Il caso Meredith Kercher: la novità dei princìpi giuridici affermati dalla Cassazione

Paolo Tonini
26 Settembre 2016

La Cassazione, con la sentenza del settembre 2015, ha enunciato princìpi completamente nuovi rispetto alla giurisprudenza tradizionale, fino ad oggi prevalente: a) sulla validità del brocardo iudex peritus peritorum; b) sul quantum di prova necessario per la prova indiziaria; c) sulla capacità dimostrativa del reperto genetico; d) sul valore dimostrativo del dato scientifico in generale; ...
Abstract

La Cassazione, con la sentenza del settembre 2015, ha enunciato princìpi completamente nuovi rispetto alla giurisprudenza tradizionale, fino ad oggi prevalente. Ci limitiamo ad elencarli.

La Corte ha dato soluzioni innovative: a) sulla validità del brocardo iudex peritus peritorum; b) sul quantum di prova necessario per la prova indiziaria; c) sulla capacità dimostrativa del reperto genetico; d) sul valore dimostrativo del dato scientifico in generale; e) sulla capacità dimostrativa dell'accertamento tecnico non ripetibile; f) sulla validità della teoria della convergenza del molteplice.

Si tratta del cuore delle problematiche della prova scientifica nel processo penale. Passiamo ora ad esaminare i singoli punti.

Rapporto tra il giudice penale e l'esperto

La sentenza di condanna di primo grado nel 2009 ha affermato che il giudice ha il potere di risolvere un contrasto grave tra esperti dell'accusa e della difesa senza nominare un perito. Questo perché, si è detto nella motivazione, se anche fosse stato nominato un perito, il problema dell'interpretazione più congrua sarebbe rimasto ugualmente.

In sostanza, il giudice di primo grado ha applicato il vecchio principio dello iudex peritus peritorum, secondo cui il giudice ha il potere di risolvere un problema che comporta competenze specifiche, e questo anche a fronte di tesi in un conflitto non risolto.

Il giudice di primo grado nel 2009 ha detto, in sintesi: il perito lo faccio io; e lo ha affermato sulla base della vecchia giurisprudenza, secondo cui l'imputato non ha il diritto all'ammissione della prova peritale neanche quando vi è un contrasto insanabile tra accusa e difesa.

Nel 2011 la Corte d'Assise d'appello di Perugia ha detto che questo ragionamento non era accettabile ed ha ammesso la perizia richiesta dagli imputati. In particolare, ha affermato che le conoscenze del giudice non sono sufficienti a permettergli di decidere su di una questione che comporta conoscenze specifiche.

Ebbene, l'ultima sentenza della Cassazione, quella del 7 settembre 2015, ha accolto il ragionamento della Corte di appello di Perugia ed è andata oltre. Un giurista di tipo tradizionale sarà probabilmente trasecolato nel leggere, nella motivazione della sentenza a pagina 33, che il principio del giudice peritus peritorum deve essere considerato « ;obsoleto ;». In più, che si tratta di un brocardo decisamente « ;anacronistico ;». Neanche la sentenza Cozzini (Cass. pen., Sez. IV, n. 43786/2010) pronunciata dalla Cassazione del 2010 aveva avuto un coraggio del genere, anche se aveva espresso tutte le premesse di questo ragionamento.

Occorre tenere conto del fatto che la teoria del giudice peritus peritorum era la base sulla quale la giurisprudenza fino ad oggi aveva affermato che l'imputato non ha diritto alla ammissione della prova peritale. E allora, la caduta della teoria deve comportare che, in caso di contrasto non sanabile tra esperti dell'accusa e della difesa, l'imputato ha il diritto alla ammissione della prova scientifica.

La Cassazione del 2015, è vero, non lo ha detto espressamente. Ma, ciò nonostante, questa è una conclusione che si deve ricavare in modo necessario dalla vicenda e soprattutto dalla successione delle sentenze, poiché l'annullamento della condanna, emessa dalla corte di rinvio di Firenze nel 2014, fa rivivere la decisione in secondo grado a Perugia, che aveva affermato il diritto alla prova peritale (CONTI – SAVIO).

Pertanto, anche per la perizia deve essere riconosciuto, oggi, il diritto alla prova spettante all'imputato quando vi è un contrasto non sanabile tra esperti dell'accusa e della difesa (FELICIONI). Si tratta, a ben vedere, di un'applicazione dello ius probandi, riconosciuto in generale all'imputato dall'art. 111, comma 3 della Costituzione.

I requisiti della prova indiziaria

La sentenza di condanna di primo grado, quella del 2009, ha affermato per trentanove volte che è probabile che sia avvenuto un determinato fatto, e ciò a conclusione del singolo ragionamento indiziario; per 39 volte si è concluso che è probabile che Sollecito ed Amanda avessero compiuto l'omicidio.

