Criteri di imputazione dei reati contro la P.A. e regime della prescrizione nel processo agli enti

Maria Hilda Schettino
27 Ottobre 2016

Nella sentenza in commento la sesta Sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito ai criteri di imputazione del delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio e alla differenziazione del regime della prescrizione tra reati e illeciti amministrativi fondanti la responsabilità degli enti, ai sensi del d.lgs. 231 del 2001.
Massima

I funzionari dipendenti di società operanti nei c.d. settori speciali (nella fattispecie quello dell'energia), sono incaricati di pubblico servizio ai sensi dell'art. 358 c.p., atteso il rilievo pubblicistico dell'attività svolta da dette società, obbligate ad adottare la procedura di evidenza pubblica nella gestione degli appalti.

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, d.lgs. 231 del 2001, per asserito contrasto con gli artt. 3, 24, comma 2, e 111 Cost., in relazione alla presunta irragionevolezza della disciplina della prescrizione prevista per gli illeciti commessi dall'ente-imputato rispetto a quella prevista per gli imputati-persone fisiche, atteso che, invece, la diversa natura dell'illecito che determina la responsabilità dell'ente e l'impossibilità di ricondurre integralmente il sistema di responsabilità ex delicto di cui al d.lgs. 231 del 2001 nell'ambito e nella categoria dell'illecito penale, giustificano il regime derogatorio della disciplina della prescrizione.

Il caso

Nella sentenza in commento la sesta Sezione della Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito ai criteri di imputazione del delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio e alla differenziazione del regime della prescrizione tra reati e illeciti amministrativi fondanti la responsabilità degli enti, ai sensi del d.lgs. 231 del 2001.

La vicenda processuale ha ad oggetto una serie di episodi di corruzione nell'ambito degli appalti banditi da due delle principali società a partecipazione pubblica italiane, per la realizzazione di opere nel settore energetico per importi di notevole valore.

Secondo i giudici di merito nei diversi episodi ricorrevano schemi analoghi in base ai quali la società interessata alla partecipazione alla gara veniva contattata da un soggetto intermediario, che offriva o forniva informazioni riservate utili per vincere l'appalto o per ottenere vantaggi nella fase esecutiva della gara stessa. Tale condotta era, poi, seguita dalla copertura di fatture e contratti fittizi messi a disposizione degli intermediari per giustificare il pagamento del corrispettivo, stabilito in percentuale sul valore dell'appalto, spesso pagato su estero e ripartito tra intermediari e corrotti.

In questo schema un ruolo strategico era attribuito a due funzionari delle società committenti gli appalti, ai quali i giudici di merito avevano riconosciuto la qualifica di pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, perché ritenuti soggetti corrotti e percettori delle tangenti in cambio delle informazioni rese alle società partecipanti alle gare di appalto.

In primo grado erano stati condannati i legali rappresentanti delle società coinvolte, con conseguente liquidazione delle spese e del risarcimento dei danni a favore delle società privatizzate appaltanti, costituitesi parti civili; inoltre, le società “corruttrici” erano state ritenute responsabili dell'illecito amministrativo previsto dall'art. 25, comma 3, d.lgs. 231 del 2001.

In secondo grado, poi, la Corte di appello aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dei legali rappresentanti appellanti per l'estinzione dei reati ad essi ascritti a seguito dell'intervenuta prescrizione, confermando le statuizioni civili, e confermando anche la responsabilità per gli illeciti amministrativi a carico delle società.

La sentenza di appello veniva impugnata con ricorso davanti alla suprema Corte, la quale annullava il provvedimento gravato e rinviava per nuovo giudizio ad altra sezione della medesima Corte di appello.

La questione

Impugnando la sentenza di appello, i difensori delle persone fisiche e giuridiche imputate nel procedimento oggetto di questo commento hanno sottoposto all'attenzione dei giudici di Cassazione due fondamentali questioni.

La prima concerne la correttezza dell'attribuzione di una qualifica soggettiva di rilievo pubblicistico ai funzionari delle società privatizzate committenti gli appalti, rispetto al ruolo da loro ricoperto all'epoca dei fatti, elemento la cui assenza avrebbe fatto cadere l'imputazione del reato previsto dall'art. 319 c.p.

La seconda riguarda, invece, la compatibilità con il dettato degli artt. 3, 24, comma secondo e 111 Cost. della disciplina della prescrizione degli illeciti amministrativi ex art. 22 d.lgs. 231 del 2001(o decreto) che, nel caso di interruzione determinata dalla contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, prevede il “congelamento” della prescrizione amministrativa fino al passaggio in giudicato della sentenza che conclude il giudizio. Il collegio difensivo definisce tale disciplina un'irragionevole differenziazione rispetto agli imputati persone fisiche, dal momento che identica è la ragione che legittima la prescrizione in entrambi i casi, ovvero il venir meno dell'interesse dello Stato alla punizione dell'illecito per il decorso del tempo.

