioso, essendo invece necessario verificare che ciascuna di esse sia effettivamente parte del sodalizio e che questo, nel suo complesso, si sia manifestato nel nuovo contesto territoriale attraverso modalità concrete che, pur potendo non postulare azioni eclatanti, devono consistere nell'attuazione di un sistema incentrato sull'assoggettamento derivante dalla forza del vincolo associativo (Cass. pen., Sez. VI, n. 44667/2016, c.d. sentenza Minotauro).

Nel caso da ultimo citato, la S.C. si era trovata dinanzi a plurime "locali" di ‘ndrangheta operanti in Piemonte, ritenute parti di un'unica associazione mafiosa, composta da più cellule tra loro federate, che - pur operando in propri ambiti territoriali – mantenevano stabilmente i contatti con gli organismi di vertice della associazione di riferimento, e si riconoscevano "come parti di un tutto".

In tale chiave di lettura del fenomeno, è dunque l'unitarietà dell'organizzazione mafiosa a livello nazionale che connota e caratterizza come mafiose anche le sue articolazioni periferiche, nel senso che, dimostrato il collegamento con la cellula madre, si arriva a ritenere “provata” anche l'importazione della forza intimidatrice (BALSAMO, RECCHIONE, Mafie al nord, in Dir. pen. cont., 2013).

Ma il panorama giurisprudenziale è variegato, e non sono mancate decisioni parzialmente dissonanti.

Pronunciandosi su infiltrazioni ‘ndranghetiste in Lombardia, la sesta sezione della S.C. ha affermato che il metodo mafioso deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione quale forma di condotta positiva, come si evince dall'uso del termine avvalersi contenuto nell'art. 416-bis c.p., ed esso può avere le più diverse manifestazioni, purché l'intimidazione si traduca in atti specifici, riferibili a uno o più soggetti (Cass.pen., Sez. VI, n. 50064/2015).

Ancora, in presenza di un quadro probatorio positivamente valutato dai giudici di merito, i quali avevano ritenuto integrata una condotta partecipativa al sodalizio mafioso anche in assenza di prova circa specifiche condotte illecite attuative dell'accordo associativo, la prima sezione della S.C. ha invece ritenuto che non è integrata la consumazione del reato di partecipazione alla associazione di tipo mafioso nell'ipotesi in cui rimanga accertato il mero accordo di ingresso, non seguito da un qualsiasi indicatore di avvenuta attivazione del soggetto in attuazione dell'accordo medesimo (Cass. pen., Sez. I, n. 55359/2016).

La sentenza in commento sembra viaggiare senz'altro sui binari segnati dall'orientamento più intransigente.

Osservano infatti i giudici che – seppure è pacifico che l'esteriorizzazione della mafiosità di un'organizzazione criminale non coincide con la sola commissione dei reati fine – è anche vero che la mancata commissione di reati fine non significa mancanza di mafiosità: quest'ultima può infatti manifestarsi anche attraverso indici rivelatori diversi, di sicuro valore dimostrativo, quali la segretezza del vincolo; i rapporti di comparaggio o comparatico fra gli adepti; l'uso di un rituale particolare per l'iniziazione dei nuovi soci o per la promozione di quelli che già ne fanno parte; il rispetto assoluto del vincolo gerarchico; l'uso di un linguaggio criptico: tutti elementi presenti nel caso concreto, ma ritenuti penalmente irrilevanti dai giudici di merito.

Di grande importanza anche i collegamenti, emergenti dalle intercettazioni ma trascurati dai giudici di merito, tra il gruppo ligure e l'organizzazione madre sedente a Polsi, intercettazioni in cui gli interlocutori discutono della gestione del locale di Genova, dell'assegnazione di cariche tra i consociati, della partecipazione a cerimonie, a rituali, a matrimoni e a funerali: tali circostanze, lungi dal costituire un aspetto folcloristico ed innocuo del fenomeno, esprimono invece il radicamento sul territorio ligure di gruppi organizzati che si richiamano alla ‘ndrangheta quale fenomeno criminale e non quale archetipo (sub)culturale.

