Il trattamento dei detenuti transgender. Isolamento e sezioni protette

28 Settembre 2017

La situazione di privazione della libertà personale per le persone transessuali mostra profili evidentemente problematici, in primo luogo, in ragione della difficoltà di trovare una collocazione idonea in contesti spesso inadeguati e già provati dal costante fenomeno del sovraffollamento carcerario che ancora affligge il sistema detentivo. In secondo luogo perché la condizione di privazione della libertà personale ...
Abstract

Il presente lavoro analizza la situazione carceraria dei detenuti transgender, con particolare riferimento al trattamento e alla gestione di questi soggetti in termini di allocazione negli istituti, evidenziando le molte problematiche ancora irrisolte.

Premessa

La situazione di privazione della libertà personale per le persone transessuali mostra profili evidentemente problematici, in primo luogo, in ragione della difficoltà di trovare una collocazione idonea in contesti spesso inadeguati e già provati dal costante fenomeno del sovraffollamento carcerario che – pur ridotto dagli ultimi recenti interventi legislativi a seguito della sentenza Torreggiani c. Italia – ancora affligge il sistema detentivo.

In secondo luogo perché la condizione di privazione della libertà personale, a prescindere dalla specifica condizione del transessuale, di per sé presenta un generale indebolimento delle tutele individuali, sotto il profilo di taluni diritti sociali. La difficoltà per l'ordinamento di trattare le persone che non si riconoscono in una delle categorie sessuati, M (maschio/maschile) F (femmina/ femminile), non rappresenta una esclusiva degli istituti di pena ma si presenta in modo altrettanto problematico in tutte le istituzioni pubbliche e private: strutture di ricovero, ospedali ma anche case di cura, università, ecc.

Difatti il rigido dualismo con cui le persone vengono identificate sulla base del sesso maschile o femminile perde la sua forza ed esprime tutta la sua vulnerabilità quando ci si deve occupare delle persone transessuali ed in particolare per coloro che non hanno ancora intrapreso o concluso il percorso di transizione, ossia di cambiamento da un sesso all'altro e presentano, dunque, un'identità anagrafica difforme rispetto all'aspetto esteriore e al proprio sentirsi uomo o donna. Appare dunque evidente che all'interno degli istituti carcerari le condizioni della detenzioni divengono sempre più complesse per le persone transessuali. Tale situazione emerge da taluni gravi fatti di cronaca che narrano episodi di discriminazione e violenza ma è anche stata evidenziata dalla relazione del garante dei detenuti presentata il 14 aprile 2017 dove sono stati rilevati nodi problematici e questioni aperte relative al loro trattamento penitenziario e alla loro collocazione in sezioni protette.

La detenzione delle persone transgender rappresenta una realtà senz'altro numericamente contenuta per ciò che è dato conoscere del fenomeno. Secondo i dati del Dap risalenti al 2015, le persone transessuali recluse in Italia sono circa 40 mentre nel 2013 erano 69, sparse in 10 diverse strutture. Le associazioni LGBT, però, denunciano che il numero è sicuramente maggiore, dato che la cifra diffusa non tiene conto dei travestiti o di coloro che hanno già fatto l'operazione per il cambio di sesso e sono stati destinati ai reparti femminili.

"Transgender": nozione e significato

Rilevante ai fini della comprensione del termine transgender è la distinzione tra identità di genere e ruolo di genere. Per ruolo di genere deve intendersi la particolare condotta imposta dalla società in cui il soggetto vive in base al sesso di appartenenza: sia esso un ruolo di genere maschile o femminile.

Per identità di genere si intende invece la percezione che ogni persona ha di sé. Il concetto di genere agisce su tre livelli principali:

  • il sesso biologico, definito da cromosomi sessuali, caratteri sessuali secondari e genitali;
  • la propria identità;
  • il genere che la società attribuisce all'individuo, basato principalmente su aspetto e comportamento. Le persone per cui questi tre livelli coincidono si definiscono cisgender. Il nostro ordinamento riconosce soltanto due generi, maschile e femminile: le persone che non si identificano in nessuno dei due vedono la loro identità imposta legalmente. Per una persona transgender il genere attribuito alla nascita e quello effettivo non coincidono: esiste una discrepanza tra sesso biologico e genere.

