L’obbligo del segreto

28 Settembre 2015

Una delle caratteristiche delle indagini preliminari è costituita dal segreto degli atti di indagine che in essa si compiono. Dall'ampiezza riconosciuta a tale segreto, o meglio all'obbligo di mantenerlo, discende l'incriminazione penalistica delle condotte che lo violano.
Abstract

Una delle caratteristiche delle indagini preliminari è costituita dal segreto degli atti di indagine che in essa si compiono. Dall'ampiezza riconosciuta a tale segreto, o meglio all'obbligo di mantenerlo, discende l'incriminazione penalistica delle condotte che lo violano.

Le pronunce registrate in materia costituiscono tutte espressione del difficile compito di bilanciamento tra la tutela delle finalità ed il rispetto delle necessità proprie del procedimento penale, da una parte, ed i diritti e le libertà lambite, e più spesso incise, dall'attività investigativa, dall'altra.

In particolare, la normativa sull'obbligo del segreto si colloca a confine con taluni diritti costituzionalmente garantiti e segnatamente con il diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost. e con il diritto di essere informato riservatamente “nel più breve tempo possibile della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico” di cui al terzo comma dell'art. 111 Cost. e art. 6 comma 3, Cedu.

Di contro, deve essere assicurato il fine proprio del procedimento penale, ovvero quello di tutela il regolare svolgimento delle indagini e di non pregiudicare la raccolta di importanti elementi di prova e, al contempo, quello di non condizionare la valutazione del giudice chiamato a decidere con “mente vergine” .

Da qui il difficile compromesso che di seguito si illustra.

L'oggetto

L'art. 329 del vigente codice di rito ammanta di segretezza gli “atti di indagine compiuti dal pubblico e dalla polizia giudiziaria”, a differenza del segreto istruttori del codice del 1930 che si estendeva a tutti gli atti della fase istruttoria.

La portata applicativa del citato obbligo ricomprende dunque solo le investigazioni compiute dai principali protagonisti dell'attività di raccolta di elementi investigativi.

Dall'analisi della norma sopra richiamata parte della dottrina è pervenuta ad escludere dall'obbligo di segretezza gli atti compiuti dal giudice per le indagini preliminari e quelli compiuti su iniziativa di altri soggetti, segnatamente dalla persona offesa (G. RUELLO, Segreto d'indagine e diritto di cronaca, in Giust. Pen. 1991, III, 602).

Un importante contributo nella circoscrizione dell'ambito di operatività del segreto è stato apportato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale “ai fini dell'integrazione del reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, non rientrano nel divieto di pubblicazione di cui all'art. 114 c.p.p. i documenti di origine extraprocessuale acquisiti al procedimento e non compiuti dal P.M. o dalla polizia giudiziaria (nella specie, informativa della Agenzia delle Entrate), non essendo gli stessi coperti dal segreto ex art. 329 c.p.p.” (Cass. pen., Sez. I, 9 marzo 2011, n. 13494).

Ne consegue che la norma di cui all'art. 329 c.p.p. non ricomprende neppure gli atti compiuti e formatisi per fini diversi da quelli del procedimento penale, anche se ivi acquisiti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria.

Sempre sotto il profilo oggettivo dell'obbligo, si distingue generalmente tra l'atto (la veste esteriore e la documentazione dell'attività investigativa) ed il suo contenuto (consistente in una riproduzione sommaria di esso).

L'obbligo del segreto, secondo la dizione legislativa, riguarderebbe dunque soltanto l'estrinsecazione e la documentazione dell'atto di indagine, non anche il fatto storico oggetto di indagine (P. TONINI, Segreto investigativo, in Enc. Giur. Treccani, XXVIII, Roma, 1992, p. 501; in senso analogo Cass. pen., Sez. VI, 16 febbraio 2011, n. 20105).

Riscontro a tale ricostruzione si rinviene nel potere di segretazione dei fatti oggetto di indagine riconosciuto dall'art. 391-quinquies c.p.p. al pubblico ministero che, come si vedrà nel prosieguo, consente all'autorità inquirente di estendere l'obbligo che grava sulle persone informate sui fatti, con le quali sono stati compiuti atti di indagine coperti da segreto come le sommarie informazioni testimoniali (art. 351 c.p.p.), fino a ricomprendervi “i fatti ed alle circostanze oggetto di indagine”.