Nel settembre del 2015 la motivazione della sentenza della Cassazione si è espressa in un senso completamente opposto. L'affermazione è stata secca: un elemento processuale, per assurgere a dignità di indizio, deve avere i connotati della gravità, precisione e concordanza, insieme, i quali si compendiano, sottolinea la Corte, « ;nella c.d. “certezza” dell'indizio ;».

Da tale affermazione si desume che indizi meramente “probabili” oggi non sono in grado di consentire l'accertamento del fatto di reato alla luce dell'art. 192, comma 2 c.p.p.

La conclusione è importante: secondo la Cassazione il singolo indizio deve essere tale da eliminare nel giudice ogni ragionevole dubbio di possibili ricostruzioni alternative.

Da questo insegnamento si trae la conclusione che non è più accettabile il principio del “più probabile che no” in relazione agli indizi, nel processo penale (Ritiene inaccettabile il criterio del “più probabile che no”, da considerarsi ormai valido soltanto nel processo civile, Cass. pen., Sez. IV, 12 novembre 2009, n. 48320, in Giust. pen., 2010, III, p. 387).

I requisiti dell'indagine genetica

In base a quanto affermato dalla sentenza di condanna di primo grado, nel 2009, e dalla prima sentenza della Cassazione, nel 2013, l'imputato avrebbe avuto l'onere della prova della contaminazione del reperto.

Nel settembre del 2015 le conclusioni della sentenza della Cassazione sono state di segno opposto; ed è uno dei punti più innovativi della motivazione.

La Cassazione ha affermato che l'indagine genetica ha valore di prova soltanto se ha i caratteri della certezza, e cioè, testualmente, « ;se l'attività di repertazione, conservazione ed analisi del reperto (sono) state rispettose delle regole di esperienza consacrate nei protocolli in materia ;». E (ha continuato la Cassazione) nel caso di specie « ;è certo che quelle regole metodologiche non sono state assolutamente osservate ;».

La precisazione è importantissima: per la sentenza della Cassazione, affinché un dato genetico abbia « ;valore indiziario ;», occorre che siano stati osservati i protocolli di repertazione e sia stata assicurata la catena di custodia.

Quindi, oggi dobbiamo concludere che, quando non sono stati osservati i protocolli, l'indagine genetica non ha valore di prova (la sentenza testualmente afferma che non ha valore dimostrativo). In tal caso, il singolo verbale rimane nel fascicolo, ma non può essere giudicato attendibile. Di conseguenza, non può essere usato dal giudice per fondare una decisione di condanna.

Ora, questo nuovo principio ha l'effetto di far rivivere quello che è stato detto in secondo grado a Perugia nel 2011, e cioè testualmente: « ;incombe sul pubblico ministero, che sostiene l'accusa in giudizio, (l'onere) di provare che il risultato è stato ottenuto mediante un procedimento che garantisce la genuinità del reperto dal momento della repertazione a quello dell'analisi ;». « ;Poiché tra queste regole rientrano anche le cautele necessarie ad evitare possibili contaminazioni, si comprende che il rispetto delle stesse non può essere presunto, bensì deve essere provato da chi, su quel risultato, basa la propria accusa ;». E ancora: « ;quando non vi è la prova del rispetto di tali cautele, non è affatto necessario provare anche la origine specifica della contaminazione ;».

In definitiva, dalla sentenza di appello di Perugia è possibile ricavare l'insegnamento secondo cui spetta all'accusa dimostrare che il reperto è genuino; ma, anche, che spetta all'accusa dimostrare che è stata osservata la catena di custodia, perché solo una prova di tal genere è in grado di eliminare ogni ragionevole dubbio.

Quindi, la conclusione è netta: l'onere della prova della genuinità del reperto grava sull'accusa: non è onere della difesa dimostrare che vi è stata una contaminazione.

Se riflettiamo bene, non è una novità sconvolgente (CONTI - SAVIO; CONTI). Si tratta di un principio assolutamente pacifico nell'ambito delle prove “comuni”: La Cassazione del 2015 lo ha soltanto esteso alla materia della prova scientifica.

È pacifico per tutti che, quando il pubblico ministero introduce un testimone, è il medesimo pubblico ministero che deve provare la credibilità del testimone e la sua attendibilità. Lo stesso deve valere, oggi, per la prova scientifica.

La novità singolare della sentenza del settembre scorso è di aver avuto il coraggio di abbattere quella specie di muro di “omertà”, che circondava la prova scientifica, e di accogliere un insegnamento banale, in base al quale quella scientifica non è una prova sui generis, bensì è una prova assoggettata alle regole ordinarie (CONTI; TONINI).