Il termine transgenderquindi può definirsi come termine “ombrello” poiché ospita al suo interno un ampio ventaglio di tipologie di individui, tutti accomunati dalla non corrispondenza tra genere percepito e sesso biologico. Difatti, vengono inclusi nel termine transgender coloro che si sono sottoposti ad un trattamento medico ormonale e chirurgico al fine di eliminare il disallineamento esistente tra il genere percepito ed il corpo posseduto, arrivando a modificare, a conclusione di tale complesso percorso, il proprio nome ed il sesso anagrafico. Queste persone sono denominate transessuali MtF (Male to Female) se, nati maschio, vogliono diventare femmina, e FtM (Female to Male) se, nate femmina, vogliono diventare maschio.

Sono altresì ricompresi nel termine transgender coloro che potremmo definire “in transito” o “in cammino”: coloro che non hanno ancora compiuto o portato a termine il passaggio medico-chirurgico. Non tutte le persone transgender decidono di affrontare la transizione ormonale e chirurgica per modificare il proprio aspetto e i propri genitali.

Il termine transessuale ha invece origini mediche e solitamente veniva e viene usato per indicare una persona che si è sottoposta al cambio di sesso chirurgicamente. Ma oggi per molti può avere connotazioni dispregiative e si preferisce utilizzare il termine transgender.

Infine per transgenderismo si intende il movimento politico-culturale che prefigura una visione dei sessi fluida: in aderenza a tale concezione, ogni persona può situarsi in qualsiasi posizione intermedia tra quelli che sono considerati i due estremi maschio/femmina. Tale movimento si è affermato negli anni ‘90 ed i suoi sostenitori rifiutano la logica sessuale binaria secondo cui avere un'identità di genere non corrispondente al sesso biologico è considerato un disturbo.

La condizione transgender nel contesto carcerario

La prima questione che ci si pone quando si affronta la tematica di detenuti transessuali è quella posta direttamente dall'articolo 14, ultimo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 rubricata. Tale articolo distingue nettamente sulla base del sesso di appartenenza, stabilendo che «le donne sono ospitate in istituti separati o in apposite sezioni di istituto». In aderenza a tale disposizione, pertanto, nell'assegnazione di un detenuto ad un determinato istituto o sezione, si fa riferimento al nome e al sesso anagrafico del soggetto: quindi il transessuale non operato (MtF), identificato da un documento di riconoscimento come maschio, viene assegnato ad un carcere o reparto destinato alla popolazione maschile; e questo a prescindere dalla sua volontà. Tale collocazione è spesso percepita dalla persona come un mancato riconoscimento della propria identità di genere. La ratio che ha orientato il Legislatore verso la scelta di ripartire la popolazione detenuta in gruppi limitati suddivisi in istituti e sezioni è rappresentata dalla necessità di favorire l'individualizzazione di un trattamento (comma 1) rieducativo comune, cercando altresì di evitare influenze nocive reciproche (comma 2). Tale ultima importante finalità è indicata nello specifico nel d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 che, all'art. 32, comma 3, dispone che «si cura, inoltre, la collocazione più idonea di quei detenuti ed internati per i quali si possano temere aggressioni o sopraffazioni da parte dei compagni». In tali casi la stessa disposizione prevede la possibilità di utilizzare apposite sezioni a tal fine: i detenuti transessuali, infatti, terminate le procedure relative all'ingresso in istituto e nel rispetto dunque delle primarie esigenze sopra delineate, vengono assegnati di norma all'interno di istitutimaschili, in sezioni apposite per detenuti transessuali.

Trattamento dei detenuti trasgender: tra prassi d'isolamento e sezioni protette

In alcune realtà penitenziarie a causa del sovraffollamento e delle condizioni detentive particolarmente disagiate, si è consolidata la prassi di accogliere, in sezioni o reparti appositamente finalizzati all'isolamento continuo, detenuti che avrebbero potuto facilmente subire minacce o violenze da parte degli altri ristretti. In questa categoria troviamo oltre alle persone trangender altre categorie invise alla restante popolazione carceraria.

