Affidamento in prova al servizio sociale e risarcimento del danno alla vittima del reato

Fabio Fiorentin
29 Luglio 2015

Il tribunale di sorveglianza non può subordinare la concessione della misura alternativa dell'affidamento in prova all'adempimento, da parte del condannato, dell'obbligo di provvedere al risarcimento del danno in favore della vittima del reato.
Massima

Il tribunale di sorveglianza non può subordinare la concessione della misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale di cui all'art. 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354 all'adempimento, da parte del condannato, dell'obbligo di provvedere al risarcimento del danno in favore della vittima del reato, senza commisurare tale obbligazione alle condizioni economiche del reo e stabilendo la revoca automatica della misura alternativa in caso di mancato assolvimento della detta prescrizione risarcitoria.

Il caso

Il caso delibato dalla Suprema Corte è piuttosto complesso.

Con una prima sentenza, la Cassazione annullava la decisione del tribunale di sorveglianza di Roma con il quale era stato concesso l'affidamento in prova ai servizi sociali al condannato, al quale era stata imposta la prescrizione di provvedere all'integrale risarcimento del danno riportato dalla parte civile (si trattava, nel caso di specie, di una minore vittima di violenza sessuale). La Corte aveva, infatti, ritenuto illegittima la previsione di un importo da versare a titolo di risarcimento del danno che non tenesse conto della concreta situazione economica del reo e che prevedesse l'automatica revoca del beneficio penitenziario nel caso di inadempimento.

Il tribunale di sorveglianza provvedeva allora a rimodulare la prescrizione risarcitoria nel senso che l'affidato avrebbe dovuto versare alla persona offesa la somma di 5000 € al mese per tutti i nove mesi in cui si era svolta la misura alternativa, nel frattempo già conclusasi. L'interessato – ormai ex-affidato – adiva allora con un nuovo ricorso la Cassazione, lamentando che anche nella seconda ordinanza del tribunale persistessero i vizi riscontrati nella prima decisione. Infatti, il tribunale aveva correlato l'obbligo riparativo non alle effettive condizioni economiche dell'affidato, bensì – in modo del tutto illogico – alla durata dell'affidamento. Inoltre il tribunale aveva mantenuto la previsione dell'automatica revoca della misura alternativa in caso di mancato adempimento della prescrizione risarcitoria.

Nella fattispecie, il tribunale aveva rideterminato il quantum della dazione pecuniaria posta in capo al condannato parametrandola all'offerta di risarcimento formulata dallo stesso interessato, senza obliterare la condizione risolutiva del beneficio integrata dal mancato adempimento.

La questione

La questione di diritto affrontata dalla decisione in commento riguarda due principi fondamentali in materia di obblighi riparativi posti in capo al condannato affidato in prova al servizio sociale sulla base del disposto della l. 354/1975, art. 47, comma 7, secondo cui deve (non può, come scrive la Corte nella sentenza) essere prescritto all'affidato in prova di adoperarsi "in quanto possibile in favore della vittima del suo reato".

L'evocata disposizione su cui fa perno la quaestio dell'onere riparativo correlato all'affidamento in prova al servizio sociale ha originato, per la genericità con la quale è stata formulata, notevoli difficoltà interpretative: oltre alla già accennata questione se la dizione normativa si riferisca al risarcimento del danno in senso proprio o attenga piuttosto a profili correlati – sia pure lato sensu – alla c.d. giustizia riparativa che trova spazio successivamente alla fase del giudizio; è altresì controverso se detta attività debba obbligatoriamente indirizzarsi nei confronti della persona offesa, ovvero possa effettuarsi eventualmente attraverso modalità e forme surrogatorie, con prestazioni in favore di associazioni o istituzioni benefiche. Ma la questione più complessa e delicata per le sue concrete implicazioni attiene al dubbio se l'attività riparativa possa legittimamente essere pretesa quale adempimento preliminare rispetto alla concessione della misura e quale peso essa debba avere nella ponderazione del giudizio sulla meritevolezza del condannato ai fini dell'ammissione al beneficio. Sotto tale profilo, pertinente alla questione che qui occupa, la chiave di lettura che consente di decodificare il contenuto precettivo della disposizione sopra citata si rinviene nel richiamo all'obiettivo della rieducazione del condannato, che, sancisce la Costituzione (art. 27, comma 3), incarna la finalità che giustifica, eticamente e giuridicamente, la concreta applicazione della sanzione penale al reo.