I requisiti del dato “scientifico”

Fino ad oggi la giurisprudenza tradizionale ha dato per scontato il principio, secondo cui tutto quello che un esperto ha verbalizzato ha valore di prova, perché ormai è entrato nelle conoscenze ufficiali del processo.

Ebbene, la Cassazione del 2015 ha fatto tramontare anche questo idolo tradizionale. La Corte ha affermato testualmente che « ;un dato non verificato, proprio perché privo dei necessari connotati della precisione e della gravità, non può conseguire, in ambito processuale, neppure la valenza di indizio ;».

E ancora: « ;in questo si annida, dunque, l'errore di giudizio in cui è incorso il giudice a quo nell'assegnare, invece, valore indiziario agli esiti dell'indagine genetica non suscettibili di amplificazione o frutto di non ortodossa procedura di raccolta e di repertazione ;».

Quindi, per la Cassazione, se il dato biologico è troppo esiguo (il famoso law copy number, del quale si tratterà successivamente) o se è stata possibile una contaminazione, se ne deve dedurre che mancano i requisiti necessari della precisione e della gravità (GENNARI – PICCININI; FELICIONI; RICCI).

Le conseguenze tratte dalla suprema Corte sono nette: il dato scientifico così raccolto non ha valenza di indizio.

In sostanza, nel settembre 2015 si è affermato che un dato è “scientifico”, in positivo, soltanto se si può fare un tentativo di smentita; in caso contrario, e cioè se non si può fare un tentativo di smentita, allora non abbiamo un dato “scientifico”.

In particolare, se non sono praticabili le amplificazioni che consentono di operare i necessari tentativi di smentita, quello non è un dato “scientifico”. E altrettanto avviene se non si ha la certezza che si tratti di un reperto genuino: parimenti, non è un dato “scientifico”.

Si tratta di un'affermazione molto forte e importante. Non vale più il principio dell'ipse dixit, secondo cui tutto quello che lo scienziato ha affermato deve ritenersi entrato automaticamente nel processo penale.

Al suo posto, la Cassazione ha proclamato un nuovo principio, secondo cui, se il dato non viene raccolto in modo genuino, e cioè se non sono stati osservati i protocolli in materia, esso non è un dato scientifico e, quindi, « ;non può assumere rilievo né probatorio né indiziario ;».

Possiamo sintetizzare il concetto, secondo cui la decisione del giudice si deve basare su di un dato sottoposto a tentativo di smentita, con un motto latino semplice e breve, che suona così: nullum iudicium sine scientia. Dove il termine scientia allude al nuovo metodo scientifico, quello di Karl Popper, e non certo al dato bruto.

L'accertamento tecnico non ripetibile

La sentenza di condanna in primo grado, del 2009, si è sbarazzata del problema della inosservanza dei protocolli e della possibilità di contaminazione, e lo ha fatto perché ha sostenuto che, nonostante la presenza dei consulenti tecnici degli imputati all'accertamento tecnico non ripetibile (art. 360 c.p.p.), nessuna censura risultava essere stata avanzata da costoro.

In effetti, i consulenti della difesa erano presenti all'accertamento tecnico non ripetibile effettuato quarantasei giorni dopo l'omicidio. In quel momento da parte dei consulenti degli imputati non era stata avanzata alcuna obiezione né in ordine alle modalità di svolgimento delle attività di analisi né in relazione all'accertamento tecnico non ripetibile.

Orbene, per il fatto che i consulenti tecnici non avevano eccepito niente, nella sentenza di condanna si concludeva che l'accertamento ex art. 360 c.p.p. poteva essere considerato attendibile ai fini della motivazione, nel senso che vi sarebbe stato una sorta di “assenso tacito” della difesa.

Anche su questo punto la sentenza del settembre del 2015 ha ribaltato completamente i princìpi fino ad oggi consolidati nella giurisprudenza tradizionale. La Cassazione ha sostenuto che, in mancanza di idonee cautele o del tentativo di smentita, neppure il dato non ripetibile “si salva”. Per la Suprema Corte, quando l'elemento è stato acquisito senza la possibilità di ripetizione, tale dato non può assumere rilievo né probatorio né indiziario, proprio perché esso, secondo le leggi della scienza, « ;necessita(va) di validazione o falsificazione ;» (pag. 39).

Quindi, la Cassazione ha sostenuto che il principio generale sulla scientificità del dato deve essere applicato anche ad un accertamento tecnico (art. 360 c.p.p.) al quale la difesa abbia assistito senza avanzare riserve o eccezioni. In sostanza, nessun “assenso tacito” della difesa può attribuire ad un elemento non attendibile quel crisma della scientificità, che ad esso manca all'origine perché non è stato possibile un tentativo di smentita. Anche su questo punto la sentenza del 2015 è idonea a provocare un terremoto nella giurisprudenza (CONTI, L'inutilizzabilità).

