Sequestro per equivalente sproporzionato e individuazione della sede giurisdizionale per l’impugnazione

Gianluca Soana
26 Luglio 2016

È viziato da ultrapetizione il decreto di sequestro preventivo per equivalente emesso nei confronti di beni, in esso individuati, aventi un valore superiore a quello del profitto conseguito dal reo per come questo è stato indicato dal P.M. nella sua richiesta.
Massima

È viziato da ultrapetizione il decreto di sequestro preventivo per equivalente emesso nei confronti di beni, in esso individuati, aventi un valore superiore a quello del profitto conseguito dal reo per come questo è stato indicato dal P.M. nella sua richiesta; infatti, in una tale ipotesi, il provvedimento cautelare reale ha ad oggetto beni aventi un valore maggiore rispetto a quello indicato dall'organo della pubblica accusa, in violazione del principio per il quale l'applicazione del sequestro preventivo postula, come indefettibile presupposto, una specifica domanda formulata a tale fine dal pubblico ministero, senza che il giudice possa emettere un provvedimento maggiormente afflittivo di quello richiesto.

Il caso

La vicenda in esame ha origine in un procedimento penale avente ad oggetto la violazione dell'art. 4 d.lgs. 74/2000 per l'intervenuta presentazione, da parte del soggetto attivo del reato, di più dichiarazioni dei redditi infedeli a seguito delle quali è stato omesso il versamento in favore dell'Erario della complessiva somma di € 162.972,79. In esso, il P.M. ha chiesto al Gip l'emissione, ex art. 321, comma 2, c.p.p., di un decreto di sequestro preventivo nei confronti dell'indagato diretto ad ottenere, ai fini della futura confisca prevista dall'art. 12-bis d.lgs. 74/2000, l'apprensione di beni aventi un valore equivalente al profitto di €. 162.972,79; questa richiesta è stata accolta dal Gip che ha emesso decreto di sequestro preventivo per equivalente con il quale ha confermato quale profitto illecito confiscabile la somma indicata dal P.M. (162.972,79 euro) ed ha individuato i beni oggetto del sequestro in due immobili del valore, rispettivamente, di 32.796,54 euro e di 164.610,13 euro ed in due conti correnti relativi alla complessiva somma di 97.851,91 euro.

Avverso questo decreto ha proposto riesame, ex art. 324 c.p.p., l'indagato, chiedendo il parziale annullamento del sequestro, stante l'evidente sproporzione tra il profitto conseguito ed i beni sottoposti a vincolo aventi un valore complessivo di 295.258,58 Euro. Il tribunale del riesame, nell'evidenziare come, effettivamente, il valore complessivo sottoposto a sequestro abbia ecceduto l'importo dell'evasione contestata, ha proceduto all'annullamento parziale del sequestro, disponendo la restituzione dell'immobile avente minore valore e confermando il decreto per i restanti beni.

Ha proposto ricorso per Cassazione l'indagato lamentando la permanenza della sproporzione tra il valore del profitto (€ 162.972,79) – per come individuato, prima dal P.M. e, poi, dal Gip – e quello dei beni, ancora in sequestro, aventi un valore complessivo di € 262.462,04 (dato dalla sommatoria del valore dell'immobile e quello dei due conti correnti).

La questione

La questione che si è posta dinanzi alla suprema Corte, a fronte di un'oggettiva sproporzione tra il profitto illecito conseguito dal reo ed il valore dei beni ad esso appresi, è se l'impugnazione dinanzi al tribunale del riesame, regolata dagli artt. 322 e 324 c.p.p., sia lo strumento idoneo per farla valere o se, invece, diversa debba essere la sede giurisdizionale ove affrontare una tale illegittimità apprensione, come sembra sia stato sostenuto dal procuratore generale che ha chiesto il rigetto del ricorso (anche se dalla sentenza non emergono le motivazioni di queste conclusioni).

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione ha accolto il ricorso con riferimento alla seconda parte dell'unico motivo di impugnazione.

Innanzitutto, la suprema Corte ha richiamato il principio per il quale il decreto di sequestro preventivo, anche per equivalente, può essere emesso solo a seguito di una richiesta del P.M. – come esplicitamente scritto nel primo comma dell'art. 321 c.p.p. – ed, unicamente, nei limiti di quest'istanza, non potendo il giudice andare oltre il suo contenuto in senso sfavorevole al reo (cfr. Cass. pen., Sez. II, 7 maggio 2015, n. 25375 che ha annullato un sequestro preventivo emesso su domanda del querelante ma con il parere negativo del P.M.; Cass. pen., Sez. VI, 30 gennaio 2014, n. 9756 ove è stato annullato un sequestro preventivo per equivalente emesso a seguito di istanza del P.M. motivata con l'esigenza di evitare l'aggravamento del reato ex art. 321, comma 1, c.p.p.; anche Cass. pen., Sez. I, 4 novembre 2015 n. 1313).