Tale tipo di isolamento è chiaramente originato dall'intento di proteggere peculiari categorie di detenuti per motivi oggettivamente esistenti e connessi a caratteristiche soggettive dei ristretti.

Il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria non ha ancora individuato delle soluzioni univoche alle varie problematiche emerse negli anni, continuando a ondeggiare tra la scelta di diversi sistemi di allocazione che vanno dai reparti dedicati, a volte presso istituti femminili, altre maschili, fino alla collocazione presso le sezioni precauzionali.

Le soluzioni finora individuate hanno tutte dato luogo a distinte e notevoli problematiche, verificandosi quasi sempre una forte difficoltà a far accedere le persone transessuali ai percorsi trattamentali, alle attività di istituto e senza la predisposizione di un adeguato servizio sanitario in relazione alla specificità dei loro bisogni di salute. Alle problematiche comuni alla maggior parte dei detenuti si aggiungono infatti delle criticità dovute al mancato riconoscimento da parte dello Stato italiano della transizione in essere da un genere ad un altro.

Aspetto rilevante da tenere in considerazione è poi quello psicologico: spesso il disagio che accompagna lo stato di detenzione delle persone transessuali si manifesta in comportamenti autolesivi che fanno temere per la stessa sopravvivenza della persona. In aggiunta si tende erroneamente a sottovalutare la depressione dovuta all'isolamento che si protrae nel tempo.

L'Amministrazione penitenziaria ha in questi anni tentato di affrontare tale questione, creando nelle carceri di Belluno, Roma, Napoli e Rimini, delle sezioni dedicate all'interno degli istituti maschili mentre a Firenze vi è una sezione collocata in uno spazio adiacente la sezione femminile, permettendo in questo modo una condivisione totale delle attività e degli spazi collettivi con le donne recluse e garantendo una vigilanza assegnata prevalentemente al personale penitenziario femminile. Negli altri istituti di pena, invece, le persone transessuali e transgender vengono inserite nei reparti precauzionali insieme ai sex offenders, ai collaboratori di giustizia e agli ex appartenenti alle forze dell'ordine.
Le attività ricreative e trattamentali delle persone transgender all'interno della struttura penitenziaria restano rigidamente separate da quelle degli altri detenuti. Parimenti il regime di separazione crea ostacoli nell'accesso al lavoro. Tutte le modalità di detenzione oggi applicate risultano inevitabilmente discriminatorie se si considerano gli spazi di movimento, le ore d'aria concesse, l'accesso alla scolarizzazione, alla formazione, alle attività lavorativa, alle attività sportive, ecc. Difficile appare anche l'opportunità di poter disporre a livello nazionale di medici specializzati nel settore (ad esempio nel campo dell'endocrinologia) assegnati all'ambito penitenziario dal Servizio Sanitario Nazionale, a cui spetta la tutela della salute in carcere.
Ancori più difficoltosa risulta essere l'opportunità di accesso a misure e pene alternative alla detenzione: per la maggior parte delle persone transessuali e transgender detenute l'assenza di un tessuto familiare e sociale all'esterno riduce ulteriormente le già scarse possibilità di trovare un'occupazione o comunque una collocazione presso strutture idonee. Appaiono altresì rare anche le disponibilità nelle case di accoglienza per detenuti e nelle comunità terapeutiche, necessarie per percorsi riabilitativi alternativi alla detenzione.

In conclusione

Le condizioni di vita della minoranza LGBTQ all'interno degli istituti di pena, confinati in apposite sezioni, non di rado a stretto contatto con persone condannate per reati particolarmente gravi, come per esempio la pedofilia (quasi a voler considerare l'omosessualità o il transessualismo un crimine in sé), sono rese ancora più difficili dall'ambiente carcerario. Tale particolare allocazione viene giustificata il più delle volte come una ubicazione ‘forzata', dovuta alla primaria esigenza di tutelare l'incolumità di dette persone (nella vita di tutti i giorni sono tra i soggetti più esposti ad atti di intolleranza, discriminazione e abusi sessuali) e di salvaguardare l'ordine e la sicurezza del penitenziario.

