Dichiarazioni infedeli in tema di finanziamenti o erogazioni pubbliche

Donatella Perna
28 Giugno 2016

In tema di indebita percezione di erogazioni pubbliche, la produzione all'ente erogatore di una falsa autocertificazione finalizzata a conseguire indebitamente contributi finanziari integra il reato di cui all'art. 316-ter c.p., anziché quello di truffa aggravata, qualora l'ente non venga indotto in errore, in quanto chiamato solo a prendere atto dell'esistenza dei requisiti autocertificati e non a compiere una autonoma attività di accertamenti.
Massima

In tema di indebita percezione di erogazioni pubbliche, la produzione all'ente erogatore di una falsa autocertificazione finalizzata a conseguire indebitamente contributi finanziari integra il reato di cui all'art. 316-ter c.p., anziché quello di truffa aggravata, qualora l'ente non venga indotto in errore, in quanto chiamato solo a prendere atto dell'esistenza dei requisiti autocertificati e non a compiere una autonoma attività di accertamenti.

Il caso

L'imputato aveva ottenuto dall'Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) contributi comunitari per gli anni 2000-2003 nell'ordine di diverse decine di migliaia di euro, per la trasformazione a “seminativi” di alcuni terreni, nonostante che si trattasse di terreni destinati, fino ad epoca successiva al 31 dicembre 1991 – limite temporale per l'ammissione al Regime Pac seminativi – a pascolo permanente e aveva poi cercato di ottenere un ulteriore contributo per una successiva annualità, senza riuscirvi, perché i controlli effettuati avevano svelato la frode.

Era stato quindi condannato in secondo grado per il reato di truffa aggravata consumata in relazione a tutti i fatti in contestazione, ritenendo la Corte d'appello che anche per l'annualità 2003 egli era stato comunque ammesso al contributo, sebbene poi non lo avesse di fatto percepito, avendo l'Agea constatato la divergenza tra dichiarazioni e verifiche.

Avverso la sentenza ha avanzato ricorso per cassazione l'imputato, affermando, tra l'altro, l'insussistenza dell'elemento soggettivo della truffa e l'applicabilità, nel caso di specie, dell'art. 316-ter c.p., essendosi egli limitato a presentare le domande di contributo e rimettendosi alle successive verifiche dell'Agea, senza in alcun modo manifestare intenti fraudolenti.

La suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato, considerando truffaldina la condotta posta in essere dal ricorrente, e non riconducibile all'ipotesi residuale di cui all'art. 316-ter c.p., poiché nel caso in esame l'ente erogante non era chiamato solo a prendere atto dell'esistenza dei requisiti autocertificati ma anche a svolgere attività di verifica e di controllo della sussistenza dei requisiti stessi, attività di verifica e controllo resa più ardua proprio dalla condotta fraudolenta dell'imputato.

La questione

La questione proposta dal caso in esame è dibattuta da tempo in dottrina e giurisprudenza e riguarda i non chiarissimi rapporti tra l'art. 640-bis c.p. e l'art. 316-ter c.p.: posto che la seconda norma, secondo la ormai prevalente opinione (Cass. pen., Sez. unite, n. 16568/2007), non si pone in rapporto di specialità rispetto alla prima, bensì riveste funzione sussidiaria e residuale, prevedendo anche un limite edittale di pena (minimo e massimo) di gran lunga inferiore, è del tutto evidente l'importanza di stabilire, volta per volta, quale delle due figure delittuose sia ravvisabile nel caso concreto.

Le soluzioni giuridiche

La distinzione tra le due ipotesi di reato non è affatto agevole: secondo un orientamento piuttosto risalente, l'art. 316-ter c.p. tende a garantire che nessuna condotta mediante la quale vengano ottenute indebite erogazioni dai soggetti pubblici ivi indicati, rimanga penalmente irrilevante, attraverso la punizione di comportamenti che, a causa della loro modesta intensità fraudolenta, quali il semplice mendacio o la semplice omissione di informazioni dovute, non sono rilevanti agli effetti dell'art. 640-bis c.p. (Cass. pen., Sez. VI, n. 2976/2001).

Si è andata poi progressivamente affermando la tesi secondo cui il discrimine tra le due fattispecie non si colloca sul piano della condotta illecita, la quale sotto il profilo materiale potrebbe anche essere identica, bensì sul piano dell'elemento psicologico del soggetto passivo, nel senso che: ove la pubblica amministrazione destinataria si limiti a recepire soltanto passivamente gli atti falsi o le dichiarazioni non veritiere, che siano finalizzati all'ottenimento di erogazioni o aiuti di qualsiasi genere, sarà configurabile il reato di cui all'art. 316-ter c.p.; ove la pubblica amministrazione sia invece indotta in errore, sia cioè concretamente circuita dalla condotta artificiosa o raggirante del soggetto attivo, allora sarà configurabile il reato di cui all'art. 640-bis c.p.

