La valutazione delle dichiarazioni rese dai chiamanti in reità e correità. I principi della suprema Corte

25 Novembre 2015

In tema di valutazione della chiamata in reità, la verifica dell'intrinseca attendibilità delle dichiarazioni può portare anche ad esiti differenziati, purché la riconosciuta inattendibilità di alcune di esse non dipenda dall'accettata falsità delle medesime, giacché, in tal caso, il giudice di regola è tenuto ad escludere la stessa generale credibilità soggettiva del dichiarante.
Massima

Nella valutazione della chiamata in correità o in reità, il giudice deve verificare la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni e dunque accertare l'esistenza di riscontri esterni; tale percorso valutativo non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l'art. 192, comma 3, c.p.p., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale.

In tema di valutazione della chiamata in reità, la verifica dell'intrinseca attendibilità delle dichiarazioni può portare anche ad esiti differenziati, purché la riconosciuta inattendibilità di alcune di esse non dipenda dall'accettata falsità delle medesime, giacché, in tal caso, il giudice di regola è tenuto ad escludere la stessa generale credibilità soggettiva del dichiarante.

Laddove sia accertata la falsità di parte del narrato del chiamante in reità, la valutazione frazionata dell'attendibilità delle dichiarazioni sarà ancora possibile solo laddove le false propalazioni riguardino altro soggetto oppure altro reato, sempre che esista una provata ragione specifica che abbia indotto il dichiarante a mentire; in questa ultima ipotesi l'onere motivazionale del giudice sarà rafforzato, non potendo egli omettere di affrontare la questione e spiegare le ragioni per cui l'inattendibilità parziale delle dichiarazioni, processualmente smentite, non incide sull'attendibilità del dichiarante.

Il caso

La Corte di assise di Catanzaro, con sentenza confermata in appello, ha condannato due soggetti alla pena dell'ergastolo per il delitto di omicidio pluriaggravato e per i connessi reati di porto e detenzione di arma comune da sparo; entrambi sono stati assolti da analoghe imputazioni relative ad altra condotta omicidiaria (è utile sottolineare che gli omicidi sono maturati, secondo la contestazione, in seno alle dinamiche proprie della criminalità organizzata). La pronuncia di seconde cure è stata annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione, la quale ha disposto un nuovo giudizio sui capi della decisione relativi ad entrambe le imputazioni di omicidio ed alle correlate imputazioni inerenti alla violazione delle norme in materia di armi. In particolare, il Giudice di legittimità ha ritenuto fondate le doglianze oggetto dell'atto di appello degli imputati inerenti alla valutazione delle propalazioni del collaboratore di giustizia in ragione delle quali le Corti di merito avevano affermato la prova dei fatti (sotto il profilo della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'intrinseca coerenza della sua esposizione nonché in considerazione dell'addotto contrasto tra la sua ricostruzione e gli altri elementi emersi nel corso dell'istruttoria).

Anche il Giudice di rinvio ha confermato integralmente la sentenza di prime cure:

  • ritenendo solo parzialmente attendibile il medesimo collaboratore, nella parte in cui, fin dall'inizio, ha ascritto ai due imputati rispettivamente il ruolo di mandante ed esecutore materiale del primo omicidio;
  • e giudicando del tutto attendibile altro chiamante con riguardo alla narrazione del secondo omicidio, stimando invece inattendibili tutti gli altri collaboratori, e dunque ritenendo priva del prescritto riscontro individualizzante (art. 192, comma 3, c.p.p.) l'accusa del primo.

Avverso la pronuncia della Corte di assise d'appello di Catanzaro appena menzionata hanno proposto gravame sia i difensori degli imputati, sia (per il capo contenente le statuizioni liberatorie) il procuratore generale di Catanzaro.

Per quel che più rileva, alla luce di quanto statuito nella sentenza in commento, i difensori hanno fondato la propria impugnazione su un vizio di motivazione e sulla violazione degli artt. 192 e 627 c.p.p., denunciando l'erroneità della valutazione di attendibilità delle propalazioni in atti, in violazione del dictum della precedente sentenza di annullamento con rinvio. Oggetto di censura, infatti, è stata la valutazione di plausibilità espressa dalla Corte d'assise d'appello in relazione:

