Termini massimi della custodia cautelare: l’incidenza delle aggravanti speciali

Enrico Campoli
27 Ottobre 2015

In caso di pluralità di circostanze aggravanti, che determinano una pena diversa da quella ordinaria del reato ovvero ad effetto speciale, ai fini del calcolo dei termini massimi di custodia cautelare - per le fasi antecedenti all'emissione della sentenza di primo grado - occorre tenere conto, oltre che della pena stabilita per il reato all'esito dell'applicazione della circostanza più grave, anche dell'ulteriore (e facoltativo) aumento non superiore al terzo di cui all'art. 63, comma 4, c.p.
Massima

In caso di pluralità di circostanze aggravanti, che determinano una pena diversa da quella ordinaria del reato ovvero ad effetto speciale, ai fini del calcolo dei termini massimi di custodia cautelare - per le fasi antecedenti all'emissione della sentenza di primo grado - occorre tenere conto, oltre che della pena stabilita per il reato all'esito dell'applicazione della circostanza più grave, anche dell'ulteriore (e facoltativo) aumento non superiore al terzo di cui all'art. 63, comma 4, c.p.

Per effetto del calcolo di cui all'art. 63, comma 4, c.p. – che ricomprende l'aumento (facoltativo) del terzo – le aggravanti speciali non perdono la loro natura né tantomeno la trasformano in circostanza aggravante comune, situazione quest'ultima che ne determinerebbe la non incidenza sulla regola normativa di cui all'art. 278 c.p.p.

Il caso

L'imputato, ristretto in carcere, per estorsione pluriaggravata si vede rigettata, nel corso del dibattimento di primo grado, la richiesta di scarcerazione per decorrenza del termine di fase di cui all'art. 303, comma 1, lett. b), n. 3) e 3-bis), c.p.p. in quanto si afferma che non è ancora decorso il termine massimo endofasico. Quest'ultimo viene individuato in quello di due anni alla luce del fatto che per il delitto contestato la pena prevista supera la soglia dei venti anni di reclusione stante la concorrenza della circostanza delle più persone riunite – che determina una pena diversa da quella ordinaria (art. 629, comma 2, c.p.) – e quella concorrente, ad effetto speciale, dell'art. 7, d.l. 152/1991 conv. l. 203/1991 – che prevede un ulteriore aumento da un terzo alla metà.

Il provvedimento viene impugnato dinanzi al tribunale del riesame, che conferma la decisione del giudice procedente.

Il ricorrente, pur consapevole dell'orientamento pressoché unanime da ultimo menzionato, (Sez. unite, n. 16/1998), prospetta che, in seguito ad altra pronuncia delle stesse Sezioni unite (n. 20798/2011) – avente ad oggetto la qualificazione della recidiva diversa da quella semplice come circostanza aggravante ad effetto speciale e dell'incidenza della stessa secondo le regole sopra richiamate – il calcolo determinato dall'art. 63, comma 4, c.p. non possa non influire sul combinato disposto di cui agli artt. 278-303 c.p.p.

In sintesi, il ricorrente reclama che in caso di pluralità di circostanze aggravanti, che determinano una pena diversa da quella ordinaria del reato ovvero ad effetto speciale, il fatto che in sede di calcolo la pena non possa mai essere superiore al terzo determina una “degradazione” delle stesse a circostanze aggravanti comuni, come tali espressamente escluse dall'art. 278 c.p.p.

La questione

La questione affrontata dalla Sezioni unite riguarda i termini endofasici della custodia cautelare.L'art. 303 c.p.p. scandisce la decorrenza dei termini di custodia cautelare (e non più di “carcerazione preventiva”, come, invece, anacronisticamente riporta la sentenza in commento. Modifica apportata al testo costituzionale con la l. 398/1984) durante l'intero svolgersi del processo e cioè dal momento dell'esecuzione della misura cautelare personale a quello della sentenza irrevocabile.

Mentre per la fase delle indagini preliminari e per quella fino alla sentenza di primo grado (sia essa emessa in sede dibattimentale o a seguito di rito abbreviato, e fatta eccezione per quelle ex artt. 444 e ss. c.p.p.) il punto di riferimento della scansione è costituito, per il suo calcolo, dalla pena stabilita per il reato contestato (consumato e/o tentato), successivamente alla sentenza (ovviamente, di condanna) di primo grado esso diviene la pena irrogata in concreto.

Proprio ai fini del calcolo della pena stabilita in astratto per la condotta contestata, l'art. 278 c.p.p. detta espressamente i criteri applicativi, tenendo fuori non solo la recidiva e la continuazione ma anche tutte le circostanze, aggravanti ed attenuanti, comuni fatta eccezione per quelle previste dagli artt. 61 n. 5 e 62 n. 4 c.p.

Sono, invece, espressamente incluse nel calcolo della pena stabilita in astratto sia le circostanze per le quali la legge stabilisce una pena diversa da quella ordinaria del reato che quelle c.d. ad effetto speciale, quest'ultime individuate dall'art. 63, comma 3, c.p. in quelle che comportano un aumento superiore al terzo.

Si inserisce in tale contesto normativo, del tutto coerentemente, l'art. 63, comma 4, c.p. il quale stabilisce che tutte le volte in cui concorrono più aggravanti che comportano una pena diversa da quella ordinaria del reato e ad effetto speciale il giudice nell'irrogare la pena in concreto deve prescegliere quella che tra esse comporta la pena più grave e, poi, per l'altra (o le ulteriori altre) del medesimo tipo facoltativamente aumentare la pena per non più di un terzo - (come una qualsiasi circostanza aggravante comune).