La suprema Corte, consapevole della fumosità di un simile criterio discretivo, ha tentato più volte di meglio specificarlo: nel 2010 le Sezioni unite hanno precisato che l'art. 316-ter c.p. punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate – oltre che dal silenzio antidoveroso – da false dichiarazioni o dall'uso di atti e documenti falsi ma nelle quali l'erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell'ente erogatore, che non viene indotto in errore, perché in realtà si rappresenta correttamente solo l'esistenza della formale attestazione del richiedente (Cass. pen., Sez. unite, 16 dicembre 2010, n. 7537).

In altre, successive, decisioni, le Sezioni semplici hanno affermato che il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche differisce da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche per la mancanza dell'elemento dell'induzione in errore, la quale può anche desumersi dal falso documentale allorché lo stesso, per le modalità di presentazione o per altre caratteristiche, sia di per sé idoneo a trarre in inganno l'autorità (Cass. pen., Sez. III, n. 2382/2012); ancora, hanno affermato che nel reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato o di enti pubblici la condotta non ha natura fraudolenta, in quanto la presentazione delle dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere costituisce fatto strutturalmente diverso dagli artifici e raggiri, per l'assenza dell'induzione in errore (Cass. pen., Sez. II, n. 46064/2012); induzione in errore da intendersi come deviazione dal percorso valutativo che l'ente erogatore deve compiere per l'erogazione del beneficio, e che non è ravvisabile laddove non sia prevista un'attività di accertamento dei requisiti autocertificati ma solo una presa d'atto degli stessi (Cass. pen., Sez. II, n. 49642/2014).

La sentenza in commento si pone nel solco interpretativo fin qui disegnato, insistendo particolarmente sul profilo da ultimo indicato.

I giudici precisano infatti che il richiedente il contributo comunitario Agea, è tenuto a fornire all'ente non delle semplici dichiarazioni autocertificate ma tutti gli elementi utili all'apprezzamento dell'ammissibilità dell'aiuto e che il regolamento Ce 1122/2009 prevede un articolato sistema di controlli preventivi da parte dell'autorità competente, nonché controlli in loco a sorpresa, senza preavviso, finalizzati proprio alla verifica della sussistenza in concreto dei requisiti di ammissibilità e condizionalità del beneficio.

In conclusione, secondo la decisione in commento, la normativa configura l'obbligo del richiedente di interagire con l'ente erogatore con una condotta leale e trasparente, e, per converso, la posizione “attiva” dell'ente richiesto rispetto alla formulazione della domanda di aiuto: ne consegue – in caso di produzione di false informazioni e false dichiarazioni da parte del richiedente l'aiuto, cui consegua l'erogazione del contributo – l'induzione in errore dell'ente erogante, e quindi l'applicabilità dell'art. 640-bis c.p. e non della residuale ipotesi di reato prevista dall'art. 316-ter c.p.

Osservazioni

In conclusione, pare confermarsi nella giurisprudenza di legittimità quel criterio discretivo già abbozzato in Cass. pen., Sez. III, n. 2382/2012: la fattispecie di cui all'art. 640-bisc.p., rispetto a quella di cui all'art. 316-ter c.p., richiede, oltre all'esposizione di dati falsi, anche un quid pluris idoneo a vanificare o a rendere meno agevole l'attività di controllo della richiesta da parte dell'autorità.

In tale ottica, l'art. 316-ter c.p., in linea con la propria funzione di norma residuale e sussidiaria, destinata a regolare ipotesi non riconducibili alla truffa si accontenta di qualcosa di meno, dispensando l'accusa dall'onere di altri accertamenti, colpendo insomma là dove l'altro più grave delitto non fosse presente o dimostrabile, compensando in questo modo, anche mediante una semplificazione probatoria, una tutela sensibilmente meno intensa con una a più ampio raggio (Cass. cit.).

Ne deriva che l'ambito di operatività della norma è limitato ad ipotesi marginali, come, ad es., quella del mero silenzio antidoveroso, o dell'approfittamento dell'errore altrui, o della condotta che si iscriva nell'ambito di un procedimento che non comporti alcuna verifica sulla veridicità delle dichiarazioni del soggetto attivo o delle relative semplici omissioni.

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