Le soluzioni giuridiche

Nel decidere sulla prima questione giuridica posta dai ricorsi delle difese, la suprema Corte, in aderenza alla soluzione offerta dai giudici di merito che si erano richiamati alla concezione oggettiva delle qualifiche pubblicistiche, ritiene che per qualificare un soggetto quale pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, non si debba far riferimento all'esistenza di un rapporto di dipendenza di tale soggetto con lo Stato o con altro ente pubblico, bensì si debbano considerare i caratteri qualificanti l'attività da lui svolta in concreto, che deve poter essere definita, rispettivamente, pubblica funzione o pubblico servizio.

Infatti, sono gli stessi artt. 357 e 358 c.p. a collegare le qualifiche di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio proprio alle attività svolte da tali soggetti, che possono essere definite come pubblica funzione amministrativa o pubblico servizio, non per il legame tra il soggetto e un ente pubblico ma per la disciplina pubblicistica che regola l'attività e per i contenuti giuridici che la connotano.

Secondo i giudici di legittimità, quindi, le due categorie sono accomunate da una prospettiva funzionale oggettiva, nel senso che entrambe sottostanno al criterio della delimitazione esterna, imperniato sulla natura pubblicistica dell'attività svolta, mentre il loro elemento di discrimen è costituito dall'elenco dei poteri previsti dall'art. 357 c.p.

La norma prevede, infatti, che il pubblico ufficiale debba essere dotato di poteri deliberativi, autoritativi o certificativi, mentre l'incaricato di pubblico servizio sia chi, a qualunque titolo e prescindendo dall'esistenza di un rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione, presti un pubblico servizio, inteso come un'attività disciplinata nelle stesse forme della pubblica funzione ma senza i poteri tipici di questa e con l'esclusione di attività che si risolvono in semplici mansioni di ordine o di opera meramente materiale.

Nel caso di specie, dunque, la sesta Sezione esclude sicuramente la sussistenza dello status di pubblico ufficiale in capo ai funzionari delle società appaltanti, attribuendogli invece la veste di incaricati di pubblico servizio in virtù del rilievo pubblicistico della disciplina dell'attività svolta da tali società le quali, pur essendo degli enti privatizzati, si occupano di appalti nei c.d. settori sensibili (come quello dell'energia) e sono, per tale motivo, soggetti all'obbligo di osservanza della procedura di evidenza pubblica. L'obbligatorietà di una simile procedura è, secondo i giudici, un indice sintomatico del rilievo pubblicistico dell'attività svolta dalle società, in quanto la sua previsione presuppone la necessità e il riconoscimento che una determinata attività, relativa a settori strategici per gli interessi pubblici di uno Stato, sia sottoposta ad un regime amministrativo che assicuri la tutela della trasparenza e concorrenza, assieme all'imparzialità della scelta del soggetto aggiudicatario.

Con riguardo, poi, alla seconda questione giuridica posta all'attenzione della suprema Corte, la sesta Sezione ritiene manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, d.lgs. 231 del 2001 chiarendo che la responsabilità dell'ente si fonda su un illecito amministrativo e la circostanza che tale illecito venga accertato in un processo penale non muta la sua natura di tertium genus, a fianco alla responsabilità penale o amministrativa pura, per cui il sistema di responsabilità da delitto degli enti non può essere ricondotta integralmente nelle categorie dell'accertamento del reato. Di conseguenza, se l'illecito penale e quello amministrativo, che fonda la responsabilità degli enti, hanno una diversa natura, allora può giustificarsi un regime derogatorio e differenziato con riferimento alla prescrizione.

La Corte precisa, inoltre, che il richiamo alle disposizioni relative all'imputato, contenuto nell'art. 35, d.lgs. 231 del 2001, non ha l'effetto di parificare integralmente l'ente alla persona fisica, con la conseguente necessità di uniformare i vari istituti. Quest'ultima norma, invero, contiene una clausola di compatibilità indicativa perché sottolinea il riconoscimento, da parte del Legislatore, dell'oggettiva impossibilità di una completa parificazione, prevedendo infatti numerose deroghe a tale principio nel corpo del decreto.

Del resto, la Corte rileva come l'art. 22 d.lgs. 231/2001 abbia puntualmente attuato i principi di delega contenuti nella legge 300 del 2000 che, all'art. 11, lett. r), prevedeva espressamente di disciplinare l'interruzione della prescrizione secondo le norme del codice civile, disposizione che replicava, a sua volta, il contenuto dell'art. 28, legge 689 del 1981 che, proprio in materia di illecito amministrativo, richiama la disciplina della prescrizione del codice civile.

Infine, quanto al rapporto tra la prescrizione penale e quella amministrativa ai sensi del d.lgs. 231 del 2001, l'art. 60 del decreto stabilisce che non sia possibile procedere alla contestazione dell'illecito amministrativo nel caso in cui il reato presupposto sia estinto per intervenuta prescrizione. Quindi, se la prescrizione penale matura prima che sia stato contestato l'illecito amministrativo, la potestà punitiva dello Stato a carico dell'ente decade.