Il secondo aspetto rilevante delibato dalla Cassazione concerne l'automatismo che il tribunale di sorveglianza ha posto nella propria decisione tra l'eventuale mancato pagamento integrale della somma determinata a titolo di risarcimento del danno alla persona offesa e la revoca del beneficio alternativo alla detenzione.

Le soluzioni giuridiche

Uno dei più controversi profili che interessano la disciplina dell'affidamento in prova al servizio sociale concerne la questione se l'aspetto del risarcimento del danno nei confronti della vittima del reato possa legittimamente essere valutato dal tribunale di sorveglianza tra le condizioni-presupposto che devono essere integrate ai fini della concessione della misura.

La decisione in commento si pone in termini netti: è vietato al giudice di sorveglianza di imporre una condizione risolutiva alla concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale consistente nella previsione che, qualora il condannato non adempia al dazione dell'importo statuito in favore della vittima, la misura sarà revocata automaticamente. Si tratta dell'affermazione di un principio largamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità, che tuttavia non è scevro da importanti “distinguo”.

Con una importante sentenza, la Prima Sezione della Cassazione ha, invero, affermato il principio che il tribunale di sorveglianza può legittimamente fondare il rigetto della richiesta di ammissione alla misura dell'affidamento in prova al servizio sociale nei confronti del condannato che, senza giustificato motivo, non sia disponibile a risarcire la vittima del reato dei danni arrecatile, non rilevando che il risarcimento dei danni non sia previsto dalla norma come condizione per la concessione della misura alternativa (Cass.pen., Sez. I, 25 ottobre 2007, n. 39474). Ed è proprio nei dettagli – come si dice – che si nasconde il diavolo. Su tale profilo, infatti, si registra un contrasto di giurisprudenza: nel senso indicato dalla sentenza citata, infatti, si collocano alcune pronunce (Cass. pen., Sez. I, 9 luglio 2001, n. 30785; Cass. pen., Sez. I, 17giugno 1998, n. 3572), laddove altri arresti si esprimono in senso contrario e, per certi versi, più affine alla sentenza in commento (Cass. pen., Sez. I, 8 marzo 2001, n. 15098; Cass. pen., Sez. I, 15 febbraio 1995; Cass. pen., Sez. VI, 3 dicembre 2001, n. 72; Cass. pen., Sez. I, 7 dicembre 2001, n. 102).

Il contrasto rilevato, in altri termini, non tocca apparentemente il principio cristallizzato nel dictum per cui è incontestato che il risarcimento dei danni non è espressamente previsto dall'art. 47, ord. penit., quale condizione per la concessione della misura alternativa; afferma tuttavia che l'ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire la vittima del reato dei danni arrecatile costituisce elemento di segno negativo legittimamente valutabile dal tribunale per negare l'affidamento in prova al servizio sociale. Non si tratterebbe – in altri termini - di imporre, quale condicio sine qua non per la concessione del beneficio all'interessato, la prestazione risarcitoria, bensì di valutare le conseguenze dell'atteggiamento di diniego nei confronti di tale prospettiva manifestato dal condannato antecedentemente all'udienza sul piano dell'emenda del reo.

Sul filo di questa distinzione, che peraltro appare tanto sottile da risultare del tutto evanescente, si apprezza il rilievo del principio affermato dalla più recente giurisprudenza, che si presenta come la conferma di un atteggiamento rigoristico del contenuto e della natura dell'obbligazione riparativa che incombe sul condannato ammesso all'ampia misura dell'affidamento sociale. La giurisprudenza è coerente con l'impostazione ispirata al “modello rieducativo della pena”, ritenendo che le prescrizioni imposte all'atto dell'affidamento in prova al servizio sociale non hanno una loro autonomia concettuale ma fanno parte del giudizio prognostico che deve esprimere il tribunale di sorveglianza in ordine alla sussistenza delle condizioni per l'ammissione del condannato alla misura alternativa, le cui finalità rieducative e di prevenzione della recidiva, possono essere perseguite anche attraverso le prescrizioni stesse (Cass. pen., Sez. I, 4 luglio 1998, n. 2026). In altri termini, le prescrizioni dell'affidamento al servizio sociale, sono identificate dalla Suprema Corte quali elementi coessenziali alla concreta efficacia rieducativa della misura alternativa, non già espressione di un'autonoma finalità riparativa della medesima (o, addirittura, quali ulteriori forme di “sanzione” a fini scopertamente retribuzionistici).

Tale consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità si fonda sull'assunto che, in base all'espresso disposto di cui all'art. 47, comma 2, ord. penit., l'idoneità dell'affidamento in prova al servizio sociale a contribuire alla rieducazione del reo e ad assicurare la prevenzione del pericolo di reiterazione di condotte criminose deve essere valutata tenendo anche conto della efficacia riconoscibile, in ogni singola fattispecie, alle prescrizioni che, in base al comma quinto del medesimo articolo, debbono accompagnare l'applicazione della misura in questione.