  • alla narrazione del movente omicidiario, come rassegnato dal collaboratore di giustizia sulle cui propalazioni si fonda il percorso motivazionale della sentenza gravata, in particolare, avuto riguardo agli allegati contrasti tra l'esposizione del medesimo collaboratore e quella di altro chiamante in correità le cui dichiarazioni de relato sul punto fungono da riscontro delle prime;
  • alla dinamica dell'omicidio e al ruolo svolto dallo stesso collaboratore di giustizia che l'ha riferito, poiché la motivazione, pur riconoscendo la falsità di quanto affermato in ordine al proprio ruolo e all'ora della morte, ne ha ritenuto credibili le propalazioni nella parte in cui descrivono il ruolo dei due imputati, facendo erronea applicazione del c.d. principio di frazionabilità, non valutandone il percorso professionale e processuale,l'intenzione di coprire le proprie responsabilità, il difetto di costanza rispetto al fatto di uno degli imputati (mai menzionato nei primi tre racconti del medesimo chiamante).

Il procuratore generale di Catanzaro ha invece addotto un vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge penale in relazione all'articolo 192 c.p.p. e, in particolare, dei criteri di valutazione della prova, nella parte in cui la pronuncia ha affermato – nel capo assolutorio – l'inattendibilità delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia (ad eccezione di uno), valorizzando pregressi giudizi di inattendibilità formulati in altri processi, ritenendo perciò la necessità di un obbligo di motivazione rafforzato e così trascurando:

  • il fatto che uno di essi è stato giudicato attendibile in altra sentenza, emessa in un giudizio del quale quello de quo costituisce stralcio;
  • nonché la convergenza del narrato di tutti i collaboratori, i quali avrebbero attribuito ai due imputati il medesimo ruolo nell'illecito, sufficiente a pervenire ad una decisione di condanna in applicazione dei princìpi giurisprudenziali della cosiddetta "convergenza del molteplice" e della frazionabilità della valutazione delle dichiarazioni accusatorie.

La Corte di cassazione ha evidenziato che la Corte diassise di appello di Catanzaro, nel confermare (per la seconda volta) l'affermazione di responsabilità contenuta nella pronuncia di prime cure (per il tramite di un percorso diverso rispetto a quello oggetto della precedente sentenza di appello già annullata):

  • ha utilizzato esclusivamente le dichiarazioni di due collaboratori (uno quale principale chiamante in reità, il secondo come riscontro), escludendo quelle di tutti gli altri ed utilizzando alcuni riscontri esterni (due conversazioni intercettate e le dichiarazioni rese da soggetti diversi dai collaboranti);
  • ed ha ritenuto di poter superare “il netto contrasto” (in relazione alla dinamica del fatto ed al ruolo svolto dal primo dei collaboratori) tra le accuse rese da costui e le dichiarazioni giudicate credibili rese da due testimoni, facendo applicazione del principio della valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie, ritenendo il collaboratore attendibile solamente nella parte in cui ha accusato i due imputati di essere rispettivamente il mandante [e l']esecutore materiale dell'omicidio.
La questione

Il supremo Collegio, alla luce delle doglianze mosse dai ricorrenti, è stato chiamato a pronunciarsi:

  1. sul metodo di valutazione delle dichiarazioni rese dai chiamanti in reità e correità, funzionale ad affermarne o negarne la capacità rappresentativa rispetto all'oggetto della regiudicanda;
  2. nonché sulla c.d. valutazione frazionata delle propalazioni provenienti da costoro, ossia sui limiti entro i quali può riconoscersi valenza probatoria alle dichiarazioni provenienti dai medesimi soggetti solo con riferimento a taluni imputati o a talune imputazioni.

Si tratta di temi sui quali la Corte si è espressa in più occasioni e che possono dirsi, ormai, regolati da princìpi giurisprudenziali consolidati.

Le soluzioni giuridiche

A proposito della valutazione delle dichiarazioni rese dai chiamanti in reità e correità, la sentenza ha richiamato il metodo a tre tempi – chiarito a suo tempo da un arresto delle Sezioni unite (Cass. pen., Sez. un., 22 febbraio 1993, n. 1653) – metodo che prescrive al giudice la verifica della credibilità del dichiarante (come può leggersi nella pronuncia in commento, in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socio-economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed alla accusa dei coautori e complici) e della intrinseca consistenza della propalazione (alla luce di criteri quali, tra gli altri, quelli della precisione, della coerenza, della costanza, della spontaneità, cfr. la medesima pronuncia) – momenti da riferirsi al profilo dell'attendibilità intrinseca; nonché, infine, il vaglio della attendibilità estrinseca per il tramite dei c.d. riscontri esterni (ossia, gli "altri elementi " richiamati dall'art. 192, comma 3, c.p.p. che – pur non costituendo da sé soli prova del reato per cui si procede – hanno ad oggetto direttamente la persona dell'incolpato e sono dotati di idoneità dimostrativa in relazione allo specifico fatto a lui ascritto e, quindi, sono individualizzanti, cfr., per tutte, Cass. pen., Sez. un., 30 ottobre 2003, n. 45276 e Cass. pen., Sez. III, 10 dicembre 2009, n. 3225).