Mirando, poi, al cuore del problema, la S.C. affronta la questione della esteriorizzazione della capacità intimidatoria dell'associazione, osservando che l'appoggio elettorale fornito a taluni candidati (nella specie si trattava delle elezioni amministrative del 2010), peraltro in accordo con le indicazioni provenienti dall'organizzazione madre, rappresenta una tipica manifestazione del metodo mafioso, dal momento che il condizionamento di una tornata elettorale amministrativa, realizzato attraverso l'appoggio elettorale ad alcuni candidati piuttosto che ad altri, pone le basi per infiltrare l'amministrazione locale con propri affiliati, non occorrendo che le pressioni sugli elettori assumano i connotati di eclatante violenza o minaccia (Cass. pen., Sez. II, n. 22989/2013).

Altro dato significativo, anch'esso ingiustamente trascurato, è quello delle riunioni tra sodali, da non ridurre a mere rimpatriate tra soggetti accomunati dal medesimo passato delinquenziale, ma da considerare invece per ciò che effettivamente sono, ovvero incontri nei quali si programmano strategie elettorali, si conferiscono le doti agli associati (il che implica l'avvenuta attivazione dell'affiliato nell'ambito associativo), si discute della creazione di nuove “locali” sul territorio e, quasi in una sorta di giurisdizione domestica, si dirimono le controversie tra gli affiliati.

In definitiva, è errato assumere aprioristicamente che il metodo mafioso debba necessariamente palesarsi attraverso azioni e comportamenti che ne denotino ex se la mafiosità in quanto espressivi di concreta intimidazione.

Da ultimo, precisa la Corte, anche esclusa la sussistenza di locali in Liguria, i giudici di merito avrebbero dovuto comunque valutare se le condotte accertate in capo ai singoli rilevassero come partecipazione all'organizzazione madre, atteso che il contributo partecipativo può essere costituito anche dal semplice inserimento all'interno della compagine criminale come “uomo d'onore”, il che presuppone la permanente ed incondizionata offerta di contributo in favore del gruppo per qualsiasi impiego criminale richiesto, così contribuendo a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati e ad accrescere le potenzialità operative e la complessiva capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale del sodalizio.

Osservazioni

Le oscillazioni giurisprudenziali di cui s'è dato conto, riflettono in realtà i contrasti ancora non risolti intorno alla natura giuridica del reato di cui all'art. 416-bis c.p., ora costruito come reato di pericolo, ora come reato a struttura mista, in cui il danno è appunto la manifestazione obbiettiva del metodo intimidatorio.

È chiaro che, a seconda del modello teorico accolto, nel primo caso si avrà una brusca anticipazione della soglia di punibilità, volendosi colpire la mera esposizione a pericolo del bene protetto, con la punizione di comportamenti non ancora esteriorizzati e per così dire “silenti”; nel secondo caso, invece, si richiederà che il metodo mafioso, ovvero il danno, si esteriorizzi con modalità obbiettivamente riscontrabili.

È innegabile che il primo modello teorico presenti un certo deficit di tassatività, non essendo ben chiare a priori quali siano le condotte, sia pure silenti, che integrano e caratterizzano la mafiosità di un'associazione criminale, il che impone un'attenta riflessione anche sulla compatibilità di tale modello con l'art. 7 della Convenzione europea, così come viene interpretato dalla Corte di giustizia di Strasburgo.

Secondo i giudici europei, infatti, una norma è prevedibile, nel senso di sufficientemente determinata e quindi conforme all'art. 7 della Convenzione, quando è scritta con tale precisione da permettere a chiunque abbia bisogno di informazioni chiare su come comportarsi, di regolare la propria condotta (cfr. Corte Edu, Sez. III, 30 maggio 2017, Trabajo Rueda c. Espagne): in tale prospettiva non è così certo che l'art. 416-bis c.p., nella interpretazione più estensiva che ne viene proposta in giurisprudenza, passerebbe indenne lo scrutinio della Corte Edu.

Il secondo modello ha a proprio favore un aggancio letterale nel testo della norma incriminatrice, laddove si precisa che l'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva: è insomma l'avvalersi testuale contenuto nella norma, che implica una manifestazione all'esterno del metodo mafioso, attraverso comportamenti oggettivamente riscontrabili.

Ma aldilà dei tecnicismi, è evidente che questa è una partita che si gioca sul tavolo della politica giudiziaria, ed è prevedibile che l'annosa questione della scelta tra l'uno o l'altro modello teorico sia presto riproposta, e le Sezioni unite siano quindi chiamate ad un intervento chiarificatore e definitivo sulla questione, con inevitabili ricadute anche sul piano della politica del diritto.

Guida all'approfondimento

BALSAMO, RECCHIONE, Mafie al nord, in Dir. pen. cont., 2013;
SPARAGNA, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont.

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