Argomentando a contrario dalla giurisprudenza formatasi in merito al reato di rivelazione di segreti di ufficio (art. 326 c.p.) sembrerebbero non coperte dal segreto le informazioni di pubblico dominio o prive di significato (Cass. pen., Sez. VI, 18 giugno 2010, n. 33609).

Il segreto potrebbe invece pretendersi sui fatti percepibili da un numero indeterminato, ma non infinito, di persone, quando la divulgazione abbia ampliato la diffusione della notizia.

La Suprema Corte di Cassazione, infatti, ha ritenuto che integrasse il reato di rivelazione di segreti di ufficio la condotta di un agente di polizia giudiziaria che aveva divulgato il contenuto di un'annotazione di servizio concernente le indagini eseguite, sul rilievo che non assumesse rilevanza il fatto che gli atti o i fatti segreti erano già conosciuti in un ambito limitato di persone, “quando la condotta dell'agente abbia avuto l'effetto di divulgazione a settori ben più vasti di pubblico” (Cass. pen., Sez. VI, 17 maggio 2004, n. 35647).

Allo stesso modo, per quanto attiene all'integrazione del reato di pubblicazione arbitraria di un atto del procedimento penale (art. 684 c.p.p.), la giurisprudenza di legittimità ha ribadito l'irrilevanza del fatto che la notizia fosse stata già diffusa da altra fonte di informazione e non desunta direttamente dagli atti processuali, attesa la maggiore diffusione e propagazione conseguente alla pubblicazione (Cass. pen., Sez. I, 17 dicembre 2012, n. 473).

Sempre dalle pronunce giurisprudenziali si ricava l'esclusione del segreto sulle notizie direttamente percepite da colui che le divulga, anche quando su di esso indaghi l'autorità giudiziaria (Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 1994, n. 10135).

Alla luce della finalità perseguita dalla normativa sul segreto nella fase delle indagini preliminari e dell'opportunità di far prevalere la tutela delle esigenze a queste ultime connaturate rispetto al diritto di difesa, oltre che al diritto di cronaca (art. 31 Cost.), si deve risolvere la problematica concernente l'applicazione della previsione dell'art. 329 c.p.p. anche agli atti contenuti nei fascicoli concernenti fatti non costituenti notizie di reato (iscritti dal pubblico ministero a mod. 45) o a quelli relativi a procedimenti nei confronti di ignoti (ovvero fascicoli a mod. 44).

Nel primo caso, si tende ad escludere dal segreto gli atti che precedono la nascita di un procedimento penale in senso stretto (come per l'appunto quelli tese all'acquisizione della notizia di reato), non rientrando tra le attività di indagine ex art. 329 c.p.p. (Cass. pen., Sez.VI, 21 aprile 1998, n. 5843).

Nel secondo caso è stata ravvisata una segretezza generalizzata degli atti di indagine, accostabile al segreto istruttorio del vecchio codice, atteso che in questo caso, in assenza di un formale indagato, non si pone neppure un problema di conoscibilità di atti, salvo accordare una riespansione al diritto di difesa che si concretizza nella possibilità di accedere agli atti conoscibili compiuti prima della formale iscrizione dell'indagato nel registro delle notizie di reato (E. LUPO, Art. 329, in M. CHIAVARIO, Commento al codice di procedura penale, Torino, 1990, IV, 43).

La durata

Gli atti di indagine rimangono segreti fino a quando l'imputato non ne possa avere conoscenza, ed in ogni caso fino al momento ultimo della chiusura delle indagini preliminari.

Occorre dunque individuare il momento in cui l'atto diventa legalmente conoscibile, momento che varia a secondo che si tratti di atti garantiti, ai quali il difensore ha diritto di assistere, ricevendone preavviso (ad es. interrogatorio, accertamenti tecnici irripetibili, ispezione e confronto a i quali partecipa l'indagato ed ispezione alla quale non deve partecipare l'indagato, etc.), di atti c.d. a sorpresa (es. perquisizioni e sequestri), per i quali non vi è diritto al preavviso ma ai quali si può partecipare e che diventano comunque conoscibili all'atto del deposito del relativo verbale, o, come categoria residuale, di tutti gli altri atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, rispetto ai quali il segreto opera sino all'esercizio dell'azione penale o, al contrario, sino alla richiesta di archiviazione.

Si ritiene che non costituisca un atto di indagine da mantenere segreto l'informazione di garanzia che il pubblico ministero invia all'indagato quando deve compiere un atto garantito (G.P. VOENA, Atti, in Compendio di procedura penale a cura di G. CONSO - V. GREVI - M. BARGIS, Padova, VII ed., 2014, 182)

Eccezioni alla disciplina pocanzi tracciata si rinvengono nella “discovery” consentita al pubblico ministero per esigenze attinenti alla prosecuzione delle indagini.

