Notizia di reato e referto: gli incerti confini di discrezionalità dell'esercente la professione sanitaria

27 Settembre 2016

La Cassazione affronta la quesse l'esercente la professione sanitaria abbia un margine di autonomia, o discrezionalità tecnica, nella valutazione degli elementi di fatto dai quali desumere la configurabilità di un delitto perseguibile d'ufficio e conseguentemente dell'obbligo di riferire all'Autorità giudiziaria.
Massima

Nel reato di omissione di referto, l'obbligo di riferire si configura per la semplice possibilità che il fatto presenti i caratteri di un delitto perseguibile di ufficio, secondo un giudizio riferito al momento della prestazione sanitaria in relazione al caso concreto, a differenza di quanto ricorre per la fattispecie di omessa denuncia, dove rileva la sussistenza di elementi capaci di indurre una persona ragionevole a ravvisare l'apprezzabile probabilità dell'avvenuta commissione di un reato, posto che, nell'illecito previsto dall'art. 365 c.p., la comunicazione fornisce, per vicende riguardanti la persona, elementi tecnici di giudizio a pochissima distanza dalla commissione del fatto, insostituibili ai fini di un efficace svolgimento delle indagini e del rispetto dell'obbligo di esercitare l'azione penale; ne consegue che il sanitario è esentato dall'obbligo di referto solo quando abbia la certezza tecnica dell'insussistenza del reato. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la condanna di due medici i quali, in relazione al decesso di un minore, pur avendo riconosciuto l'errore diagnostico di un collega, avevano omesso il referto, ritenendo, sulla base di valutazioni probabilistiche ed approssimative, che l'evento letale fosse comunque inevitabile. Rigetta, App. Bologna, 15 febbraio 2013).

Il caso

I ricorrenti, il primo direttore e il secondo medico dell'unità di anatomia dell'ospedale di (omissis), avevano proceduto ad un riscontro diagnostico autoptico sul cadavere del piccolo A.Y. di tre anni che era giunto cadavere all'ospedale il mattino del giorno (omissis).

Nel corso della notte precedente il bambino era stato portato in ospedale dai genitori in preda a fortissimi dolori, visitato dal dott. Bi.Au., medico responsabile del reparto di terapia intensiva pediatrica, il quale – avendo diagnosticato, come causa dei malori, un evento di origine neurologica derivanti dalle gravissime patologie cerebrali conseguenti alla difficile nascita ed alla patita asfissia perinatale – aveva disposto di non ricoverarlo per ulteriori accertamenti, con prescrizioni farmacologiche. Con il passare delle ore il bambino si era aggravato. I genitori avevano ritenuto di non ritrasportarlo subito in ospedale per evitare che fosse visitato dallo stesso pediatra di turno, avevano chiamato l'ambulanza alle ore 8.50 e il bambino era giunto in ospedale (in mancanza di polso e di attività cardiaca) alle ore 10.25.
Il Tribunale di Forlì condannava i due imputati, coautori del riscontro diagnostico, alla pena di sette mesi di reclusione e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili per i reati di omissione di atti d'ufficio (art. 328 c.p.) e di omissione di referto (art. 365 c.p.), assorbito in questo il contestato delitto di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale (art. 361 c.p.)
La Corte d'appello di Bologna, in parziale riforma della decisione di primo grado, ritenuto l'assorbimento della condotta, contestata come violazione dell'art. 328 c.p., in quella di cui all'art. 365 c.p., rideterminava la pena, per ciascuno degli imputati, in trecento euro di multa.
Ricorrevano per cassazione entrambi gli imputati, tramite difensori fiduciari.

La questione

La Corte ha ritenuto corretta la condanna dei due medici i quali, in relazione al decesso di un minore, pur avendo riconosciuto l'errore diagnostico di un collega, avevano omesso il referto, ritenendo sulla base di valutazioni probabilistiche e approssimative, che l'evento letale fosse comunque inevitabile .

La questione riguarda se l'esercente la professione sanitaria abbia un margine di autonomia, o discrezionalità tecnica, nella valutazione degli elementi di fatto dai quali desumere la configurabilità di un delitto perseguibile d'ufficio e conseguentemente dell'obbligo di riferire all'Autorità giudiziaria.

Le soluzione giuridiche

Secondo la giurisprudenza di legittimità, citata dalla sentenza oggetto di commento, per stabilire se ricorra l'obbligo di referto a carico del sanitario, è necessario fare leva su criteri di valutazione che, sia pure con un giudizio ex ante (riferito al momento della prestazione sanitaria), tengano conto della peculiarità del caso concreto nel senso che deve verificarsi se il sanitario abbia avuto conoscenza di elementi di fatto dai quali desumere, in termini di teorica possibilità, la configurabilità di un delitto perseguibile d'ufficio.