Proprio alla luce di tale impostazione normativa ci si è posti il problema interpretativo se i parametri che il giudice deve tenere in conto in sede di irrogazione della pena sono gli stessi che vigono in sede di calcolo dei termini massimi endofasici di custodia cautelare e qualora la risposta sia positiva se quell'ulteriore (e facoltativo) aumento di un terzo, equiparabile ad una circostanza aggravante comune, incide o meno sul calcolo della pena stabilita in astratto così come delineata dall'art. 278 c.p.p.

Le soluzioni giuridiche

È stato nuovamente affermato, dai supremi giudici di legittimità, il seguente principio di diritto :

Ai fini della determinazione della pena agli effetti dell'applicazione di una misura cautelare personale, e segnatamente della individuazione dei corrispondenti termini di durata massima delle fasi processuali precedenti la sentenza di merito di primo grado, deve tenersi conto, nel caso di concorso di più circostanze aggravanti ad effetto speciale, oltre che della pena stabilita dalla legge per la circostanza più grave, anche dell'ulteriore aumento complessivo di un terzo, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., per le ulteriori omologhe aggravanti.

Nel ribadire il suddetto principio – già vigente dalla sentenza delle Sezioni unite n. 16/1998 – si è avuto, altresì, modo di precisare che :

La soluzione ermeneutica sopra affermata non elude il principio costituzionale del favor libertatis (art. 13 Cost.) non potendo confondersi la natura delle circostanze aggravanti ad effetto speciale con gli effetti del calcolo conseguente all'applicazione dell'art. 63, quarto comma, cod. pen.: il cumulo giuridico consentito da quest'ultimo in sede applicativa della pena non riverbera i propri esiti sul procedimento sub cautelare essendo lo stesso parametrato alla pericolosità

Osservazioni

La questione sottoposta allo scrutinio di legittimità trova il suo fondamento nella reclamata distonia tra due principi di diritto affermati dalle stesse Sezioni unite, rispettivamente con la sentenza 16/1998 e la sentenza 20798/2011, sopra riportate nei rispettivi connotati essenziali.

L'impalcatura dell'art. 278 c.p.p., posta a presidio del calcolo di durata della custodia cautelare per le varie fasi del processo, è palesemente incardinata su due parametri di riferimento obbligati: la pena (stabilita) in astratto, prima della pronuncia della sentenza di primo grado, e la pena (irrogata) in concreto, dopo che quest'ultima è stata emessa.

Nel prendere in esame la pena (stabilita) in astratto il legislatore ha volutamente escluso la continuazione, la recidiva e tutte le circostanze (aggravanti ed attenuanti) comuni affidandosi per il resto ad inclusioni espresse, tra cui quelle delle circostanze aggravanti regolamentate dall'art. 63, commi 3 e 4, c.p.

La soluzione ermeneutica adottata dalle Sezioni unite in commento è senz'altro corretta e coerente laddove supera l'insidioso ostacolo costituito dalla qualità delle aggravanti che determinano una pena diversa da quella ordinaria o ad effetto speciale, qualità che esse non perdono pur soggiacendo al meccanismo mitigatore dell'art. 63, comma 4, c.p.

Se è vero che quest'ultimo le equipara, ai fini del calcolo, ad un'aggravante comune non per questo esse si trasformano in tali non potendosi confondere la qualità delle stesse, – che resta immutata –, e gli effetti dovuti al loro calcolo al momento dell'applicazione in concreto.

Nell'opzione ermeneutica prescelta dalle Sez. unite è, però, del tutto disattesa la “circostanza” che l'aumento del terzo di cui all'art. 63, comma 4, c.p. è facoltativo (ma il giudice può aumentarla).

Se tutte le inclusioni operate dall'art. 278 c.p.p. sono strettamente vincolate a due dati certi – e cioè la concreta sussistenza degli elementi citati da un lato e la loro concreta operatività dall'altro – nel caso della concorrenza di più aggravanti speciali uno dei due cardini viene meno: è richiesto, difatti ed ovviamente, il canone della ritenuta sussistenza ma è del tutto disatteso quello dell'effettività della sua incidenza essendo ricondotto ad un potere facoltativo del giudice.

Appare, pertanto, paradossale, se non in contrasto con il principio di tassatività vigente in materia (art. 13 Cost.; art. 272 c.p.p.; art. 5, comma 3, Cedu), che il calcolo della pena stabilita nell'incidente sub cautelare venga affidato non ad una predeterminazione astratta e concreta certa bensì ad un criterio di mera facoltatività.

Se, quindi, è vero che il criterio di calcolo stabilito dal legislatore per l'applicazione della pena in concreto (art. 63, comma 4, c.p.) in caso di plurime circostanze aggravanti speciali non comporta una loro impropria trasformazione in circostanze aggravanti comuni lo è altrettanto il fatto che esse siano affidate ad un potere facoltativo del giudice e, dunque, sottratte di fatto ad ogni certezza riguardo la loro incidenza in concreto.

Può, difatti, accadere che ritenute incidenti in concreto ai fini del calcolo di cui all'art. 278 c.p.p. esse possano essere tanto applicate dal giudice in sede di irrogazione della pena quanto escluse con la conseguenza, in questo secondo caso, di avere “indebitamente” inciso sulla ragionevole durata della custodia cautelare senza che essa possa essere più recuperata in quanto, in seguito alla pronuncia della sentenza (di condanna) il parametro di riferimento muta (pena irrogata in concreto e non più pena stabilita in astratto) e non è più “garantisticamente” recuperabile.

In definitiva, vincolare il procedimento sub cautelare riguardo ai termini massimi della custodia cautelare prima della emissione della sentenza di primo grado ad una facoltatività applicativa costituisce un palese, ed irragionevole, scardinamento del principio della tassatività.

Guida all'approfondimento

Corte Costituzionale, 22 luglio 2005, n. 299

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