Sulla base di questo principio, si è, poi, ritenuto che il giudice, nell'assoggettare a sequestro beni aventi un valore superiore al profitto illecito individuato dal P.M., è andato in parziale ultrapetizione, in quanto ha appreso più valori di quelli richiesti; pertanto, la suprema Corte ha proceduto ad una riduzione del sequestrato – tramite un annullamento senza rinvio – limitando il vincolo cautelare reale a beni aventi un valore corrispondente al profitto individuato dal P.M. nella sua richiesta, da valutare quale indefettibile presupposto per l'emissione del sequestro preventivo per equivalente e per l'individuazione del suo contenuto.

Osservazioni

La decisione in esame evidenzia, ancora una volta, l'incerta individuazione degli strumenti di impugnazione utilizzabili da chi, nel subire un sequestro preventivo per equivalente, valuti la presenza di una sproporzione tra il valore dei beni appresi e quello del profitto illecito conseguito e con essa la non sempre univoca indicazione dei poteri dei diversi organi giurisdizionali che possono intervenire in una tale ipotesi. Il tutto tenendo conto che il sequestro preventivo per equivalente non era previsto al momento dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale e che, pertanto, l'introduzione, nel tempo, di numerose norme sostanziali che hanno inserito forme di confisca per equivalente, richiedono una interpretazione da parte della giurisprudenza diretta ad adattare le norme vigenti a questa forma di cautela reale, con un percorso da parte della Cassazione non sempre univoco.

Il primo elemento di differenziazione tra il sequestro diretto e quello per equivalente è che mentre per il primo è necessario individuare, esattamente, quale sia il bene che si assume in rapporto diretto con il reato, in quanto tale passibile di futura confisca, nel secondo, invece, questa esatta individuazione non è richiesta avendo il giudice l'obbligo di indicare, unicamente, l'importo del valore complessivo da sequestrare, attraverso una, preventiva, quantificazione del profitto (prezzo o prodotto) illecitamente acquisito dal reo, a mezzo di una determinazione esatta, non essendo possibile, neanche in questa fase, abbandonarsi a quantificazioni meramente presuntive (Cass. pen., Sez. III, 27 novembre 2013, n. 1820; Cass. pen., Sez. VI, 5 ottobre 2012, n. 42530).

Per quanto, invece, riguarda i beni da sottoporre a sequestro il giudice ha una duplice scelta, potendo o indicare nel proprio provvedimento, in modo analitico, quali siano i beni da sottoporre a cautela reale o lasciare questa individuazione agli organi deputati alla sua esecuzione (il P.M. o la polizia giudiziaria delegata da quest'ultimo).

Nel primo caso, il giudice, dovendo sottoporre a sequestro beni che abbiano un valore equivalente e, comunque, non superiore al profitto conseguito, sarà chiamato nel suo decreto a determinare il valore dei singoli beni che viene ad apprendere, con un compito che può essere complesso e controverso soprattutto con riferimento a beni il cui valore è soggetto alle oscillazioni del mercato (ad esempio i beni immobili).

Nel secondo caso, invece, il giudice, nel limitarsi ad indicare il valore sequestrabile, lascia al P.M. ed alla polizia giudiziaria il compito di individuare i beni da apprendere e di verificare la corrispondenza del loro valore al quantum indicato nel sequestro.

In questo contesto, in entrambe le ipotesi, secondo quella che appare essere la giurisprudenza fino ad ora prevalente, l'eventuale sproporzione dei valori, può essere contestata attraverso il naturale strumento dell'impugnazione cautelare per come questo è regolato dagli artt. 322 e 322-bis c.p.p., con il ricorso al tribunale ora in sede di riesame ora di appello cautelare.

In particolare, secondo queste decisioni, nel caso di lamentata sproporzione tra il valore dei beni appresi e l'ammontare del valore del profitto del reato per come determinato nel decreto di sequestro, lo strumento ordinario previsto dall'ordinamento è la presentazione di un'apposita istanza di riduzione della garanzia al P.M. con la quale l'istante, anche attraverso idonea documentazione, indichi quale sia l'effettivo valore dei beni appresi e con esso la natura eccessiva del vincolo cautelare. Qualora, poi, il P.M. non aderisca a questa istanza ed il Gip la rigetti, ex art. 321, comma 3, c.p.p., la persona colpita dal vincolo reale potrà presentare appello cautelare, ex art. 322-bis c.p.p., avverso quest'ultima decisione, in una sede ove poi il giudice dell'impugnazione ha il potere di effettuare tutte le necessarie verifiche (Cass. pen., Sez. III, 7 maggio 2014, n. 37848; Cass. pen., Sez. III, 21 luglio 2015, n. 36464; sulla possibilità di impugnare dinanzi al tribunale dell'appello cautelare la sproporzione del valore dei beni: Cass. pen., Sez. III, 14 ottobre 2015, n. 9146; Cass. pen., Sez. VI, 9 gennaio 2014, n. 15807).