La sfera della competenza del medico comprende le valutazioni che – nel contesto dell'esperimento dell'atto sanitario – si concludono con la ragionevole convinzione, ossia con la certezza tecnica, dell'insussistenza del reato. La conclusione deve essere fondata su elementi certi ed obiettivi sì da poter ragionevolmente ritenere che l'evento si sia verificato indipendentemente dall'errore diagnostico del medico. Il giudizio tecnico del medico, dunque, può comprendere l'esclusione del nesso di causalità tra condotta ed evento, sempreché esso derivi in modo evidente da elementi di fatto certi ed obiettivi.

Il maggior rigore richiesto dal Legislatore a carico dell'esercente una professione sanitaria è giustificato dal fatto che la denuncia “tecnica” fornisce elementi di giudizio a pochissima distanza dalla commissione del reato, assumendo così un valore insostituibile ai fini dell'indagine e dell'eventuale successiva redazione di una perizia medico-legale.

Osservazioni

L'obbligo di referto acquista notevole rilevanza allorquando si tratta di reati di spiccato allarme sociale quali i reati di violenza sessuale, specie nei confronti di minori. Si ritiene, infatti, che la notizia di reato, raccolta dagli esercenti una professione sanitaria, non debba significare certezza del suo accadimento ma solo conoscenza di un fatto che, se vero, costituisce reato procedibile d'ufficio. La conoscenza del fatto, quindi, è indipendente, in tali casi, da ogni considerazione, di esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria, sull'attendibilità del minore, sulla sua idoneità a testimoniare ecc... I fatti di violenza sessuale attraggono sfere di conoscibilità per le quali è difficile sostenere che essi non presentino i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio .

Il fatto che la norma richieda che il caso, per il quale il sanitario presta la propria opera, presenti i caratteri di un reato perseguibile d'ufficio non può, però, comportare che questi debba riconoscere gli elementi costituitivi di ogni fattispecie di reato perseguibile d'ufficio. Ciò significa che se il sanitario ha valutato compiutamente le risultanze, di cui può disporre in concreto, in merito ad un determinato fatto, non può essere ritenuto responsabile di omissione di referto in caso di errore sul carattere criminoso del fatto.

Il soggetto obbligato deve rappresentarsi il complesso dei presupposti dai quali scaturisce l'obbligo di attivarsi; è necessario, in altri termini, che il soggetto sappia che l'atto da compiere rientra tra i suoi doveri funzionali e che il fatto da denunciare corrisponda ad un reato perseguibile d'ufficio.

Per integrare, tuttavia, il dolo del delitto di omissione di referto occorre, oltre la coscienza e volontà di omettere o ritardare il referto, che il soggetto si renda conto che trattasi di fatti che possono presentare i caratteri di un delitto perseguibile d'ufficio, sicché il dolo medesimo non sussiste qualora erroneamente l'agente abbia la certezza dell'inesistenza di un delitto di quella specie.

Di rilievo appare la valutazione del comportamento del sanitario in caso di lesioni colpose. Come noto, il reato di lesioni colpose è perseguibile d'ufficio solo quando i fatti sono commessi con violazione delle norme per la prevenzione sugli infortuni di lavoro (art. 590, ultimo comma, c.p.)

Il giudizio destinato a stabilire se il caso, in cui l'esercente la professione sanitaria presta la propria assistenza, possa presentare i caratteri di un delitto perseguibile di ufficio non deve essere fatto in astratto ma in concreto, ossia adottando un criterio di valutazione che tenga conto delle peculiarità della situazione effettiva in cui il sanitario ha svolto la sua prestazione professionale. Non si pretende che il sanitario compia una indagine approfondita sulle modalità dell'infortunio,ma gli si deve riconoscere un margine di discrezionalità nella valutazione della natura dell'infortunio in relazione al tipo di lesione riscontrata, alla descrizione dei fatti fornita dall'infortunato stesso e dai suoi eventuali accompagnatori, agli altri possibili elementi esterni di riscontro. (Cass. pen., Sez. VI, 21 ottobre 1997, n. 1415; Cass.pen., Sez. VI, 11 giugno 1998, n.7034).

Vi sono, altresì, casi nei quali l'accidentalità del fatto è conclamata per cui è evidente che non si possa ritenere ipotizzabile la responsabilità di un terzo nella causazione dell'evento. La possibilità di un giudizio, sia pure sommario e da esaurirsi con l'evidenza, deve essere riconosciuto al medico in quanto l'art. 365 c.p. attribuisce la facoltà di valutare la possibilità dell'esistenza di un reato onde evitare la presentazione di referti del tutto inutili.

Non si ritiene, pertanto, di aderire ad una tesi radicale la quale pretende che il sanitario, per il solo fatto che la lesione sia conseguente ad un infortunio sul lavoro in relazione alla quale presta assistenza ad un soggetto, debba presumere necessariamente una violazione di norme antiinfortunistiche ed essere tenuto comunque al referto, a prescindere da ogni altra considerazione.

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