In questo caso il pubblico ministero provvede con decreto motivato ad autorizzare la pubblicazione di singoli atti o di parti di essi coperti da segreto, in deroga al divieto di pubblicazione dell'art. 114 c.p.p. (art. 329, comma 2, c.p.p.).

La Suprema Corte, a Sezioni unite, ha ritenuto che non sussista “un principio generalizzato e inderogabile di segretezza delle indagini che impedirebbe al P.M. di rendere palese tutta l'attività d'indagine già svolta e da svolgere, ben potendo essere disposta la "discovery" quando ciò sia necessario per la prosecuzione delle indagini” (nel caso specifico la desegretazione era finalizzata a richiedere la proroga della custodia cautelare)” (Cass. pen., Sez. un., 21/04/1995, n. 12).

In senso opposto è consentito al pubblico ministero vietare la pubblicazione di singoli atti non più coperti da segreto (art. 329, comma 3 , lett. a), c.p.p.) o disporre il segreto su di essi (e non soltanto sul loro contenuto), una volta divenuti conoscibili, con consenso dell'imputato o quando le esigenze investigative riguardino altre persone (art. 329, comma 3, lett. b), c.p.p.).

La legge n. 397 del 2000 in materia di investigazioni difensive ha poi introdotto un'ulteriore ipotesi di segretazione, limitata ai soli atti di indagine con i quali si acquisiscono informazioni da parte di persone informate sui fatti.

L'art. 391-quinquies c.p.p.attribuisce infatti al pubblico ministero la possibilità di disporre con decreto motivato il divieto di rivelare le domande rivolte e le risposte fornite ed anche di fornire informazioni su fatti e circostanze oggetto di indagine, a discapito degli stessi poteri investigativi della parte privata, entro un termine massimo di due mesi.

È stato osservato in dottrina come, in tal caso, al difensore interessato a conoscere l'apporto conoscitivo fornito dal dichiarante non resti che chiedere al giudice di procedere ad incidente probatorio (artt. 392, 394 c.p.p.).

A questo punto il pubblico ministero sarebbe costretto a chiedere un differimento a norma dell'art. 397, dovendo tuttavia soddisfare, a causa dell'onere di motivazione di cui è gravato, il desiderio del difensore di conoscere il tipo di atto di indagine che l'organo inquirente intende compiere ed andando incontro a precisi limiti temporali da rispettare (C. BOVIO, L'attività espletabile, in AA.VV., Le indagini difensive, Milano, 2001, 201).

È stato osservato come, a dispetto della generica dizione normativa, il suddetto divieto non possa essere imposto alle persone sottoposte alle indagini, per le quali si tradurrebbe in una limitazione del diritto di difesa (A. FURGIUELE, Colloqui ed assunzione di dichiarazioni, in AA. VV., Il nuovo ruolo del difensore nel processo penale a cura di M. FERRAIOLI, Milano, 2002, 199).

Il divieto di pubblicazione

Sul versante della c.d. sicurezza esterna dell'atto (ovvero quella che discende dal divieto di pubblicazione di cui all'art. 114, comma 1, c.p.p.), è stato osservato come essa venga meno allorquando cessi la vincolatività del c.d. segreto interno (relativo alla divulgazione dell'atto di indagine).

Invero, una volta terminata la fase delle indagini (con la notificazione dell'avviso previsto dall'art. 415-bis o con la presentazione della richiesta di archiviazione) non sussiste più alcun divieto di pubblicazione.

Prima di questo momento, un regime diverso vige per gli atti segreti e per quelli invece conoscibili.

In relazione a questi ultimi, infatti, si parla di “divieto attenuato” di pubblicazione, concernente la materialità dell'atto ma non anche il suo generico contenuto (art.114, comma 7, c.p.p.).

Per gli atti coperti da segreto assoluto (atti del pubblico ministero e della polizia giudiziaria fino a quando non sono conoscibili dall'indagato) vige invece un divieto assoluto di pubblicazione, sia con riferimento al contenuto che al testo dell'atto (art. 114, comma 1, c.p.p.) .

Previsioni particolari vigono poi per coloro che dalla pubblicità del procedimento potrebbero conseguire maggiore pregiudizio.

Ci si riferisce, in particolare ai soggetti minorenni ed alle persone offese.

