Bancarotta. Precisazioni sulla figura dell'amministratore di fatto e differenze rispetto al concorrente esterno

Ciro Santoriello
24 Ottobre 2016

Da tempo, dottrina e giurisprudenza, specie nell'ambito del diritto penale commerciale, riconoscono che la responsabilità penale per i cosiddetti reati societari deve riguardare anche coloro che, senza essere investiti formalmente da nessuna delle cariche e qualifiche ...
Massima

Ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta fraudolenta documentale, le condotte di mancata consegna ovvero di sottrazione, di distruzione o di omessa tenuta dall'inizio della documentazione contabile, sono tra loro equivalenti, con la conseguenza che non è necessario accertare quale di queste ipotesi si sia in concreto verificata se è comunque certa la sussistenza di una di esse ed è inoltre acquisita la prova in capo all'imprenditore dello scopo di recare pregiudizio ai creditori e di rendere impossibile la ricostruzione del movimento degli affari.

Il caso

Nell'ambito di un procedimento per bancarotta fraudolenta, in sede di merito gli amministratori della società fallita venivano condannati per i reati di bancarotta fraudolenta documentale e fraudolenta. Ad uno di costoro la condotta di bancarotta era contestato in quanto – dopo essere stato amministratore di diritto della società fallita – ne avrebbe rivestito successivamente il ruolo di titolare e gestore di fatto.

Avverso quest'ultimo profilo veniva presentato ricorso per cassazione denunciando, in primo luogo, la violazione del principio di correlazione per il difetto di contestazione della qualifica di amministratore di fatto della fallita attribuitogli nelle decisioni di merito. Inoltre, la difesa contestava la tenuta logica del ragionamento attraverso cui la Corte territoriale aveva ritenuto provata l'assunzione di tale qualifica da parte dell'imputato, rimanendo indimostrato l'esercizio continuativo di fatto dell'attività gestionale da parte del condannato.

La questione

Da tempo, dottrina e giurisprudenza, specie nell'ambito del diritto penale commerciale, riconoscono che la responsabilità penale per i cosiddetti reati societari – ivi compresi gli illeciti fiscali ed i delitti di bancarotta – deve riguardare anche coloro che, senza essere investiti formalmente da nessuna delle cariche e qualifiche societarie descritte e considerate dagli artt. 2621 ss. c.c. e art. 216 ss. r.d. 267 del 1942, esercitino di fatto le relative funzioni (in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. V, 11 novembre 2009, in Fall., 2010, 679; Cass. pen., Sez. V, 17 gennaio 1996, Giumento, in Cass. pen. 1997, p. 547; Cass. pen., Sez. V, 22 aprile 1998, Galimberti, ivi, 2000, p. 3451).

A sostegno di tale tesi sono state richiamate numerose ragioni, incentrate tutte, essenzialmente, sulla circostanza che il cosiddetto amministratore di fatto, a prescindere dall'inesistenza della nomina, dall'irregolarità della stessa o dalla cessazione dalla carica, è in grado comunque, in relazione alle funzioni in concreto svolte, di avere con il bene protetto dalla disposizione quella medesima tipologia di rapporto considerata dalla norma penale, ed è quindi in grado di arrecare all'interesse protetto quel danno che la sanzione penale vuole reprimere: come è stato detto, se il soggetto si trova a svolgere effettivamente le funzioni previste dalla legge, esso si può ritenere in relazione con la norma incriminatrice.