La teoria della convergenza del molteplice

La sentenza della Corte d'assise d'appello di Firenze del 2014 ha affermato testualmente: « ;nessuno degli elementi acquisiti è di per sé tranquillizzante, o comunque nessuno è idoneo a costituire prova certa della penale responsabilità degli imputati ;». E ancora ha sostenuto che « ;il risultato delle analisi non sarebbe (stato) sufficiente [...] per pervenire alla affermazione della penale responsabilità di alcuno ;», se considerato come unico indizio .

Ebbene, nonostante i singoli indizi non fossero gravi né precisi, la sentenza di condanna in sede di rinvio nel 2014 ha applicato la nota teoria della “convergenza del molteplice” ed ha ritenuto che fosse presente quella che la giurisprudenza fin dai tempi del previgente codice del 1930 ha definito e definisce tuttora « ;prova logica ;».

Cerchiamo di spiegare in termini comuni quello che la Corte di rinvio ha affermato a Firenze nel 2014. La sentenza di condanna ha dato per scontato che i singoli indizi non fossero rassicuranti e non costituissero una prova certa. Tuttavia, sulla base della teoria della convergenza del molteplice, poiché tutti gli indizi erano valutati o come « ;possibili ;», o come « ;probabili ;» e indicavano come responsabili Raffaele ed Amanda, ebbene, il principio della convergenza del molteplice faceva sì che gli indizi assurgessero a dignità di “prova logica”.

In queste affermazioni non vi è niente di nuovo rispetto alla giurisprudenza di legittimità, che possiamo definire tradizionale, se non fosse che questa giurisprudenza risulta collegata direttamente al codice inquisitorio del 1930 e al criterio del più probabile che no, cioè a princìpi non garantisti.

Il problema sta nel fatto che la teoria della convergenza del molteplice confligge in modo totale con l'altro principio, quello dell'al di là di ogni ragionevole dubbio, che è stato introdotto dalle Sezioni unite Franzese del 2002 e che è stato confermato dal legislatore nel 2006.

Finalmente nel 2015 la sentenza della Cassazione ha fatto applicazione della presunzione di innocenza e ha precisato in modo secco che « ;il ricorso alla logica ed all'intuizione non può supplire in alcun modo a carenze probatorie o ad insufficienze investigative ;».

La sentenza ha fatto comprendere, con poche battute, che la convergenza del molteplice non è compatibile con il nuovo quantum di prova imposto dall'art. 533 c.p.p. (CONTI, Ragionevole dubbio).

L'affermazione della Suprema Corte fa venir meno la vecchia teoria. Certo, la Cassazione non sostiene espressamente che sta abbattendo il principio tradizionale della convergenza del molteplice, forse perché l'affermarlo avrebbe comportato una esposizione troppo forte. Tuttavia, si tratta di una conclusione che si ricava in modo necessario dalle considerazioni del Supremo Collegio, come è avvenuto per gli altri princìpi che abbiamo analizzato in precedenza.

Tratto da Processo mediatico e processo penale, a cura di Carlotta Conti

Guida all'approfondimento

CONTI, Il processo si apre alla scienza: considerazioni sul procedimento probatorio e sul giudizio di revisione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, p. 1204;

CONTI, L'inutilizzabilità, in AA.VV., Le invalidità processuali. Profili statici e dinamici, a cura di A. Marandola, Torino, 2015, pp. 128 ss;

CONTI, Ragionevole dubbio e “scienza delle prove”: la peculiarità dell'esperienza italiana rispetto ai sistemi di common law, AA.VV., L'assassinio di Meredith Kercher, Anatomia del processo di Perugia, a cura di M. Montagna, Roma, 2012, p. 237;

CONTI e SAVIO, La sentenza d'appello nel processo di Perugia: la “scienza del dubbio” nella falsificazione delle ipotesi, in Dir. pen. proc., 2012, p. 575;

FELICIONI, Processo penale e prova scientifica: verso un modello integrato di conoscenza giudiziale, nota a Corte Ass. App. Roma, 27 aprile 2012 (Caso di via Poma), in Cass. pen., 2013, p. 1607;

GENNARI e PICCININI, Dal caso Reed ad Amanda Knox; ovvero quando il DNA non è abbastanza, in Dir. pen. proc., 2012, p. 361;

TONINI, Dalla perizia “prova neutra” al contraddittorio sulla scienza, in AA.VV., Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, Giuffrè., p. 4;

FELICIONI, La prova del DNA tra esaltazione mediatica e realtà applicativa in AA.VV, L'assassinio di Meredith Kercher, Anatomia del processo di Perugia, a cura di M. Montagna, Roma, 2012, p. 167;

RICCI, Limiti e aspettative della genetica forense, in AA.VV., Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi, Giuffrè., p. 247.

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