Distinzione tra corruzione e truffa e “competenza” del P.U. a compiere atti contrari ai doveri di ufficio

Simone Bonfante
27 Maggio 2016

Può ritenersi configurato il delitto di corruzione anche quando il pubblico ufficiale riceve, o accetta la promessa, di denaro in cambio di atti che non sono qualificabili, a stretto rigore, come atti amministrativi attribuibili alla competenza del suo ufficio?
Massima

I reati di corruzione e di truffa aggravata, pur avendo come elemento comune l'abuso della pubblica funzione da parte del pubblico ufficiale al fine di conseguire un indebito profitto, si differenziano perché nella corruzione chi dà o promette non è vittima di un errore e agisce su di un piano di parità con il pubblico ufficiale nel concludere un negozio giuridico illecito in danno della pubblica amministrazione, invece nella truffa il pubblico ufficiale si procura un ingiusto profitto carpendo la buona fede del soggetto passivo mediante artifici o raggiri. (Sulla base di questo principio la suprema Corte ha ritenuto si configurasse corruzione e non truffa nel caso di un medico che aveva accattato, in violazione dei suoi doveri di ufficio, denaro per concorrere ad affidare un nascituro in via definitiva a terzi, trattandosi di atto che rientrava tra quelli che l'imputato aveva la concreta possibilità di compiere).

Il caso

Tizio, quale medico ginecologo in servizio presso una clinica convenzionata, veniva condannato in primo grado (con sentenza confermata in appello) per avere concorso nella commissione dei reati di cui agli artt. 319 c.p. e art. 71 l. 184/1983 avendo accettato denaro al fine di affidare un nascituro in via definitiva a terzi.
Tizio infatti fece ricoverare nella clinica una gestante Caia intenzionata, come pure il padre naturale, a cedere in cambio di denaro il nascituro a una coppia (Mevia e Sempronio) che intendeva allevarlo come figlio. Tizio ricevette dalla coppia 25.000 euro per agevolare l'operazione e accettò ulteriori 5.000 euro per procurare una certificazione che avrebbe dovuto attestare la maternità naturale di Mevia, anche se poi redasse una veridica certificazione attestante la maternità di Caia. Dopo il parto, la madre consegnò il neonato alla coppia che riuscì per un breve periodo a tenerlo.

Tizio propone ricorso per vizio di motivazione ed erronea applicazione della legge penale deducendo in particolare che non poteva configurarsi il reato di corruzione non essendo in grado di mantenere la promessa di far dare il bambino in adozione, mentre la condotta andava qualificata al più come truffa, non perseguibile per mancanza di querela.

La sesta Sezione penale, con la sentenza in commento, rigettava il ricorso proposto personalmente da Tizio, affermando che, quando al delitto di corruzione, la Corte di appello aveva correttamente qualificato la condotta come corruzione (non truffa) ed osservando che il denaro fu dato per il compimento di un atto (contrario ai doveri d'ufficio) rientrante fra quelli che Tizio aveva la concreta possibilità di compiere e fu corrisposto consapevolmente e non per effetto di un errore indotto da raggiro.

La questione

La questione in esame è la seguente: può ritenersi configurato il delitto di corruzione anche quando il pubblico ufficiale riceve, o accetta la promessa, di denaro in cambio di atti che non sono qualificabili, a stretto rigore, come atti amministrativi attribuibili alla competenza del suo ufficio?

Le soluzioni giuridiche

Trattasi di annosa questione più volte affrontata sia in dottrina che in giurisprudenza.

Questione la cui soluzione non può prescindere, a monte, dalla corretta individuazione del bene giuridico tutelato dalla fattispecie di cui all'art. 319 c.p.

È noto infatti come, superate le teoriche che riconoscevano nel prestigio della P.A. o nel dovere di fedeltà del pubblico ufficiale la ratio della incriminazione, una concezione costituzionalmente orientata dei beni giuridici protetti, ha condotto la stragrande maggioranza della dottrina e della giurisprudenza a riconoscere nel buon andamento e nella imparzialità dell'amministrazione (ex art. 97 Cost.) il bene tutelato dalla delitto di corruzione.

Orbene, fatta questa premessa, deve tuttavia registrarsi come in dottrina vi sia stato chi, accogliendo una nozione più restrittiva di buon andamento ed imparzialità abbia conseguentemente definito, in modo altrettanto rigoroso, il concetto di contrarietà ai doveri di ufficio contemplato dalla fattispecie incriminatrice. Contrarietà che presupporrebbe appunto un rinvio alla norme – proprie del diritto amministrativo – che regolano e disciplinano lo svolgimento dell'attività dell'ufficio: essa implica dunque l'illegittimità dell'atto, alla stregua delle norme che disciplinano il diritto amministrativo (FIANDACA, MUSCO). In sostanza un atto amministrativo, sia pure illegittimo ed annullabile, dovrebbe pur sempre essere individuabile. Il delitto non sarebbe invece configurabile nei casi di genetica inesistenza dell'atto oppure in caso di nullità dello stesso. Tra le cause di nullità vi sarebbe, in particolare, quella derivante da incompetenza assoluta (si confronti: PAGLIARO).

