Controllo di legittimità della richiesta di provvedimento di accompagnamento coattivo: formale o di merito?

31 Luglio 2015

Avverso il provvedimento di accompagnamento coattivo adottato dal pubblico ministero su autorizzazione del giudice a norma del combinato disposto di cui agli artt. 376 e 132 c.p.p. non è previsto alcun mezzo di impugnazione, sicché, escluso il carattere abnorme dello stesso, esso non risulta impugnabile per il principio di tassatività vigente in materia (art. 568, comma 1, c.p.p.).
Massima

1. Avverso il provvedimento di accompagnamento coattivo adottato dal pubblico ministero su autorizzazione del giudice a norma del combinato disposto di cui agli artt. 376 e 132 c.p.p. non è previsto alcun mezzo di impugnazione, sicché, escluso il carattere abnorme dello stesso, esso non risulta impugnabile per il principio di tassatività vigente in materia (art. 568, comma 1, c.p.p.).

2. Il controllo di legittimità sulla richiesta di adozione del provvedimento di cui all'art. 376 c.p.p. demandato all'organo giudicante non è affatto formale e limitato alla verifica della inottemperanza dell'indagato all'invito a comparire, bensì sostanziale e di merito trattandosi di un provvedimento da un lato limitativo della libertà personale e dall'altro in potenziale conflitto con il diritto di difesa dell'indagato. Pertanto, si palesa evidente che l'accompagnamento può essere disposto solo nei casi in cui sia consentito dalla legge in relazione a particolari esigenze di natura processuale o delle indagini e, pertanto, la richiesta del P.M. deve esplicitare le ragioni di natura processuale o investigativa che giustificano detta richiesta.

Il caso

Il G.I.P. del tribunale di Reggio Emilia ha respinto la richiesta del pubblico ministero di disporre l'accompagnamento coattivo di un imputato, ai sensi dell'art. 376 c.p.p., in quanto fondata su una motivazione apodittica ed apparente, tale da non consentire un adeguato controllo in ordine alla legittimità della stessa.

Avverso il diniego proponeva ricorso per cassazione il procuratore della Repubblica presso il medesimo tribunale in quanto ritenuto atto abnorme ed illegittimo. Il controllo demandato al G.I.P., infatti, secondo la pubblica accusa, sarebbe meramente formale e limitato alla verifica della mancata comparsa dell'indagato che abbia in precedenza ricevuto l'invito a comparire.

La questione

La Corte di cassazione, con la sentenza meglio descritta in epigrafe, si è pronunciata in merito ai requisiti motivazionali che debbono essere posti a presidio della richiesta di adozione del provvedimento di accompagnamento coatto previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 376 e 132 c.p.p.

In aggiunta è stata circoscritta l'impugnabilità degli atti adottati dal giudice ai soli casi di abnormità del provvedimento.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha innanzitutto rilevato l'inammissibilità del ricorso a norma dell'art. 591, comma 1, lett. b) del c.p.p. in quanto il provvedimento di diniego adottato dal G.I.P. rientra fra quelli non impugnabili e dunque inidoneo a fondare un giudizio di legittimità. Né tantomeno riscontra un carattere di abnormità dell'atto, tale da poter giustificare la ricorribilità per cassazione.

In secondo luogo osserva che il controllo di legittimità della richiesta di accompagnamento coattivo demandato all'organo giudicante è un controllo di merito, sostanziale, che non deve limitarsi alla verifica della inottemperanza dell'indagato all'invito a comparire.

Tale natura non meramente formale dell'accertamento da parte del giudice, desumibile dall'art. 132 c.p.p., risponde all'esigenza di motivare adeguatamente un provvedimento ritenuto comunque limitativo della libertà personale del destinatario dello stesso ed in potenziale conflitto con il suo diritto di difesa.