Si è aggiunto in queste decisioni che, in dette fattispecie, è anche possibile adire direttamente il tribunale del riesame, exart. 324 c.p.p., con un'impugnazione diretta a contestare il decreto di sequestro preventivo e/o la sua esecuzione; tuttavia, un tale strumento è possibile solo nei casi di manifesta sproporzione tra il valore dei beni e l'ammontare del sequestro corrispondente al profitto del reato, tenuto conto che il tribunale, in sede di riesame, non è titolare del potere di compiere mirati accertamenti per verificare il rispetto del principio di proporzionalità, considerando anche i ristretti termini – dieci giorni dall'invio degli atti – nei quali deve intervenire la sua decisione.

Di diverso avviso è invece, la decisione qui in esame che si inserisce in un indirizzo che ha ricevuto alcune recenti conferme.

Con essa, si limita il possibile intervento del tribunale del riesame – ed in termini più generali del giudice dell'impugnazione cautelare reale – a quei casi di sproporzione che emergono dallo stesso provvedimento del Gip che, in modo contraddittorio, dopo aver determinato il valore del profitto conseguito, pone sotto sequestro, in modo esplicito, beni dallo stesso giudice valutati come avere un valore superiore. Solo in questi casi, infatti, il decreto di sequestro risulta viziato per essere andato il giudice ultra petita rispetto alla richiesta del P.M.

Negli altri casi, invece, ove la sproporzione derivi da un errata valutazione sul valore dei beni da parte dello stesso giudice – sulla base degli elementi a sua disposizione – o da parte degli organi che hanno proceduto, in sede di esecuzione, alla concreta individuazione dei beni da sequestrare, allora, non è possibile procedere alle impugnazioni cautelari reali, essendo necessario rivolgersi al giudice dell'esecuzione.

In particolare, secondo la decisione in esame che riprende altra sentenza, redatta dallo stesso estensore, la circostanza che, nel corso delle materiali operazioni di sottoposizione dei beni a vincolo siano, poi, stati attinti beni che hanno un valore, superiore alla concorrenza del valore sequestrabile, non è vizio che attiene al provvedimento giurisdizionale in sé ma semmai alla sua fase esecutiva e, pertanto, lo stesso può essere eccepito solo con un apposito ricorso proposto al P.M., organo cui è demandata la materiale esecuzione del sequestro, diretto a chiedere la riduzione del sequestro entro i limiti del valore previsto nel provvedimento cautelare; qualora, poi, il P.M. rigetti l'istanza di riduzione, il soggetto colpito dovrà, prima, rivolgersi al giudice, in funzione di giudice della esecuzione, essendo questi, quale giudice che ha emesso il provvedimento di cui si discute, dotato della potestas judicandi in ordine alle questioni giudiziarie che si possono porre relativamente alla sua esecuzione ai sensi dell'art. 665 c.p.p. ed, infine, laddove anche in questa sede non sia stato possibile ottenere la riduzione del sequestro, alla Corte di cassazione, quale giudice di ultima istanza (Cass. pen., Sez. III, 18 novembre 2014, n. 24956).

Secondo questo indirizzo, allora, la sproporzione tra il valore fissato dal giudice ed i beni sequestrati, non può essere fatto valere con l'impugnazione avverso il decreto di sequestro preventivo, propria al riesame di cui all'art. 324 c.p.p., e neanche con un'istanza di dissequestro, poi, appellabile ex art. 322-bis c.p.p. o ricorribile in Cassazione exart. 325 c.p.p., trattandosi di questioni che devono essere portate all'attenzione del giudice competente con la distinta procedura dell'incidente di esecuzione (Cass. pen., Sez. II, 3 luglio 2015, n. 44504).

A fronte di questo contrasto giurisprudenziale, nel rilevare come appaia fondamentale che la suprema Corte trovi un'uniformità di indirizzo, sembra, a parere di chi scrive, riduttivo il ricorso, quale strumento di tutela in queste ipotesi, all'incidente di esecuzione tenuto conto che lo stesso trova limitata applicazione ai casi di contestazione sulle modalità materiali di esecuzione del decreto di sequestro.

Nel caso in esame, invece, l'impugnazione ha ad oggetto un elemento essenziale del sequestro preventivo per equivalente, quale la necessaria corrispondenza – prevista dalle norme sostanziali che regolano questo istituto – tra il valore appreso al reo ed il profitto illecito da quest'ultimo conseguito, attraverso una contestazione del provvedimento cautelare reale diretta ad evidenziare che con esso non è stata correttamente applicata la norma diretta a regolare la confisca per equivalente che costituisce il presupposto per l'emissione del sequestro preventivo, exart. 321, comma 2, c.p.p., con riferimento, allora, ad una violazione che trova tutela nelle impugnazioni regolate dagli artt. 322 e ss. c.p.p. che hanno quale funzione quella di attribuire uno strumento di contestazione, dinanzi ad altro Giudice, in favore di chi sostiene di aver subito un ingiusto sequestro in violazione delle norme, processuali e sostanziali, che regolano questo istituto.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.