Rispetto ai primi, quando assumano la veste di indagati, è fatto divieto di diffonderne immagini e generalità (art. 13, d.P.R. n. 448 del 1988), divieto che si estende ad ogni altro elemento dal quale possa ricavarsi la loro identificazione, nel caso in cui gli stessi siano coinvolti nel procedimento nelle vesti di testimoni, persone offese o danneggiate dal reato.

Maggiore sensibilità alle istanze di protezione della riservatezza delle persone offese viene mostrata, poi, per le vittime di reati in materia di violenza sessuale, pedofilia, pedopornografia, e simili (l. n. 66 del 1996, l. n. 269 del 1998 e l. n. 38 del 2006).

In questi casi, salvo il consenso dell'interessato, è punito con l'arresto da 3 a 6 mesi, non oblazionabile, chiunque ne divulghi le generalità e le immagini (art. 734-bis c.p.).

Il rispetto della privacy e del principio della tutela della dignità della persona ha imposto inoltre il divieto per i giornalisti di corredare i loro servizi con fotografie e riprese televisive di persone arrestate, o in generale sottoposte ad altro mezzo di coercizione fisica (ad. esempio all'interno delle celle nelle quale i detenuti partecipano ai processi che li riguardano), salvo il consenso dell'interessato (art. 114, comma 6-bis, c.p.p.).

Le sanzioni

I risvolti sanzionatori dei citati obblighi si rinvengono essenzialmente nelle norme che incriminano la rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale (art. 379-bisc.p.), la rivelazione di segreti d'ufficio (art. 326 c.p.), la rivelazione di segreto professionale (art. 622 c.p.) e la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale (art. 684 c.p.), che, se commessa da impiegati pubblici o da persone esercenti professioni per le quali è necessaria una speciale abilitazione dello Stato (tra i quali i giornalisti), relativamente ai divieti previsti dagli artt. 114 e 329, comma 3, lett. b), configura un illecito disciplinare (art. 115 c.p.p.).

Va osservato come la legge in tema di indagini difensive (l. n. 397 del 2000) abbia introdotto il reato di cui all'art. 379-bis c.p., colmando un vuoto di tutela registratosi nel caso in cui le violazioni del segreto di indagine venissero commesse da colui che aveva appreso le relative informazioni per aver partecipato o assistito ad un atto del procedimento penale.

Come già evidenziato, il vincolo del segreto si riferisce allo svolgimento dell'atto e non anche al suo contenuto, salvo il caso in cui il pubblico ministero abbia esteso la segretazione ai “fatti” e alle “circostanze” oggetto di indagine, a norma dell'art. 391-quinquies. In tal caso anche la rivelazione del contenuto dell'atto integrerà la predetta ipotesi di reato.

Il reato punito dall'art. 326 c.p. si configura, invece, sotto il profilo materiale, qualora sia portata a conoscenza di soggetto non autorizzato una notizia destinata a rimanere segreta.

Ne consegue che “il reato non sussiste non solo nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, ma anche nel caso in cui, trattandosi di notizie d'ufficio ancora segrete, le stesse siano rivelate a persone autorizzate a riceverle e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta, ovvero a soggetti che, ancorché estranei ai meccanismi istituzionali pubblici, le abbiano già conosciute” (Cass. pen., Sez. V, 20 marzo 2009, n. 30070).

Rispetto al reato sanzionato dall'art. 684 c.p.è stato precisato che “ai fini dell'applicazione della disciplina prevista dal codice di procedura penale e dal codice penale in ordine alla segretezza e alla pubblicazione arbitraria degli atti del procedimento penale, per contenuto dell'atto deve intendersi quanto in esso si rappresenta, senza richiami testuali, si che se ne divulghino informazioni senza una riproduzione totale o parziale dello stesso” (Cass. pen., Sez. I, 11 luglio 1994, n. 10135). Tale previsione incriminatrice avrebbe carattere plurioffensivo, “essendo preordinata a garanzia non solo dell'interesse dello Stato al retto funzionamento dell'attività giudiziaria, ma anche delle posizioni delle parti processuali e, comunque, della reputazione di esse” (Cass. pen., Sez. I, 21 settembre 2004, n. 42269).

Discussa è invece la necessità o meno, ai fini del riconoscimento della responsabilità penale conseguente alla violazione del segreto, che venga accertato il pregiudizio, anche potenziale, che la rivelazione abbia o possa aver arrecato alle esigenze di segretezza.

