Le “nuove prove” ai fini della revisione della sentenza di condanna

26 Maggio 2016

In tema di revisione vale il principio enunciato per la fase rescissoria dall'articolo 637, comma 3, c.p.p., secondo cui il giudice non può pronunziare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio.
Massima

In tema di revisione vale il principio enunciato per la fase rescissoria dall'articolo 637, comma 3,c.p.p., secondo cui il giudice non può pronunziare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio. Ciò implica che le nuove prove devono collocarsi al di fuori del quadro probatorio già valutato nel giudizio definitivo, poiché altrimenti esse diverrebbero il mezzo per invalidare il giudizio di attendibilità già formulato sulle prove acquisite e, conseguentemente, si risolverebbero in un espediente diretto a trasgredire il suddetto divieto.

In questa prospettiva, non costituisce prova nuova, ai sensi dell'art. 630, comma 1, lett. c), c.p.p., una diversa e nuova valutazione tecnico-scientifica dei dati noti al perito e al giudice, poiché essa si rivolve in apprezzamenti critici di elementi già conosciuti e valutati nel giudizio, come tali inammissibili, eccezion fatta del caso in cui la nuova consulenza si fondi su altrettanto nuove acquisizioni scientifiche suscettibili di fornire risultati sicuramente più adeguati.

Il caso

Il ricorrente, già condannato per atti di violenza sessuale commessi mediante collegamento internet e detenzione di materiale pedopornografico, impugna l'ordinanza con cui la Corte d'appello ha dichiarato inammissibile la richiesta di revisione, a sua volta fondata su di una lunga e complessa consulenza tecnica svolta sui dati informatici rinvenuti dal consulente nel personal computer confiscato.

La sentenza della Cassazione non consente, in verità, di comprendere i tratti costitutivi esatti del novum invocato dinanzi alla Corte d'appello in funzione della revisione: già di consueto accade che l'enunciazione dei motivi di ricorso, all'interno della sentenza di Cassazione, risulti infedele ritratto delle eccezioni presentate; nel caso specifico, poi, è lo stesso relatore che si cura di precisare come il ricorso si articoli in un unico complesso motivo riportato nei soli termini imposti dall'art. 173 disp. att. c.p.p., ovvero nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

L'effetto, in buona sostanza, è che appare sostanzialmente arduo comprendere quale fosse il tenore effettivo delle argomentazioni spese dal ricorrente ma un dato sembra sufficientemente chiaro: uno degli snodi fondamentali del novum addotto con la consulenza tecnica era consistito nell'acquisizione – a mezzo della consulenza tecnica nuova – del dato secondo cui il computer adoperato per la commissione dei reati non era in uso al condannato all'epoca dei fatti; a fronte di ciò, la Corte d'appello avrebbe illogicamente ritenuto mancante il requisito della novità della prova, ad onta del fatto che i dati addotti erano sì preesistenti ma mai entrati nel materiale processuale e, dunque, mai valutati dai giudici del processo definito.

La questione

La prima questione è consueta: stabilire i confini effettivi del requisito di ammissibilità della revisione rappresentato dalla novità della prova che si vuole addurre al giudizio rescissorio. Alla problematica in discorso – piuttosto tradizionale e comunque risolta in modo spesso ondivago – se ne aggiunge un'altra, percepibile in nuce dal testo della sentenza ma di grande importanza: qual è il parametro del vaglio di ammissibilità laddove la richiesta di revisione abbia ad oggetto la prova nuova? Ovvero: è lecito chiedersi se il controllo sull'ammissibilità dell'istanza possa estendersi a proiettare il risultato della prova nuova, valutandolo unitamente al materiale probatorio già acquisito e in atti. Tale seconda questione, conduce poi ad una terza: posto che, ai sensi dell'art. 637, comma 3, c.p.p. il giudizio di revisione non può mai risolversi nella mera rivalutazione del materiale probatorio già in atti, sono ammissibili tutte quelle prove che, pur essendo “nuove”, conducono soltanto a rivalutare l'attendibilità di quelle già assunte nel processo concluso?

Le soluzioni giuridiche

La prova può dirsi nuova in una (invero) vasta quantità di ipotesi: oltre ai casi “classici” della prova sopravvenuta o scoperta dopo la sopravvenienza del giudicato, sono annoverati dalla giurisprudenza, nel concetto di prova nuova, anche quelli della prova noviter producta, perché mai assoggettata al vaglio del giudice, sia pure per colpevole inerzia della difesa e della prova mai valutata, seppure esistente all'interno del fascicolo sottoposto al vaglio del giudice.

Con alcune oscillazioni, la giurisprudenza di legittimità indulge ad esegesi garantiste del requisito, conclusivamente esigendo solo che l'elemento conoscitivo, addotto quale novum, non sia mai stato valutato nel precedente giudizio.

Più complessa appare la situazione con riferimento alla seconda questione toccata dalla sentenza, ovvero l'interrogativo afferente ai parametri del controllo di ammissibilità sull'istanza di revisione, laddove essa abbia ad oggetto giustappunto la sopravvenienza di una nuova prova.

Sembrerebbe abbastanza ovvio che il controllo sull'ammissibilità dell'istanza di revisione – in particolare quello sulla sua eventuale manifesta infondatezza – sia un vaglio “di rito”, che in quanto tale esclude qualunque valutazione afferente al merito del giudizio di revisione. In altre parole, l'efficacia dimostrativa della nuova prova – una volta acquisita nel contraddittorio delle parti – è questione che esula dalla delibazione preliminare.

Se così è, allora la rilevabilità della manifesta infondatezza è limitata ai soli casi in cui essa emerga ictu oculi e non include alcuna delibazione che proietti i risultati conoscitivi non ancora acquisiti, proposti come prova nuova, in una valutazione unitaria con quelli già in atti.