Poche sono state nel tempo le voci contrarie a tali conclusioni. In proposito, alcuni autori, nel contrastare le su esposte affermazioni, richiamavano la natura sanzionatoria del diritto penale societario e fallimentare rispetto alla correlativa disciplina civilistica e la conseguente dipendenza esegetica delle disposizioni penalistiche dalle relative qualificazioni del diritto commerciale. Sulla base di tali presupposti si è argomentato, in primo luogo, che le definizioni di amministratore, sindaco, direttore generale ecc., richiamate dalle norme penali sarebbero esclusivamente quelle fatte proprie dalle corrispondenti disposizioni civili, ed in particolare dall'art. 2382 c.c.; queste definizioni del diritto commerciale non sarebbero a loro volta suscettibili di applicazione o interpretazione analogica stante il principio di tassatività vigente in materia penale. Di conseguenza, riconosciuto che il contenuto delle diverse figure di soggetti attivi presenti nelle fattispecie del diritto penale societario andava ricavato solo ed esclusivamente sulla base della interpretazione delle norme di natura privatistica presupposte, si riteneva che l'assenza della qualifica richiamata dalla disposizione sanzionatoria facesse venire meno la stessa tipicità del fatto, venendone a mancare un elemento essenziale e fondante (PEDRAZZI, Gestione). Accanto a tali considerazioni, di carattere generale, si sosteneva che proprio l'esistenza di una pluralità di qualifiche soggettive nell'ambito del diritto societario precludeva la possibilità di riconoscere una rilevanza penale alla figura dell'amministratore di fatto: sul piano dell'esercizio di fatto di una funzione gestoria, la moltiplicazione delle qualifiche suonerebbe superflua ed equivoca […] se davvero fosse decisiva la funzione esercitata di fatto, non si spiegherebbe che una parte soltanto delle incriminazioni concernenti gli amministratori sia applicabile ai direttori generali, le cui funzioni nella pratica si differenziano ancora meno che nella legge; se la figura avesse consistenza il direttore generale sarebbe un tipico amministratore di fatto (Ancora PEDRAZZI, op. cit. p. 250; ID., Società).

A queste argomentazioni giurisprudenza e dottrina hanno sempre più spesso replicato che anche ammettendo che in sede penale dovessero recepirsi, senza modifica alcuna, le definizioni civilistiche di amministratore, direttore generale ecc., non sarebbe stato comunque possibile affermare che la normativa civilistica non considera la figura dell'amministratore di fatto, ovvero, più in generale, che essa non riconosce rilevanza al concreto esercizio di funzioni di gestione e controllo delle persone giuridiche, pur in assenza di una regolare e vigente investitura formale (In tal senso conclude anche la giurisprudenza civile: cfr. Cass. civ., 12 gennaio 1984, in Giur. Comm. 1985, II, p. 182; Cass. civ., Sez. I, 6 marzo 1999, n. 1925. Sui rapporti fra l'ambito civile e quello penale M.C. CAPIROSSI). Inoltre, più in generale, soprattutto la giurisprudenza, per ragioni di migliore e più intensa tutela del bene giuridico, ha riconosciuto assoluta rilevanza al momento effettuale dello svolgimento delle funzioni, sostenendo che la norma penale si riferisce non già all'aspetto formale delle qualifiche bensì alle funzioni inerenti a tali qualifiche, che pongono il soggetto, in relazione all'interesse protetto dalla legge, nella particolare effettiva situazione personale e sociale, da cui scaturisce l'obbligo della lealtà e della correttezza nell'espletamento delle funzioni medesime.

In conclusione, dunque, che l'attribuzione di un rilievo penale all'esercizio di fatto di determinate funzioni all'interno dell'impresa societaria rappresentasse un approdo necessario per evitare pericolosi vuoti di tutela nella protezione degli interessi considerati dal Legislatore era una acquisizione pacifica: posto che scopo di una disposizione sanzionatoria è la protezione dei beni che possono essere offesi nel corso dell'esercizio dell'attività imprenditoriale, appariva assolutamente necessario prevedere la responsabilità di tutti i soggetti che quei beni potessero aggredire secondo le modalità descritte dalle norme penali (SANTORIELLO).

L'affermazione della rilevanza penalistica allo svolgimento di fatto funzioni di amministrazione all'interno dell'impresa ha oggi un riconoscimento anche a livello normativo, posto che l'art. 2639 c.c. prevede espressamente l'equiparazione al soggetto qualificato anche di quanti, in assenza di formale investitura, esercitino comunque in modo continuativo i poteri tipici inerenti la qualifica e le funzioni considerate nella previsione della fattispecie: è così normativamente fissato il principio in base al quale vanno considerati destinatari dei nuovi precetti penali societari, oltre ai soggetti formalmente titolari delle qualifiche richiamate dalle diverse disposizioni, anche quanti risultino esterni alla compagine sociale – ovvero rivestano all'interno della stessa ruoli diversi – ma di fatto assumano o svolgano le stesse mansioni in ragione dei poteri in concreto a loro disposizione.