La violenza sessuale dietro le sbarre, purtroppo, non è un fatto raro e i detenuti LGBTQ hanno maggiori probabilità di esserne vittime – anche se non è possibile dire esattamente in che misura, perché non ci sono dati ufficiali sul numero di stupri e su altri casi di violenze sessuali nelle carceri italiane. La creazione di sezioni protette in carcere, però, non può essere considerata la soluzione a tali pericoli: i detenuti ubicati in queste sezioni si troveranno a scontare la propria pena in condizioni ancora più dure. Queste le considerazioni del Garante dei detenuti, Dott. Mauro Palama, nella sua relazione annuale sulla situazione delle carceri in Italia. Egli difatti ritiene che la netta separazione tra detenuti eterosessuali e LGBTQ violi in maniera pesante la dignità di questi ultimi ed è per questo che è importante trovare soluzioni alternative per garantire la tutela di tutti i detenuti. Creare sezioni apposite destinate ai detenuti omosessuali, per tutelarli da eventuali aggressioni omofobe, può significare, indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha ipotizzate, escluderli dai percorsi trattamentali negando loro diritti riconosciuti agli altri detenuti. Tale criticità è stata in particolare rilevata nella sua interezza nel corso della visita svolta dal garante nazionale ad una sezione riservata ai detenuti omosessuali del Triveneto, all'interno dell'Istituto penitenziario di Gorizia. La forma di protezione loro assicurata si era sostanziata, in realtà, in una forma di segregazione, di isolamento forzato, impedendo contatti con la restante popolazione detenuta, con grave nocumento per la loro salute psicofisica. La protezione che deve essere garantita alla popolazione detenuta negli istituti che applicano tale forma di tutela non deve, pertanto, diminuire la partecipazione degli stessi alla normale vita carceraria, alle attività diretta al reinserimento e, quindi, a tutti i percorsi trattamentali predisposti. Pertanto, ove mai fosse necessaria per la loro sicurezza una particolare collocazione durante le ore di riposo in apposite stanze detentive a essi riservate, all'interno dello stesso istituto dove sono ristretti, questa non può e non deve consistere nella predisposizione di una sorta di situazione detentiva ad hoc dove trasferire i soggetti detenuti in base all'orientamento sessuale. Un'organizzazione di siffatto tipo determinerebbe non soltanto una illegittima discriminazione di carattere personale ma indurrebbe una situazione di isolamento ingiustificato e lesivo della normale dignità che va riconosciuta a qualsiasi persona, indipendentemente dalla condizione detentiva. Sul punto, il garante, preoccupato delle criticità riscontrate in ordine alla creazione di sezioni specificamente dedicate ai detenuti omossessuali, ha inviato al Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria una raccomandazione (si veda il Rapporto sulla visita in Triveneto) affinché tali soggetti vengano inseriti nella ordinaria vita carceraria in condizioni di assoluta normalità, assicurando però una doverosa tutela rispetto al proprio orientamento sessuale. Anche con riferimento ai detenuti transessuali, si ritiene che le condizioni detentive debbano assicurare momenti di essenziale socializzazione e rieducazione indipendentemente dall'espressione della propria sessualità garantendo, nel contempo, opportuni mezzi di ‘protezione' a tutela di eventuali discriminazioni e/o violenze. Ai fini di una migliore tutela di tali persone, il garante nazionale accoglie con favore la possibilità di ubicazione dei detenuti transessuali negli Istituti femminili o in cui sono presenti sezioni femminili in considerazione delle esigenze trattamentali e di maggiori garanzie. Al contrario, però, suscita qualche perplessità che la vigilanza di tali sezioni possa venire svolta solo ed esclusivamente da personale di polizia penitenziaria di sesso femminile dato che, comunque, fino ad ora, per ragioni relative anche alla fisicità ed alla anatomia (si pensi a una perquisizione) di tali detenuti, questi compiti vengono espletati dal personale di polizia penitenziaria di sesso maschile.

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