Secondo talune pronunce, infatti, “il delitto di rivelazione di segreti di ufficio è un reato di pericolo, per la consumazione del quale non è richiesto che si verifichi un danno effettivo, ma è sufficiente la probabilità di esso. Quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del segreto” (Cass. pen., Sez. VI, 11 ottobre 2005, n. 42726).

In altra direzione, la rivelazione punita dall'art. 326 c.p. rivestirebbe natura di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto, “nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta” (Cass. pen., Sez. V, 20 marzo 2009, n. 30070).

Applicazioni pratiche

La giurisprudenza ha riconosciuto la violazione dell'obbligo di segretezza, tra gli altri, nei seguenti casi:

  • “nella condotta del collaboratore di cancelleria che fornisca a terzi non autorizzati a riceverla, e senza rispettare la procedura prevista dall'art. 110-bis disp. att. c.p.p., la notizia dell'iscrizione nel registro degli indagati di una determinata persona” (Cass. pen., Sez. VI, 05 aprile 2012, n. 22276); così come in quella di “un funzionario giudiziario, in servizio presso un tribunale penale, che si era introdotto nel sistema informatico e, dopo aver visionato gli atti di un fascicolo, aveva informato l'indagato della identità della persona offesa denunciante, dell'iscrizione a mod. 21 di altri soggetti e dello stato del procedimento)” (Cass. pen., Sez. V, 15 gennaio 2015, n. 15950);
  • nella divulgazione da parte di un funzionario di polizia, di “notizie concernenti un'indagine della quale non era partecipe, dopo aver ricevuto in proposito confidenze dei colleghi operanti”, riconoscendo in tale circostanza la sussistenza del vincolo anche in relazione a notizie non apprese per ragioni dell'ufficio o del servizio e ritenendo sufficiente che tale notizia dovesse rimanere segreta e che l'interessato, per le funzioni esercitate, avesse l'obbligo di impedirne l'ulteriore diffusione(Cass. pen., Sez. VI, 29 settembre 2004, n. 1898);
  • nella rivelazione da parte di un agente di polizia giudiziaria del contenuto di un'annotazione di servizio concernente le indagini eseguite, anche se esse erano conosciute da una pluralità di persone (Cass. pen., Sez. VI, 17 maggio 2004, n. 35647);
  • nell'avere un funzionario “indebitamente rivelato a terzi il fatto di non aver svolto alcuna attività a seguito della denuncia anonima, che aveva inviato al procuratore della Repubblica per le sue determinazioni”(Cass. pen., Sez. VI, 21 aprile 1998, n. 5843);
  • nella condotta del giornalista che, ricevuto il contenuto di informative di polizia giudiziaria trasferite su un supporto informatico, abbia diffuso tali informazioni; in particolare, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che, nel caso di specie, la divulgazione da parte dell'extraneus configurasse un'ipotesi di concorso nel delitto di rivelazione di segreti d'ufficio, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell'originario propalatore (Cass. pen., Sez. VI, 14 ottobre 2009, n. 42109). Successivamente, la stessa Corte ha richiesto, come requisito ulteriore della condotta dell'extraneus, che questi, “lungi dal limitarsi a ricevere la notizia, abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale a porre in essere la rivelazione” (Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 2011, n. 5842).
In conclusione

L'importanza di non pregiudicare il buon esito dell'attività di investigazione ha guidato l'attività interpretativa degli operatori del diritto nel compito, loro rimesso, di tracciare in concreto la portata applicativa del generico “obbligo di segreto sugli atti di indagine”.

Da quanto sopra sinteticamente riportato, sembra trarsi un rafforzamento del vincolo in argomento così da ricomprendere notizie che hanno già avuto una, sia pur parziale, diffusione, informazioni fornite a coloro che avrebbero diritto ad ottenerle, se pure mediante le modalità prescritte per l'accesso agli atti, e persino, secondo una parte della giurisprudenza, dati che non abbiano né avrebbero, in concreto, potuto produrre alcun pregiudizio alle esigenze che la previsione di cui all'art. 329 c.p.p. mira a tutelare.

Pretese di riservatezza che sembrano divenire ancor più intense in relazione all'ufficio o al servizio svolto nell'ambito non dello specifico procedimento penale ma anche delle indagini in genere (si veda Cass. pen., Sez. VI, 29 ottobre 2004 n. 1898).

Alla luce di ciò si spiega l'incessante attività giurisprudenziale in materia, foriera di applicazioni sempre nuove dei diversi orientamenti nel tempo espressi.

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