Osservazioni

La sentenza in commento ha il merito di fare chiarezza su due problematiche di grande interesse per gli operatori del diritto.

La recente giurisprudenza, infatti, ha cercato di individuare gli indici sintomatici del carattere pubblicistico dell'attività svolta da un soggetto – allo scopo di determinare la configurabilità o meno dei delitti contro la P.A. previsti dal codice penale – riferendosi talvolta alla natura pubblica dell'ente da cui promana l'attività del soggetto, talaltra al perseguimento di finalità pubbliche, all'impiego di pubblico denaro o, ancora, alla soggezione a controlli pubblici, escludendo il riferimento a criteri quali la forma giuridica dell'ente e la sua costituzione secondo le norme del diritto pubblico.

Sul punto, anche la dottrina è concorde nel sostenere che le qualifiche soggettive pubblicistiche si acquistino non per ciò che si è ma per ciò che si fa.

Ma se, seguendo questi criteri, la giurisprudenza aveva riconosciuto la qualifica di incaricato di pubblico servizio ad un dipendente di una società privata esercitante un servizio pubblico, il problema si poneva per i soggetti operanti nelle società c.d. privatizzate. In questo settore, una pronuncia dei giudici di legittimità aveva esteso la qualifica pubblicistica a soggetti operanti in enti privatizzati, riconoscendo che la trasformazione dell'ente pubblico in società per azioni non fosse sufficiente a cancellare le connotazioni proprie dell'originaria natura pubblica dell'ente, purché l'attività di quei soggetti fosse disciplinata da una norma pubblicistica e perseguisse finalità pubbliche, anche se con strumenti privatistici.

Il caso in esame vede come protagonisti proprio delle società privatizzate, a partecipazione pubblica, operanti in uno dei c.d. settori speciali, quale quello dell'energia, e per ciò sottoposte ad un regime derogatorio nella disciplina degli appalti, sia per il rilievo strategico di tali attività per l'intera economia nazionale, sia per il fatto che queste società agiscono in un regime di sostanziale monopolio, anche se in un settore liberalizzato. È per simili ragioni che a queste società viene imposta la procedura di evidenza pubblica nell'assegnazione degli appalti, una procedura amministrativa che consente di tutelare la trasparenza, la concorrenza nonché l'imparzialità nella scelta del soggetto aggiudicatario, con l'intento di prevenire e contrastare l'insorgere di fenomeni corruttivi, e che comporta anche il riconoscimento della qualifica di incaricati di pubblici servizi i soggetti che vi operano.

Nel caso di specie, l'accordo corruttivo aveva riguardato direttamente la procedura di gara, falsandola e incidendo proprio sull'elemento distintivo attributivo del rilievo pubblico dell'attività svolta dalle società appaltanti e delle funzioni affidate ai suoi dipendenti. I giudici di legittimità, facendo proprie le osservazioni dei giudici di merito sull'argomento, hanno anche chiarito come non fosse decisivo il fatto che l'atto contrario ai doveri di ufficio fosse ricompreso nelle mansioni ricoperte dall'incaricato di pubblico servizio, essendo sufficiente che si trattasse di un atto rientrante nelle competenze dell'ufficio a cui il soggetto apparteneva e in rapporto al quale gli fosse permesso di potersi ingerire, anche solo di fatto.

Con riguardo alla seconda problematica, la sesta Sezione, dopo aver spiegato le ragioni dell'impossibilità di garantire un eguale trattamento nella disciplina della prescrizione degli illeciti amministrativi e penali, chiarisce anche come l'art. 22 d.lgs. 231/2001 non sia confliggente neanche con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., comma secondo (e già previsto dall'art. 6 Cedu), inteso anche come diritto ad essere giudicato senza ritardo, con riferimento all'art. 24 Cost. e all'accezione del canone di ragionevole durata in termini di garanzia soggettiva.

La Corte osserva come il principio di ragionevole durata non si riferisca solo alla semplice speditezza in funzione di un'efficienza tout court, bensì ad un razionale contemperamento dell'efficienza con le garanzie, la cui concreta attuazione è rimessa alle opzioni del legislatore. Questi, infatti, nell'art. 22 d.lgs. 231/2001, da un lato ha introdotto un termine di prescrizione oggettivamente breve – cinque anni dalla consumazione dell'illecito – al fine di contenere la durata della prescrizione e di non lasciare uno spazio temporale eccessivamente ampio per l'accertamento dell'illecito nel corso delle indagini e anche per favorire le esigenze di certezza necessarie per l'attività delle imprese, ma dall'altro, ha previsto un regime degli effetti interruttivi che replica la disciplina civilistica, stabilendo che, una volta contestato l'illecito amministrativo, la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio.

In questo modo è stato realizzato un opportuno bilanciamento tra le esigenze di durata ragionevole del processo,soprattutto nel prevedere un termine breve di prescrizione, e le esigenze di garanzia,nel senso della completezza dell'accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all'illecito amministrativo dell'ente.

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