Responsabilità dell'ente per il delitto di corruzione internazionale e principio di territorialità della legge

28 Luglio 2016

La sentenza ha ad oggetto la responsabilità ex d.lgs. 231/2001 di una società italiana per fatti di corruzione internazionale tipizzati dall'art. 322-bis, comma 2, n. 2, c.p. Tra le molteplici questioni affrontate, la prima riguarda la compatibilità con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale della regola contenuta nel d.lgs. 231/2001, art. 29, secondo cui la società incorporante risponde dei reati commessi attraverso la società incorporata.
Massima

In caso di fusione anche per incorporazione di una società responsabile di illeciti amministrativi, l'ente che risulta dall'operazione risponde dei reati dei quali erano responsabili le società partecipanti, evitando così il rischio che tali vicende modificative si risolvano in una modalità di elusione della responsabilità.

Ai fini della punibilità dei reati secondo la legge italiana, è sufficiente l'essersi verificata in Italia anche la sola ideazione del delitto, quantunque la restante condotta sia stata attuata all'estero.

In tema di responsabilità amministrativa degli enti, nell'ipotesi di reato commesso nel territorio dello Stato, la celebrazione del processo all'estero, in difetto di una specifica convenzione con lo Stato estero che escluda l'esercizio della giurisdizione italiana, non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti.

Il caso

La sentenza in commento riguarda una vasta vicenda corruttiva che aveva coinvolto il consorzio internazionale TSKJ, composto dalla società italiana Snamprogetti S.P.A. (poi incorporata da Saipem S.P.A.) per il tramite della controllata Snamprogetti Netherlands, dalla francese Technip, dalla statunitense Kellogg e dalla nipponica Japan Gas Company.

Dal momento della costituzione della joint venture nel 1994 e sino al 2004, sarebbero stati prima promessi e poi effettivamente corrisposti compensi indebiti per un ammontare complessivo di circa 187 milioni di dollari a favore di pubblici ufficiali nigeriani, posti sia ai massimi livelli (i Presidenti della Repubblica nigeriana succedutisi nel tempo) che ai livelli burocratici operativi. Ciò per ottenere contratti di Engineering, Procurement and Construction (EPC) del valore complessivo di oltre 6 miliardi di dollari, relativi alla realizzazione di sei impianti di liquefazione di gas naturale nell'area di Bonny Island in Nigeria.

Le commesse furono affidate alla TSKJ dalla società nigeriana NLNG, controllata dalla compagnia nazionale petrolifera NNPC. I contratti per la TSKJ erano stati stipulati tramite tre società costituite in Madeira. Una di queste era partecipata al 25% da Snamprogetti Netherlands e fu utilizzata, secondo l'accusa, per la conclusione di contratti in tutto o in parte fittizi di consulenza con due società straniere, la Tristar di Gibilterra e la nipponica Marubeni, destinate a fare da mediatore per il pagamento delle tangenti.

Durante la fase cautelare, era già intervenuta un'importante sentenza della Cassazione che, affrontando una questione vivamente dibattuta, aveva affermato l'applicabilità agli enti collettivi di misure cautelari interdittive anche per fatti di corruzione internazionale (Cass. pen., Sez. VI, 1 dicembre 2010, n. 42701).

I reati contestati alle persone fisiche si erano nel frattempo prescritti e quindi il procedimento era continuato solo nei confronti della società Saipem, definitivamente condannata dalla Cassazione con sentenza confermativa della decisione della Corte di appello milanese.