Sono stati pertanto formulati conclusivamente i seguenti principi di diritto:

  • Avverso il provvedimento di cui si tratta, invero, non è previsto alcun mezzo di impugnazione, sicché escluso il carattere abnorme dello stesso, detto provvedimento risulta non impugnabile per il principio di tassatività vigente in materia (art. 568, comma 1, c.p.p.);
  • l'accompagnamento può essere disposto solo nei casi in cui sia consentito dalla legge in relazione a particolari esigenze di natura processuale o delle indagini e, pertanto, la richiesta del P.M. deve esplicitare le ragioni di natura processuale o investigativa che giustificano detta richiesta, mentre non è sufficiente il rilievo della mancata ottemperanza dell'indagato all'invito precedentemente emesso, in quanto tale verifica non giustifica neppure l'obbligo di una specifica motivazione come richiesta dalla legge.
Osservazioni

La decisione della Corte si inserisce all'interno di un ampio dibattito dottrinale che, sin dall'originaria formulazione dell'istituto dell'accompagnamento coattivo, ha visto scontrarsi due differenti impostazioni: a chi ne ha sostenuto la natura cautelare al pari delle misure custodiali disciplinate dal codice di rito si è contrapposto chi ne ha radicalmente esclusa qualsiasi finalità afflittivo-cautelare, assumendo che la natura della limitazione della libertà personale che ne deriva sia più di carattere strumentale, volta al raggiungimento di un interesse primario dell'ordinamento quale è quello di ottenere un'attiva collaborazione da parte di chi è a conoscenza di circostanze utili alla ricostruzione del fatto.

Nonostante nella prevalente opinione si sia escluso l'istituto dall'ambito della coercizione personale, appare comunque indubitabile (come confermato dalla stessa pronuncia della Suprema Corte) che l'accompagnamento coattivo implichi una restrizione della libertà personale, sia pur al limitato scopo di eseguire un atto procedimentale. Non è mancato in dottrina, infatti, chi ha ricondotto la figura in esame nell'ambito delle misure coercitive, così intendendo tutti quegli istituti caratterizzati dall'essere espressione della potestà ordinatoria attribuita all'autorità giudiziaria al fine di assicurare il proficuo e sollecito svolgimento del processo. Nel vigore del previgente codice di rito la stessa Corte costituzionale aveva ritenuto che l'accompagnamento coattivo configurasse un mezzo di coercizione personale con la conseguente attrazione della sua disciplina nell'ambito della copertura costituzionale prevista dall'art. 13 Cost. (sentenza 2 febbraio 1972, n. 13).

La propensione per l'una o l'altra tesi, del resto, non pare priva di risvolti pratici, anche sotto l'aspetto processuale. Solamente ove si dovesse assumere il carattere privativo della libertà personale dell'istituto, infatti, sarebbe giustificabile la ricorribilità in cassazione del relativo provvedimento ai sensi e per gli effetti dell'art. 111, comma 7, Cost. e dell'art. 568, comma 2, c.p.p.

La Corte, negando la possibilità di promuovere il giudizio di legittimità se non nei casi di atto abnorme, ha indirettamente offerto una soluzione alla querelle interpretativa dell'istituto escludendone la natura di provvedimento limitativo della libertà personale al pari delle misure cautelari. Del resto, nell'attuale disciplina codicistica, la sua stessa collocazione sistematica ne rende evidente la differenziazione rispetto alle misure cautelari personali, nonostante l'indubbia incidenza sulla libertà del soggetto destinatario del provvedimento. L'art. 132, infatti, indica un limite di durata massima pari al tempo necessario per l'espletamento dell'atto e, in ogni caso, non eccedente le 24 ore. Il che testimonia l'esigenza, per il legislatore, di garantire comunque l'inviolabilità della libertà personale a norma dell'art. 13 Cost. nonostante la funzione strumentale dell'istituto al conseguimento di un obiettivo eminentemente processualistico (di contrario avviso Marafioti, Scelte difensive dell'indagato e alternative al silenzio, Torino, 2000, p. 200).

L'assenza di un apposito mezzo di impugnazione, stante il principio di tassatività di cui all'art. 568, comma 1, c.p.p., porta dunque a concludere per l'inammissibilità del ricorso.