La ragionevolezza, o meno, del giudizio positivo formulato dal tribunale di sorveglianza in ordine alla sussistenza di detta idoneità della misura alternativa è, dunque, in funzione – secondo la Cassazione – anche della natura delle prescrizioni medesime, dovendosi in linea di massima ritenere che quanto maggiore sia il numero e la rigidità di queste tanto più quel giudizio possa essere considerato plausibile (Cass. pen., Sez. I, 14 ottobre 1992, n. 4047).

La dottrina maggioritaria condivide l'orientamento espresso dalla Corte, pur partendo dalla diversa premessa che la previsione relativa alle prescrizioni dell'affidamento in prova è soggetta ai principi di legalità e tassatività, e che un'attenuazione di quest'ultimo principio potrebbe ammettersi soltanto, ex art. 27,comma 3, Cost., in quanto le prescrizioni siano funzionali all'assistenza e al reinserimento del reo, non già al controllo o ad una maggiore afflittività della misura.

Ne deriva che, alla luce del diritto positivo, vanno ritenute non corrette quelle soluzioni, di tipo “contrappassistico”, elaborate dalla giurisprudenza di merito, con l'intento di correlare la prestazione risarcitoria alla tipologia del reato commesso, appagando le istanze di riparazione sociale, particolarmente avvertite in seno alla pubblica opinione, con l'effetto di subordinare la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, al risarcimento del danno da reato, anche mediante restituzione delle utilità economiche illecitamente sottratte o distratte.

Osservazioni

L'orientamento ribadito dalla pronuncia in rassegna riconduce la valutazione dell'omesso risarcimento nell'ambito del giudizio sull'esito finale della misura, contrapponendosi – di fatto – all'orientamento incline a lasciare spazio ad una valutazione, nel singolo caso, del profilo risarcitorio anche in sede di concessione della misura, laddove l'espresso rifiuto di riparare l'offesa arrecata alla vittima può essere apprezzato dal giudice quale elemento sintomatico del mancato ravvedimento del condannato (Cass. pen., Sez. I, 15 dicembre 2000, n. 6725; Cass. pen., Sez. I, 11 aprile 2000, n. 2733). Secondo quest'ultimo indirizzo, la questione si sposta allora al momento decisorio, sul piano, cioè, della ponderazione tra gli elementi a disposizione del tribunale e su quello della discrezionalità nella valutazione dei medesimi dati istruttori. In altri termini, la questione dovrebbe porsi – a questo punto – sul “peso” che il mancato risarcimento dei danni esercita sulla formazione della decisione, in rapporto ad altri fattori.

Inevitabile, se così fosse, la deriva “contrapassistica” (ne è una chiara evidenza il caso concreto da cui trae origine la pronunzia in commento), che tende a massimizzare la valenza del previo risarcimento del danno nel caso di condannati per particolari reati che, secondo la sensibilità del giudice, “meritano” un ristoro quale condizione per la concessione del beneficio. In tal modo, a nostro parere, si finisce, in definitiva, per far rientrare dalla finestra quell'obbligo del risarcimento del danno per il condannato che aspira all'affidamento sociale che si era (correttamente) inteso far uscire dalla porta, con l'ulteriore, negativa conseguenza che alla detta condizione non viene riconosciuta – dalla sentenza in commento – valenza generale per tutti i casi, bensì è consentito uno spazio la cui ampiezza è fatta dipendere dalla discrezionalità del giudice.

La finalità dell'affidamento in prova al servizio sociale è, in definitiva, la risocializzazione del condannato, laddove il risarcimento del danno arrecato alla vittima non può assurgere ad obiettivo di “giustizia riparativa” o di giustificazione di sapore retributivo-contrappassistico della concessione del beneficio ma rimane uno fra i tanti elementi che sono valutati, al termine del probation, per verificarne l'esito. Tale ricostruzione appare, del resto, confortata sul piano sistematico dalla considerazione che il risarcimento integrale delle obbligazioni civili derivanti dal reato è previsto dal legislatore soltanto in ipotesi tassative (liberazione condizionale e riabilitazione), laddove la finalizzazione rieducativa degli indicati benefici non viene in rilievo, essendo piuttosto l'avvenuta risocializzazione del condannato il presupposto per la concessione di tali benefici. Nessuna sovrapposizione di fini può, quindi, essere consentita.

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