Anche in giurisprudenza si è fatto largo un orientamento volto a delimitare il concetto di atto contrario ai doveri di ufficio, richiedendosi a tal fine che l'atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientri nelle competenze, se non specifiche del funzionario, quantomeno generiche del suo ufficio (Cass. pen. Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435). Competenze che tuttavia sarebbero sufficienti a consentire al p.u. in concreto una qualsivoglia ingerenza illecita nella formazione della volontà dell'ente pubblico (Cass pen., Sez. VI, 5 marzo 1993, Di Tommaso).

A tale maggioritario orientamento se ne è contrapposto uno minoritario secondo cui anche l'incompetenza funzionale sarebbe compatibile con il reato di corruzione propria (Cass. pen. Sez. V, 2 maggio 1983, Amitrano). Sempre in questa ottica si è riconosciuta la penale responsabilità del p.u. che abbia posto in essere un comportamento in contrasto con norme giuridiche o con istruzioni di servizio che comunque violi i doveri di fedeltà, imparzialità ed onestà, che debbono osservarsi da chiunque eserciti una pubblica funzione. (Cass. pen., Sez. VI, 29 ottobre 1992, n. 2991). Conclusione quest'ultima che parrebbe riabilitare quale bene giuridico protetto del reato di corruzione (anche) la fedeltà del p.u.

Ora, vendo al caso di specie, è agevole comprendere come l'adesione ad una concezione più o meno lata dell'elemento oggettivo della fattispecie di cui all'art. 319 c.p., ed in particolare della locuzione atto contrario ai doveri di ufficio, non sia scevra di conseguenze in materia di actio finium regundorum rispetto al delitto di truffa aggravata.

Solo infatti attraverso una interpretazione estensiva della contrarietà ai doveri di ufficio che vi faccia confluire anche comportamenti lesivi della fedeltà del p.u., è possibile contestare il delitto di corruzione rispetto ad atti che esulano dalla competenza, anche generica, di quell'ufficio. Aderendo invece ad una concezione più restrittiva di atto contrario ai doveri di ufficio, ben potrebbe invece ipotizzarsi nel caso di specie la truffa aggravata, sul presupposto che in nessun caso il medico avrebbe potuto compiere l'atto aggetto del mercimonio e potendosi pertanto ragionevolmente sostenere che avesse indotto in errore il privato.

La sentenza in commento si pone in linea con il consolidato orientamento volto ad estendere la nozione di atto contrario ai doveri di ufficio ad ogni comportamento (quindi non solo atto amministrativo) del pubblico ufficiale posto in essere nello svolgimento del suo incarico (da ultimo Cass. pen., Sez. II, 25 novembre 2015, n. 47471). Si afferma pertanto il denaro fu dato per il compimento di un atto (contrario ai doveri di ufficio) rientrante tra quelli che il p.u. aveva la concreta possibilità di compiere. Né, secondo la suprema Corte, ai fini della integrazione della fattispecie in parola si rende necessario individuare lo specifico atto contrario ai doveri di ufficio essendo sufficiente che dal comportamento (ndr: del p.u.) emerga una attività diretta in concreto a vanificare la funzione demandatagli, perché già così viola il dovere di perseguire esclusivamente l'interesse pubblico.

Osservazioni

Le conclusioni a cui perviene la sesta Sezione penale con la sentenza n. 19002/2016, alla luce di quanto sopra esposto, non possono esimerci dal formulare talune osservazioni.

E ciò innanzitutto perché interpretando in maniera estensiva gli elementi costitutivi di una fattispecie di reato si corre il rischio di violare (quanto meno) il principio di tassatività e determinatezza.

Ma c'è di più.

Nel caso di specie pare evidente che la condotta (pure illecitamente retribuita) del medico in alcun modo avrebbe potuto consentire che il bambino fosse adottato dalla coppia di cui non era figlio. E tale conclusione, a sommesso avviso di chi scrive, non certo implicherebbe sul piano pratico la automatica integrazione del differente reato di truffa aggravata. Come peraltro rilevato nella motivazione della sentenza in commento, il medico non pareva animato da riserva mentale né è stata provata la esistenza di artifici o raggiri volti farsi consegnare la somma di denaro.

Semplicemente, ad avviso di chi scrive, si era in presenza di una incompetenza funzionale assoluta, con conseguente “impossibilità” per il medico di compiere un atto contrario ai doveri di ufficio.

Si ritiene pertanto che colga nel segno quanto sostenuto da autorevole dottrina secondo cui, in simili casi, si verterebbe in un'ipotesi di c.d. reato impossibile (art. 49 c.p.) essendo peraltro conoscibile anche dal quisque de populo la impossibilità che la promessa fosse mantenuta dal pubblico ufficiale (PAGLIARO; ma anche Cass. pen.,Sez. VI, 30 gennaio 2013, n. 34489)

Poco importa che la condotta dello stesso abbia consentito un affidamento temporaneo del bambino ciò potendo rilevare solo ai fini di un eventuale concorso del p.u. nel reato di cui all'art. 71 l. 184/83 ma non certo nel reato di corruzione non essendo chiaro quale atto avrebbe potuto compiere (anche in astratto) il pubblico ufficiale all'interno della sequenza procedimentale volta ad ottenere l'adozione.

Guida all'approfondimento

FIANDACA, MUSCO, Diritto Penale, Parte Speciale, Vol. I, p. 222, 2012, Torino;

PAGLIARO, Principi di Diritto Penale, Parte Speciale, p. 185, 2008, Giuffrè;

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