Richiamando il principio di diritto espresso più di recente dalle Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. un.,29 novembre 2012-14 maggio 2013, n. 20804), la sentenza in esame ha, altresì, ribadito che la riferita tripla verifica […] non deve muoversi attraverso passaggi rigidamente separati, in quanto la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto devono essere vagliate unitariamente, non indicando l'art. 192, comma 3, c.p.p., alcuna specifica tassativa sequenza logico-temporale.

E, aspetto questo non meno importante – segnatamente, in considerazione delle censure mosse dal Pubblico Ministero, il quale aveva rimarcato come il principale collaboratore escusso nel procedimento in discorso fosse stato già valutato attendibile in un giudizio instaurato a seguito della medesima indagine –, la pronuncia ha rimarcato che la credibilità non è uno status del dichiarante, né ovviamente è uno status permanente, ma va vista in relazione alla dichiarazione, così soggiungendo: un dichiarante è credibile, perché è attendibile la sua dichiarazione e non viceversa (una dichiarazione è attendibile, perché il dichiarante è credibile).

Ancora, la pronuncia, rimandando ad un precedente arresto giurisprudenziale (Cass. pen., Sez. V, 8 ottobre 1999, n. 14272), pur osservando che non vi sono differenze concettuali o di principi applicabili al chiamante in correità rispetto al chiamante in reità, ha sottolineato che la chiamata in correità, in quanto confessione del fatto proprio e altrui, abbisogna di una verifica meno rigorosa di quella necessaria per controllare la chiamata in reità.

Ribadito il metodo da utilizzare per valutare la credibilità delle propalazioni provenienti dal chiamante in reità o correità, la Corte ha esaminato il tema della c.d. valutazione frazionata, che ha collocato in seno al detto metodo.

Il Collegio ha ricordato che:

  • la possibilità di una valutazione frazionata degli asserti del medesimo dichiarante è stata dapprima affermata in relazione ai casi in cui una narrazione – che avesse superato positivamente il vaglio sotto il profilo della credibilità soggettiva e dell'attendibilità intrinseca – non trovasse tuttavia riscontri individualizzanti in relazione a tutti i fatti di reato sub iudice o a ciascuno dei soggetti imputati;
  • in tali ipotesi, la giurisprudenza di legittimità si è orientata nel senso di “riconoscere al giudice la libertà di ritenere attendibile anche una sola parte della chiamata, per evitare che l'assenza di riscontri individualizzanti rispetto alle altre parti pregiudichi l'accertamento della responsabilità personale dell'imputato”, considerando conforme al disposto dell'art. 192, comma 3, c.p.p. la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie rese da un chiamante in reità o correità (cfr. pure Cass. pen., sez. I, 30 gennaio 1992, n. 6992).

Ma – ha aggiunto il provvedimento – il problema della valutazione frazionata si è posto pure per le dichiarazioni ritenute parzialmente inattendibili e, quel che più rileva nella fattispecie, nei casi di falsità del narrato del chiamante. La Corte di Cassazione ha riportato anche a tale proposito precedenti arresti, i quali hanno affermato:

  • che laddove la parziale inattendibilità dipenda dall'accertata falsità di alcune dichiarazioni, il giudice è tenuto ad escludere la stessa generale credibilità soggettiva del dichiarante, a meno che non esista una provata ragione specifica che abbia indotto quest'ultimo a rendere quelle singole false propalazioni (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 24 gennaio 2008, n. 9450);
  • con riguardo alle dichiarazioni ritenute parzialmente false, che l'accertata falsità di uno specifico fatto narrato non impedisce di valorizzare le ulteriori parti di un racconto più complesso svolto dal dichiarante, se supportate da precisi riscontri, anche non specifici su ciascun elemento dichiarato, idonei a compensare il difetto di attendibilità soggettiva (cfr. Cass. pen., Sez. I, 8 maggio 2013, n. 35561) ma ciò sempreché non debba ravvisarsi un'interferenza fattuale e logica tra la parte del narrato ritenuta falsa e le rimanenti parti e l'inattendibilità non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere la stessa credibilità del dichiarante.