Il richiamo alla abnormità del provvedimento, inteso quale vizio atipico in grado di colpire gli atti affetti da anomalie così gravi da renderli del tutto eccentrici rispetto al sistema del codice, si inserisce in una ormai consolidata prassi giurisprudenziale che ha riconosciuto tale categoria processuale onde rimediare ai comportamenti procedimentali dell'organo giudicante da cui derivino atti non altrimenti impugnabili, espressivi, in concreto di uno "sviamento" della funzione giurisdizionale e non più rispondenti al modello previsto dalla legge.

Il fulcro della pronuncia, tuttavia, ruota attorno alla natura del controllo di legittimità della richiesta di accompagnamento da parte dell'organo giudicante, definito come sostanziale (rectius di merito). Argomenta il Supremo Consesso che gli accertamenti condotti dal giudice, lungi dal rappresentare interventi meramente formali, impongono valutazioni concrete circa le ragioni processuali ed investigative poste a fondamento e presidio delle richieste stesse. Muove in tal senso quanto stabilito dall'art. 132, comma 1, c.p.p. che, oltre a circoscrivere l'adozione del provvedimento ai soli casi previsti dalla legge, ne disciplina anche le forme, richiedendo il decreto motivato.

La motivazione rappresenta l'iter logico ed argomentativo posto alla base delle decisioni del giudicante che, specialmente nei provvedimenti non impugnabili, ha lo scopo di garantire non solo la non abnormità dell'atto ma anche l'inesistenza di vizi procedurali e/o di merito altrimenti non sindacabili. Ove il controllo esercitato dal giudice, infatti, fosse circoscritto ad un approccio formalistico della materia e dunque limitato alla mera recezione automatica di un dato di fatto (quale è la mancata presentazione del destinatario del provvedimento nonostante l'invito a presentarsi del P.M.), il rischio che si corre è, da un lato, quello di privare la difesa degli strumenti processuali per far valere in giudizio eventuali difformità dell'atto rispetto al modello legale; dall'altro, come correttamente rilevato dalla Corte, perderebbe di prestigio l'obbligo motivazione richiesto dall'art. 132 ai fini della assunzione del relativo decreto. Non sembra superfluo rilevare che lo stesso art. 125 c.p.p., nella descrizione delle forme dei provvedimenti del giudice, commina la sanzione della nullità per i decreti privi di motivazione adottati in spregio di una espressa prescrizione normativa.

La pronuncia si pone in contrasto con quella parte della dottrina che ha negato la possibilità per il giudice di sindacare l'atto di indagine in funzione del quale l'accompagnamento forzato dovrebbe essere disposto. Secondo tale orientamento, il giudice non potrebbe spingersi fino a compiere una delibazione di merito dell'atto investigativo poiché così operando andrebbe inevitabilmente ad incidere sul potere di conduzione delle indagini, di esclusiva prerogativa del pubblico ministero.

Ma si tratta di un orientamento minoritario, ormai superato alla luce dei principi di diritto formulati dalla sentenza in esame nonché dalla successiva giurisprudenza della Corte. Di recente, infatti, è stata esclusa la possibilità di instaurare un giudizio di legittimità avverso il rifiuto da parte del giudice di secondo grado di disporre l'accompagnamento coattivo, il quale abbia ritenuto non necessaria tale attività, in quanto frutto di una valutazione di merito non ricorribile per cassazione (Cass. pen., Sez. II, 5 giugno 2015, n. 27792). Si è indirettamente confermato, pertanto, il ruolo attivo (e dunque non meramente recettivo di una situazione de facto) del deliberante attraverso la valorizzazione delle proprie (insindacabili) scelte discrezionali.

Guida all'approfondimento

E. APRILE, P. SILVESTRI, Le indagini preliminari e l'archiviazione, Milano, 2011, pp. 423 ss.

P. DI GERONIMO, Il contributo dell'imputato all'accertamento del fatto, Milano, 2009, pp. 71 ss.

C. DI MARTINO, T. PROCACCIANTI, La prova testimoniale nel processo penale, Padova, 2010, pp. 154 ss.

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