La questione

La sentenza ha ad oggetto la responsabilità ex d.lgs. 231/2001 di una società italiana per fatti di corruzione internazionale tipizzati dall'art. 322-bis, comma 2, n. 2, c.p. Tra le molteplici questioni affrontate, ci limitiamo a menzionare le seguenti: a) la compatibilità con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale (art. 27, comma 1, Cost.) della regola contenuta nel d.lgs. 231/2001, art. 29, secondo cui la società incorporante risponde dei reati commessi attraverso la società incorporata; b) i criteri in base ai quali determinare se il fatto di reato sia stato commesso in Italia o all'estero e, conseguentemente, l'applicabilità del d.lgs. 231/2001 su basi territoriali (ex art. 6 c.p.) ovvero extraterritoriali (ergo alle più selettive condizioni dettate dall'art. 4 d.lgs. 231/2001); c) l'eventuale presenza di argini normativi alla moltiplicazione di procedimenti per i medesimi fatti e conseguentemente di condanne in idem in diverse giurisdizioni nazionali; d) la decorrenza del termine di prescrizione delle sanzioni “amministrative” irrogabili agli enti collettivi (v. art. 22 d.lgs. 1/2001), in caso di commissione di un reato di corruzione.

Le soluzioni giuridiche

Con riferimento al primo quesito – responsabilità della società incorporante per gli illeciti già commessi dalla incorporata – la Cassazione ha ritenuto pienamente conforme al principio della responsabilità personale ex art. 27, comma 1, Cost., la regola dettata dall'art. 29 d.lgs. 231/2001, secondo cui l'ente risultante da una operazione di fusione, anche per incorporazione, risponde dei reati dei quali erano responsabili le società fuse o incorporate, trattandosi di disciplina tesa ad evitare il rischio che tali vicende modificative si risolvano in una modalità di elusione della responsabilità. Siffatta soluzione, secondo la Corte regolatrice, sarebbe richiesta anche dalla normativa sovranazionale che impone l'adozione di sanzioni proporzionate, efficaci e dissuasive nei confronti delle persone giuridiche per fatti di corruzione internazionale (cfr. la Convenzione Ocse sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali e la Convenzione Ue relativa alla lotta contro la corruzione nella quale siano coinvolti funzionari delle Comunità Europee o degli Stati membri dell'Ue). Similmente, la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, in tema di responsabilità della società incorporante per violazioni delle regole a presidio della concorrenza commesse dall'incorporata, muove dall'assunto secondo cui, avallando un'applicazione eccessivamente "formalistica" del principio della responsabilità personale nei confronti delle persone giuridiche, la ratio e la finalità delle sanzioni verrebbero eluse ed i gestori di imprese sarebbero incentivati a sottrarsi alla loro responsabilità mediante modifiche organizzative “mirate”.

Su queste basi, la suprema Corte ha altresì escluso l'illegittimità costituzionale per violazione dell'art. 76 Cost. (eccesso di delega legislativa) delle disposizioni di cui agli artt. da 28 a 33 del d.lgs. 231/2001: questione sollevata dalla difesa in considerazione del silenzio della legge 300/2000 sulla problematica delle vicende modificative dell'ente collettivo. Secondo la Cassazione, le disposizioni che prevedono, in caso di trasformazione o fusione dell'ente, la responsabilità del nuovo soggetto per i reati commessi anteriormente, in quanto volte ad evitare che le operazioni di trasformazione dell'ente si risolvano in agevoli modalità di elusione della responsabilità, risultano coerenti con i criteri direttivi della delega, tra cui vi era proprio quello di prevedere sanzioni amministrative effettive, proporzionate e dissuasive.

La suprema Corte ha, altresì, respinto la censura difensiva concernente la mancanza della procedibilità del reato e la conseguente applicabilità dell'art. 37 d.lgs. 231 del 2001, per essere stato il reato commesso interamente all'estero. Al riguardo, la Cassazione ha richiamato la consolidata giurisprudenza secondo cui, per ritenere il reato commesso nel territorio dello Stato, basta che al suo interno si sia verificato anche solo un frammento della condotta, che, seppur privo dei requisiti di idoneità e di inequivocità richiesti per il tentativo, sia apprezzabile in modo tale da collegare la parte della condotta realizzata in Italia a quella realizzata in territorio estero (es. Cass. pen., Sez. VI, del 24 aprile 2012, n. 16115). Tuttavia, nel caso di specie, quale frammento della condotta è stata valorizzata l'asserita ideazione in Italia del delitto attuato all'estero, la quale – secondo il giudice di legittimità – pure sarebbe idonea a radicare la giurisdizione interna su basi territoriali. Così opinando, si è giudicata infondata la tesi della intera consumazione all'estero del reato presupposto.