Il Collegio ha posto a sostegno della propria statuizione il principio appena esposto sub a. (rimandando a Cass. pen., sez. V, 15 luglio 2008, n. 37327, e Cass. pen., sez. III, 24 gennaio 2013, n. 14084, che pure lo hanno ribadito) e ha sottolineato che, in tali ipotesi, l'onere motivazionale per il giudice di merito deve essere “particolarmente rafforzato”.

Dunque, ne ha tratto la conclusione che:

  • laddove le false dichiarazioni attengano al medesimo fatto storico da provare e vertano su aspetti non marginali, appare davvero arduo sostenere che il giudizio di inattendibilità su alcune circostanze non infici[…] la credibilità delle altre parti del racconto, essendo sempre e necessariamente ravvisabile un'interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato;
  • laddove la falsità, come nel caso di specie, attenga alle specifiche responsabilità del dichiarante nel reato, viene fortemente messa in discussione la sua complessiva credibilità soggettiva;
  • la valutazione frazionata delle dichiarazioni sarà in astratto possibile solamente se la falsa dichiarazione attiene ad altro reato oppure alla responsabilità di altro soggetto, ma non certamente se riguarda lo stesso imputato e lo stesso fatto (così la sentenza in commento).
Osservazioni

1. La pronuncia in commento si colloca nel solco della ormai consolidata giurisprudenza di legittimità relativa al metodo mediante il quale il giudice deve pervenire al proprio convincimento sulla prova dichiarativa, al fine di fondare su di essa le proprie statuizioni, quando escusse siano le persone imputate in procedimento connesso o collegato ovvero i testimoni assistiti.

Invero, sia che si vogliano distinguere tre momenti, ossia la credibilità soggettiva (o attendibilità intrinseca soggettiva), l'attendibilità del narrato (o attendibilità intrinseca oggettiva), l'attendibilità estrinseca (come la sentenza ha fatto richiamando Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2003, n. 45276; cfr. pure Cass. pen., S.U., 29 novembre 2012 – 14 maggio 2013, n. 20804, anch'essa citata nel provvedimento in commento), sia che si vogliano sussumere i primi due momenti in un'unica categoria che li comprende (l'attendibilità intrinseca) cui sempre deve seguire il controllo dell'attendibilità estrinseca (cfr. Cass., Sez. un., 21 aprile 1995, n. 11), non vi è dubbio che la verifica giudiziale delle propalazioni de quibus non possa prescindere:

  • dall'esame della credibilità del dichiarante (ossia, dal vaglio della sua personalità, dal grado di conoscenza della materia riferita, dalle modalità di esternazione delle dichiarazioni);
  • dal controllo della intrinseca consistenza dello stesso narrato (sotto il profilo della costanza, della logica interna, della ricchezza di contenuti descrittivi, della verosimiglianza);
  • dalla corroboration per il tramite dei riscontri esterni individualizzanti (dati probatori di tipo rappresentativo o logico indipendenti dalla chiamata da corroborare; sul punto, si veda la voce bussola Chiamata in reità o correità).

2. La Corte segue un orientamento consolidato pure nella parte in cui esclude che la “tripla verifica” in discorso debba compiersi tramite passaggi separati: in tal senso si sono espresse anche le Sezioni Unite (cfr. Cass. pen., Sez. un., 29 novembre 2012 – 14 maggio 2013, n. 20804, cit.), le quali – rimandando ad arresti precedenti (Cass. pen., Sez. I, 17 maggio 2011, n. 19579; Cass. pen., Sez. VI, 13 marzo 2007, n. 11599) – hanno evidenziato che in particolare, la credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto, influenzandosi reciprocamente, al pari di quanto accade per ogni prova dichiarativa, devono essere valutate unitariamente, «discendendo ciò dai generali criteri epistemologici e non indicando l'art. 192, comma 3, c.p.p., sotto tale profilo, alcuna specifica regola derogatoria» […].