La disposizione del codice civile peraltro indica anche quali sono gli estremi e gli indici in presenza delle quali si può ritenere si sia in presenza di un amministratore di fatto: in particolare, occorre da un lato che i poteri in fatto esercitati si palesino come significativi e tipici, dall'altro è necessario che l'esercizio degli stessi sia svolto in modo continuativo. Con la prima previsione si intende far riferimento alla circostanza che i poteri esercitati in via di fatto devono corrispondere a quelli che la normativa civilistica attribuisce ai soggetti forniti della relativa qualifica societaria., anche considerando le diverse qualificazioni soggettive scaturite dalla nuova disciplina civilistica entrata in vigore con il decreto legislativo 17 gennaio 2003 n. 6. Con il secondo profilo, invece, la norma intende impedire che possa ravvisarsi l'assunzione fattuale di una funzione amministrativa anche in comportamenti di estemporanea ingerenza non potendosi ritenere che chiunque svolga una qualche attività gestoria all'interno di una società commerciale debba invariabilmente divenire amministratore di fatto.

Dal dettato normativo sopra indicato, che si ritiene pacificamente applicabile anche con riferimento al diritto penale fallimentare di cui agli artt. 216 e seguenti r.d. 267 del 1942, discende che non si possa parlare di amministratore di fatto con riferimento alla posizione del singolo che si intrometta nella gestione dell'azienda per il compimento di singole attività ma occorre un esercizio continuativo e significativo dei relativi poteri secondo quanto indica l'art. 2639 c.c., anche se non è necessario che il singolo eserciti tutti i poteri dell'organo di gestione, essendo sufficiente l'esercizio di una apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale (Cass. pen., Sez. V, 29 dicembre 2015, n. 51091; Cass. pen., Sez. V, 28 maggio 2015, n. 22896). Ne consegue che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive, in qualsiasi fase della seguenza organizzativa, produttivo commerciale dell'attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori e clienti ovvero in qualsiasi settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare (sul tema insiste particolarmente in Cass. pen., Sez. V, 22 febbraio 2016, n. 6813, secondo cui la qualifica di amministratore di fatto non può essere fatta derivare dalla semplice circostanza che il soggetto privo della qualifica formale abbia avuto solo un significativo coinvolgimento nell'operazione di bancarotta per quanto tali condotte delittuose possono risultare complesse significative).

Peraltro, il soggetto che assume la qualifica di amministratore di fatto è gravato dell'intera gamma di doveri che competono all'amministratore di diritto, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, fra i quali vanno ricomprese le condotte dell'amministratore di diritto, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia di fronte a tali condotte, in applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p., con la conseguenza, per l'appunto, che all'amministratore di fatto compete anche un obbligo di vigilanza sul comportamento dell'amministratore di diritto (Cass. pen., Sez. V, 30 marzo 2016, n. 12793; Cass. pen., Sez. V, 18 marzo 2015, n. 11405).

Alla luce delle ultime riflessioni, non pare dunque sostenibile la tesi, avanzata da alcuni, secondo cui non sarebbe possibile riconoscere la presenza di un amministratore di fatto nei casi in cui le relative funzioni siano espletate, all'interno della società considerata, dai soggetti titolari anche in senso formale delle relative qualifiche, essendo necessario, perché possa operare la previsione di cui all'art. 2639, comma 1, c.c., che questi ultimi siano assenti o comunque omettano di svolgere i compiti loro assegnati dalla legge. Quest'ultima affermazione ci pare non condivisibile, posto che in alcun modo il ricorrere della figura di amministratore di fatto richiede l'assenza o comunque una condotta omissiva da parte del soggetto formalmente titolare di tale posizione apicale: nulla esclude infatti che la gestione operativa della società possa essere rimessa a più soggetti, dei quali solo alcuni formalmente investiti dei relativi poteri.