Questa netta scansione codicistica tra vaglio preliminare d'ammissibilità dell'istanza e fase di giudizio sul merito, risulta però completamente obliterata dall'orientamento giurisprudenziale dominante, sicché il vaglio di ammissibilità è reso via via più arduo grazie ad un'impropria commistione tra parametri dell'ammissibilità e parametri del giudizio sul merito tipici della fase rescissoria del procedimento.

Infine, la terza questione riproposta dalla sentenza in commento, afferente alla rilevanza della prova che si propone di acquisire nel giudizio di revisione.

Un costante orientamento della Suprema Corte specifica che non costituisce prova nuova, ai fini della revisione della sentenza di condanna, quella la cui ammissione sia richiesta al solo fine di ottenere una diversa valutazione delle prove già vagliate dal giudice che ha emesso la sentenza di condanna.

Ora, siffatto requisito della prova sulla quale si fonda la richiesta di revisione, è di pura creazione giurisprudenziale e non rispecchia in alcuna guisa il dettato codicistico.

L'aggancio logico di siffatta esegesi è rappresentato dal testo dell'art. 637, comma 3, c.p.p., ai cui sensi il giudice non può pronunciare il proscioglimento esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio.

Si tratta, con tutta evidenza, di un canone tipico della fase rescissoria, che esige l'ovvio: il giudizio di revisione non è un'impugnazione ordinaria, sicché il proscioglimento non può essere fondato su di una mera rivalutazione del materiale probatorio già in atti, magari esaminato sulla scorta di diverse argomentazioni; occorre che la nuova prova si collochi a base del ragionamento giudiziale che fonda il proscioglimento.

Questa regola, dettata per la valutazione del giudice, risulta impropriamente trasformata in un criterio di ammissibilità dell'istanza, proiettato in funzione della rilevanza della nuova prova di cui si propone l'acquisizione: se il relativo thema probandum risulta direttamente rilevante sulla sostanza delle imputazioni, allora l'istanza sarà ammissibile; qualora, viceversa, la prova manifesti la sua rilevanza solo quale strumento di confutazione dell'attendibilità di prove già acquisite, allora l'istanza di revisione diventa inammissibile.

È piuttosto chiaro che questa interpretazione – che la suprema Corte mostra di prediligere – consta di un errore che conduce a limitare in termini irrazionali la rilevanza della prova nel giudizio di revisione.

La rilevanza di una prova deriva dal suo rapporto con il thema probandum descritto dal capo d'imputazione; ma non solo: è rilevante anche la prova che si trova solo in rapporto mediato con quel thema, in quanto finalizzata a dare la prova di fatti processuali come l'attendibilità di un teste, la veridicità di un documento, l'affidabilità di una tesi scientifica sostenuta in una perizia, la completezza di un'indagine tecnica effettuata dalla polizia giudiziaria.

Tale è l'inequivoco dettato di quel principio generale in materia di rilevanza della prova, che risulta dal combinato disposto degli artt. 190 e 187 c.p.p.

Il giudizio di revisione non deroga alle ordinarie regole probatorie, sicché la pretesa che la prova nuova debba essere provvista di esclusiva rilevanza diretta sui fatti giudicati, con esclusione di tutte quelle prove che ridondino esclusivamente sull'affidabilità di quelle già acquisite, è uno schietto errore giuridico.

Solo occasionali pronunzie della Cassazione derogano da questo schema di ragionamento fallace e danno mostra di ammettere la rilevanza di nuove prove destinate ad inficiare l'attendibilità di quelle già acquisite.

Osservazioni

La sentenza qui in esame non si discosta dal filone più restrittivo: la nuova consulenza tecnica – si dice – proporrebbe solo su una rivalutazione dei dati già vagliati dal giudice della sentenza passata in giudicato, fondata su di una consulenza tecnica che non propone tecniche d'indagine innovative.

Pur nella scarsa perspicuità della ricostruzione dei motivi di ricorso offerta in sentenza, pare chiaro che, in effetti, l'istanza di revisione non facesse questione di sorta di tecniche innovative, sottolineando, invece, come il parere dell'esperto avesse evidenziato dati mai sottoposti all'attenzione dei giudici del provvedimento passato in giudicato, idonei ad inficiare l'attendibilità della ricostruzione tecnica proposta dagli accertamenti di polizia giudiziaria effettuati sul personal computer del condannato, indicati come incompleti quanto all'identificazione dell'utente dello strumento a mezzo del quale risultava commesso il reato.

La ragione del rigetto risiede, dunque, evidentemente nel fatto che la prova proposta ridondava in termini di necessaria rivalutazione del materiale già esaminato, al fine di verificarne l'attendibilità.

Questione di rilevanza, dunque, risolta secondo l'erronea esegesi già sopra descritta, in base alla quale sarebbero irrilevanti tutte le nuove prove che conducano solo a ritenere inaffidabili quelle già valutate.

Ma non basta: secondo la sentenza, esisterebbero pregnanti emergenze ulteriori rispetto a quelle di natura esclusivamente informatica, sulle quali si sarebbe basata la condanna, rispetto alle quali il novum non apporterebbe elementi di confutazione: di fatto, dunque, anche per questo verso risulta accreditato l'orientamento giurisprudenziale che mescola con la delibazione di ammissibilità un vaglio di natura schiettamente afferente al merito, in quanto fondato sul peso del materiale probatorio nuovo rispetto a quello già acquisito.

In breve, una sentenza che si iscrive in un filone alquanto castrante nei confronti delle garanzie della difesa che la giurisprudenza di Cassazione pare propensa a percorrere senza sosta.

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