Sulla questione del ne bis in idem internazionale, la Cassazione ha ribadito che esso non costituisce principio o consuetudine di diritto internazionale, sicché deve trovare la sua fonte esclusivamente in un obbligo pattizio. Pertanto, nel caso di specie, concernente un'ipotesi di responsabilità “amministrativa” degli enti derivante da reato commesso in parte nel territorio dello Stato, la celebrazione del processo all'estero, in difetto di una specifica convenzione con lo Stato estero che escluda l'esercizio della giurisdizione italiana, non precluderebbe la rinnovazione del giudizio in Italia per gli stessi fatti.

Infine, per quanto concerne la problematica della prescrizione, secondo la suprema Corte, qualora il reato presupposto sia quello di corruzione e alla promessa faccia seguito la dazione, è a tale ultimo momento che deve farsi riferimento ai fini del calcolo della prescrizione dell'illecito amministrativo dell'ente, trattandosi del momento in cui si verifica la consumazione del reato (trattasi della classica concezione giurisprudenziale della corruzione come reato a duplice schema).

Osservazioni

Tra le tante delicate questioni affrontate nella sentenza de qua, intendiamo riservare qualche riflessione finale a quella concernente l'applicazione territoriale, nel caso sub iudice, dell'art. 322-bis c.p. e, correlativamente, del d.lgs. 231/2001 rispetto all'ente nel cui interesse sia stato commesso il fatto corruttivo contestato.

In effetti, secondo il nostro codice penale (art. 6), quando l'azione o l'omissione che costituisce il reato – ovvero l'evento che è la conseguenza dell'azione od omissione – è avvenuta in tutto o in parte nel territorio dello Stato, il reato si considera commesso in Italia. E non v'è dubbio che l'invalsa interpretazione giurisprudenziale dilati all'estremo la nozione di parte dell'azione od omissione costitutiva del reato, accontentandosi di un qualsiasi atto o frammento dell'iter che dalla preparazione conduce all'effettiva consumazione del reato.

La sentenza in rassegna, sposando questa impostazione, appare di segno ancora più marcatamente estensivo nel ritenere sufficiente l'essersi verificata in Italia anche la sola ideazione del delitto, quantunque la restante condotta sia stata attuata all'estero. In termini generali, infatti, l'ideazione del reato, quale stadio addirittura antecedente alla mera preparazione (irrilevante, secondo la tradizionale interpretazione, ai fini del delitto tentato), appare uno stadio dell'iter criminis veramente troppo anticipato perché un reato possa considerarsi commesso nel territorio dello Stato. Tanto più che la stessa giurisprudenza di legittimità non ha mancato, talvolta, di reputare inidoneo a radicare la giurisdizione interna un generico proposito, privo di concretezza e specificità, di commettere all'estero fatti delittuosi, poi lì integralmente realizzati, sotto il profilo soggettivo e oggettivo (Cass. pen., Sez. VI, 7 gennaio 2008, n. 1180).

Guida all'approfondimento

CENTONZE DELL'OSSO, La corruzione internazionale. Profili di responsabilità delle persone fisiche e degli enti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013;

DE AMICIS, Cooperazione internazionale e corruzione internazionale, Milano, 2007;

MANACORDA, La corruzione internazionale del pubblico agente. Linee dell'indagine penalistica, Napoli, 1999;

MONGILLO, La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale. Effetti, potenzialità e limiti di un diritto penale “multilivello” dallo Stato-nazione alla globalizzazione, Napoli, 2012.

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