Il carattere significativo dell'esercizio dei poteri gestori non implica la totale sostituzione ai soggetti formalmente titolari delle cariche sociali ma è circostanza che va valutata in concreto, a secondo del contesto complessivo entro il quale si inserisce il contegno del soggetto privo di formale investitura e quindi, anche l'esercizio continuativo di una delle funzioni proprie degli amministratori, coordinata con altre, potrebbe indurre ad equiparare il soggetto di fatto alla corrispondente figura formale, purché tuttavia quella "porzione funzionale" rivesta la suddetta pregnanza e non si riduca a contributo qualitativamente marginale e trascurabile. Chiaramente, nella gran parte dei casi, il problema sarà di verificare l'ambito di responsabilità da riconoscere tanto al legittimo amministratore, che al soggetto che di fatto esercita le medesime funzioni, ma trattasi di profilo che attiene il merito della concreta vicenda, e non il tema della possibilità di configurare la presenza di un amministratore di fatto anche laddove operi, nell'ambito della medesima azienda, un soggetto formalmente titolare della posizione direttiva (in proposito in giurisprudenza, Cass. pen., Sez. V, 25 marzo 2004, Sappracone, in Guida Diritto, 2004, 35, 72, nonché Cass. pen., Sez. V, 14 aprile 2003, Sidoli, in Riv. Trim. Dir. Pen. ec., 2004, 925, con nota di MERENDA, “Esercizio dei poteri tipici” ed amministrazione ‘di fatto' nel nuovo diritto penale societario).

Le soluzioni giuridiche

Sostanzialmente la decisione della Cassazione in commento ribadisce quanto da tempo sostenuto dalla giurisprudenza ed in dottrina e sinteticamente esposto nel precedente paragrafo.

Dopo aver dichiarata infondata l'eccezione relativa alla presunta violazione del principio di correlazione in merito all'attribuzione all'imputato della qualifica di amministratore di fatto della fallita, in quanto all'imputato le condotte di bancarotta erano state contestate in termini generali quale amministratore dell'impresa, senza specificare se fosse stato amministratore di diritto o di fatto, la Corte di legittimità evidenzia come invece colgano nel segno le censure mosse dal ricorrente alla motivazione della sentenza in merito alla dimostrazione dell'effettiva assunzione da parte dell'imputato della qualifica di amministratore di fatto della fallita.

Viene in proposito richiamato il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui è amministratore di fatto non chi eserciti tutti i poteri propri dell'organo di gestione ma, quantomeno, un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico o occasionale, con la conseguenza che la prova della posizione di amministratore di fatto si traduce nell'accertamento di elementi sintomatici dell'inserimento organico del soggetto con funzioni direttive nella società (Cass. pen., Sez. V, 20 giugno 2013, n. 35346).

Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva invece ritenuto l'imputato amministratore di fatto della fallita in virtù da alcuni comportamenti tenuti dallo stesso, consistiti nel presentarsi quale rappresentante legale della fallita in occasione della verifica fiscale subita dalla medesima proponendosi come referente per i finanzieri operanti nel corso del suo svolgimento e, sempre nella stessa veste, nell'accendere un conto corrente intestato alla società, operando sullo stesso e consentendo che vi operassero anche altri soggettivi. Tale apparato giustificativo, tuttavia, alla luce dei principi sopra ricordati, appare alla Cassazione gravemente lacunoso, non avendo tenuto conto la sentenza del ristretto arco di tempo in cui erano stati tenuti i comportamenti sopra descritti, senza spiegare le ragioni per cui si era ritenuto di poter escludere che l'imputato si fosse limitato a prestare un contributo –certamente rilevante – alla consumazione delle altrui condotte delittuose, agendo come prestanome di terzi, senza in alcun modo intendere assumere l'effettiva gestione della società in maniera effettivamente continuativa.

Va detto che la Cassazione – ricostruito nei termini anzidetti il comportamento delittuoso dell'imputato – non lo considera certo privo di valenza penale, ma ne sottolinea la qualificazione in termini (non di condotta dell'amministratore di fatto, bensì di) concorrente extraneus nel reato commesso dagli altri gestori dell'impresa fallita.

Osservazioni

Importante la distinzione che la Cassazione opera fra la figura dell'amministratore di fatto ed il concorrente esterno nei reati di bancarotta. Infatti, laddove si attribuisca la seconda delle qualifiche anzidette nulla muta se la contestazione concerne fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniali – potendo essere le condotte di distrazione venire poste in essere indifferentemente tanto dall'amministratore di fatto che dall'extraneus, mentre diverse sono le conclusioni da assumere in caso si procede per il reato di bancarotta documentale.