3. C'è, poi, un profilo – già sopra menzionato – che la Corte puntualizza e che, quantunque possa apparire ovvio e persino scontato, ad avviso di chi scrive merita attenzione: il fuoco della valutazione di attendibilità deve individuarsi nella dichiarazione e non nel dichiarante e la credibilità non è uno status del collaboratore, una sorta di patente che conferisce un crisma di affidabilità alle sue propalazioni. Tale osservazione assume particolare importanza soprattutto nei procedimenti di criminalità organizzata, poiché – in maniera perfettamente comprensibile in ragione delle peculiari caratteristiche delle associazioni di tipo mafioso – taluni dichiaranti sono spesso chiamati a depore su numerosi fatti, oggetto diversi giudizi nei confronti di più soggetti. In tali contesti, non è infrequente che la parte processuale interessata all'affermazione della piena capacità rappresentativa del narrato di un dichiarante già escusso in altri procedimenti, evidenzi come costui sia già stato ritenuto credibile nelle precedenti sedi nelle quali è stato esaminato il suo racconto, stimato a sua volta attendibile (spesso, producendo le relative pronunce).

Ma – si ribadisce – il vaglio di attendibilità deve concentrarsi sulle dichiarazioni e, per così dire, solo di riflesso sul dichiarante. Nel senso che le precedenti affermazioni di attendibilità hanno indubbia rilevanza sotto il profilo della credibilità soggettiva e della genuinità della collaborazione; ma non sono sufficienti, poiché non ci si potrà appagare di esse, ma di volta in volta occorrerà svolgere con riferimento alle specifiche dichiarazioni rese nel giudizio de quo la prescritta verifica secondo il metodo sopra indicato. Può, piuttosto, ritenersi che l'esito di un precedente vaglio di attendibilità possa avere valenza più in negativo che in positivo, nel senso che qualora sia già stato accertato il deficit di credibilità soggettiva di un dichiarante, ciò getterà un'ombra sulle sue dichiarazioni, le quali, tuttavia, per le medesime ragioni appena esposte potranno superare la valutazione di attendibilità in relazione a fatti diversi (sempre con la cautela che la suprema Corte ha raccomandato).

4. Quando consti la falsità della narrazione resa da un collaboratore, essa può incidere negativamente sulla valutazione di attendibilità, anzitutto, come ha notato il supremo Collegio, sub specie della credibilità soggettiva del dichiarante, con più evidenza quando – come nel caso in esame – costui ometta di dar conto del proprio ruolo nella commissione dell'illecito; in tali ipotesi, pare ovvio, sarà più difficile poter fare affidamento sull'esposizione di un soggetto la cui volontà di collaborare con l'Autorità Giudiziaria non può certo dirsi effettiva e genuina.

Inoltre, la falsità in discorso potrà incidere negativamente pure sotto il profilo della coerenza o della verosimiglianza dell'esposizione: la sentenza in commento ha rimarcato come la chiamata in reità difettasse sotto il profilo della logicità e della plausibilità della ricostruzione del fatto proprio perché – nell'attribuirsi un ruolo marginale e comunque diverso da quello effettivamente svolto – il principale accusatore degli imputati aveva fornito una rappresentazione che non collimava con gli altri elementi offerti dallo stesso dichiarante.

Fermo restando che – si è ricordato al punto 2. – il vaglio di credibilità delle chiamate in reità o in correità è unitario per quel che attiene alla credibilità soggettiva del dichiarante e l'attendibilità oggettiva del suo racconto.

5. A seguito di una chiamata in reità o correità che ha superato positivamente il vaglio dell'attendibilità intrinseca, il giudice può ritenere provato il fatto in relazione al quale possano ravvisarsi i riscontri esterni individualizzanti: in tali ipotesi, la c.d. frazionabilità costituisce applicazione del disposto dell'art. 192, comma 3, c.p.p. e non consegue ad un difetto della chiamata medesima.

Invece, nei casi in cui la chiamata non possa dirsi in toto attendibile – come si è visto al punto 4. – sotto il profilo della credibilità soggettiva o sotto il profilo della intrinseca attendibilità oggettiva (ipotesi che con più evidenza si verifica nel caso di falsità), la frazionabilità della chiamata stessa non è frutto dell'applicazione della norma codicistica poco sopra richiamata, bensì del corretto impiego dei criteri di valutazione della prova di cui il giudice deve dar conto nella motivazione della decisione ex art. 192, comma 1, c.p.p., valutazione che – in relazione alle dichiarazioni, segnatamente quelle provenienti dai coimputati nel medesimo reato, da imputati in un procedimento connesso (art. 12 c.p.p.) o collegato ai sensi dell'art. 371, comma 2, lett. b), c.p.p. nonché dai cc.dd. testimoni assistiti – deve svolgersi secondo il modello elaborato dalla giurisprudenza e sopra descritto.

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