Tale illecito, infatti, non potrebbe essere al soggetto qualificato come concorrente extraneus a meno che non venga provato un suo effettivo contributo alla consumazione del reato – si pensi al soggetto che materialmente provvede alla distruzione o occultamento delle scritture contabili – non potendosi attribuire a che non riveste la qualifica di amministratore – di fatto o di diritto – un obbligo di adeguata compilazione e conservazione della documentazione contabile dell'impresa fallita.

Guida all'approfondimento

Sulla configurabilità della responsabilità penale in capo a che, senza essere investiti formalmente da nessuna delle cariche e qualifiche societarie descritte e considerate dagli artt. 2621 ss. c.c. e 216 ss. r.d. 267 del 1942, esercitino di fatto le relative funzioni:

AA.VV., La riforma del diritto fallimentare, Piacenza 1986, 105;
ABRIANI, Gli amministratori di fatto delle società di capitali, Milano 1998;
CANESTRARI, I soggetti responsabili. La delega di funzioni e la responsabilità a titolo di concorso di persone nei reati tributari, in CORSO –STORTONI (a cura di), I reati in materia fiscale, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, a cura di BRICOLA –ZAGREBELSKY, Torino 1990, 130;
CONTI, I soggetti, in Trattato di diritto penale dell'impresa, diretto da DI AMATO, Padova 1992, 231;
CONTI - BRUTI LIBERATI, Esercizio di fatto dei poteri di amministrazione e responsabilità penali nell'ambito delle società irregolari, in Diritto penale delle società commerciali, Milano 1971, 123;
FLORA, I soggetti penalmente responsabili nell'impresa societaria, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, Milano 1991, 545;
MUCCIARELLI, Responsabilità penale dell'amministratore di fatto, in Società, 1989, 121;
SANTORIELLO, I reati di bancarotta, Torino 2000, 162PRICOLO, Brevi note sulla figura dell'amministratore di fatto quale soggetto attivo dei reati fallimentari, in

TETTO, Gli evanescenti profili di responsabilità penale dell'amministratore di fatto di società di persone dichiarata fallita, in Fall., 2010, 679.

Contra:

PEDRAZZI, Gestione d'impresa e responsabilità penali, in Riv. Soc., 1962, p. 22;

ID., Società commerciali (disciplina penale), in Dig. Disc. Pen., vol. XIII, Torino 1998, p. 351

Sui rapporti fra l'ambito civile e quello penale

CAPIROSSI, Legem non curat praetor. Responsabilità civili e penali dell'amministratore di fatto, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2005, p. 766.

Sull'art. 2639 c.c.

VENEZIANI, Art. 2639 c.c., in AA.VV., I nuovi reati societari, a cura di LANZI –CADOPPI, Padova 2006, 299.
Critico invece GIUNTA, Lineamenti di diritto penale dell'economia, II^ ed., Torino 2004, 155.

Sulla necessità che l'amministratore di fatto eserciti i poteri in modo continuativo:

ALESSANDRI, I soggetti, in AA.VV., Il nuovo diritto penale delle società, a cura di ALESSANDRI, Milano 2002, 37;
CASTELLANA, L'equiparazione normativa degli autori di fatto agli autori di diritto per i reati del riscritto titolo XI libro V c.c., in Ind. Pen., 2005, 1067;

DI GIOVINE, L'estensione delle qualifiche soggettive (art. 2639), in AA.VV., I nuovi reati societari: diritto e processo, a cura di GIARDA –SEMINARA, Padova 2002, 5;
GIUNTA, Reati societari e qualifiche soggettive: questioni normative ed interpretative, in Dir. Prat. Soc., 2004, 19, 31

GULLO, Il reato proprio. Dai problemi “tradizionali” alle nuove dinamiche d'impresa, Milano 2005, p. 185; ROSSI, La responsabilità penale dei componenti degli organi di amministrazione e di controllo. Brevi considerazioni generali sulla fattispecie concorsuale nei reati societari, in AA. VV., I reati societari, a cura di A. ROSSI, Torino 2005, 62;

MARRA, Legalità ed effettività delle norme penali. La responsabilità dell'amministratore di fatto, Torino 2002;

PEDRAZZI, Corporate governance e posizioni di garanzia, in AA.VV, Scritti giuridici per Guido Rossi, II, Milano 2002, 1367.

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