Alcune questioni fondamentali in tema di tentativo di omicidio: la (in)compatibilità con il dolo eventuale

08 Agosto 2016

La disciplina del tentativo di omicidio risulta dal combinato disposto della disposizione di cui all'art. 56 c.p. con quella che prevede la relativa fattispecie incriminatrice, l'art. 575 c.p. Ai fini dell'integrazione della figura l'agente deve aver posto in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere l'omicidio, purché l'azione non si sia compiuta (c.d. tentativo incompiuto) o l'evento-morte non si sia realizzato (c.d. tentativo compiuto).
Abstract

La disciplina del tentativo di omicidio risulta dal combinato disposto della disposizione di cui all'art. 56 c.p. con quella che prevede la relativa fattispecie incriminatrice, l'art. 575 c.p.

Ai fini dell'integrazione della figura l'agente deve aver posto in essere atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere l'omicidio, purché l'azione non si sia compiuta (c.d. tentativo incompiuto) o l'evento-morte non si sia realizzato (c.d. tentativo compiuto).

Il fondamento giuridico, nonché politico-criminale della punibilità del tentativo di delitto è rappresentato dall'interesse dell'ordinamento a prevenire – oltre alla definitiva lesione – la stessa messa in pericolo del bene giuridico tutelato, in ossequio ai principi costituzionali di materialità ed offensività.

Nei paragrafi successivi si esamineranno alcune questioni concernenti, da un lato, la materialità del tentativo di omicidio, dall'altro il problema dell'elemento soggettivo della fattispecie ed in particolare i rapporti tra dolo eventuale e diretto, anche nella sua forma alternativa.

Elemento materiale

Dal punto di vista della – mancata – realizzazione dell'evento-morte sembra ancora opportuno chiarire che la scarsa entità (o anche l'inesistenza) delle lesioni provocate alla persona offesa non sono circostanze idonee ad escludere di per sé l'intenzione omicida, in quanto possono essere rapportabili a fattori indipendenti dalla volontà dell'agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza o una mira non precisa (Cass. pen., n. 52043/2014).

I commi 3 e 4 dell'art. 56 c.p. disciplinano due istituti tipici del tentativo di delitto: la desistenza volontaria ed il recesso attivo (o pentimento operoso), comunemente intesi come causa personale di esclusione della pena, la prima, e come circostanza attenuante soggettiva, il secondo.

Avuto riguardo alla fattispecie in esame, appare pacifico che non è configurabile la desistenza quando gli atti posti in essere integrano già gli estremi del tentativo: in tema di reati di danno a forma libera (come l'omicidio), la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale idoneo a produrre l'evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il c.d. pentimento operoso, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l'evento (Cass. pen., n. 11746/2012).

Con specifico riferimento al reato di tentato omicidio, ancora, è stato osservato che non configura recesso attivo la condotta di chi, dopo aver procurato gravi ferite ad una persona, si limita a segnalare a terzi che l'aggredito versa in critiche condizioni di salute, se tale comportamento è riconducibile all'intento opportunistico di distogliere da sé i sospetti sulla responsabilità dell'evento e non al fine di evitare la morte della vittima (Cass. pen., n. 22817/2014).

Dal punto di vista della sanzione comminabile, infine, il riferimento è all'art. 56, comma 2 c.p.: il primo inciso della disposizione citata, peraltro, deve ritenersi ormai abrogato a seguito dell'espunzione dall'ordinamento della pena di morte. Di conseguenza, il colpevole del delitto tentato è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni, se dalla legge è stabilita la pena dell'ergastolo, e, negli altri casi, con la pena stabilita per il delitto, diminuita da un terzo a due terzi. Secondo i principi generali, in ogni caso di determinazione del solo minimo edittale la pena massima irrogabile è quella stabilita dall'art. 23 c.p., ovvero, nel caso della reclusione, quella di ventiquattro anni.

La tematica rende peraltro necessario un chiarimento rispetto alla questione della compatibilità degli elementi accidentali (circostanze del reato) con la fattispecie tentata: secondo l'orientamento maggioritario sarebbe ammissibile il solo tentativo circostanziato di delitto, caratterizzato dalla compiuta realizzazione della circostanza (ad es. omicidio tentato aggravato dal rapporto di parentela). Diversamente nel caso di tentativo di delitto circostanziato, il quale, se giunto a consumazione, sarebbe risultato aggravato.

La questione dell'elemento soggettivo della fattispecie: dolo diretto (alternativo) o dolo eventuale?

Per una parte della dottrina il delitto tentato si differenzierebbe dalla relativa forma consumata esclusivamente per la (minore) ampiezza dell'elemento materiale: la fattispecie risultante dal combinato dell'art. 56 c.p. con la norma di parte speciale, invero, difetta tipicamente di un segmento della condotta ovvero dell'evento del reato. Dal punto di vista dell'elemento psicologico, d'altro canto, le due ipotesi sarebbero caratterizzate dalla medesima forma di dolo richiesta per il delitto consumato, anche eventuale. L'agente intende commettere il delitto, non il tentativo, sicché sarebbe erroneo discorrere di un dolo di tentativo, non differenziandosi esso in nulla rispetto al dolo del reato consumato.

L'orientamento in parola affonda le sue radici nella concezione del requisito dell'univocità degli atti richiesto dalla norma sul tentativo, tale per cui esso atterrebbe al mero elemento materiale della fattispecie, connotando in senso oggettivo la condotta. Tale impostazione, del resto, sembrerebbe suffragata dalla circostanza che l'art. 56 c.p. non detta alcuna disciplina specifica per l'elemento soggettivo, di guisa che dovrebbe farsi riferimento ai principi generali dettati in materia dagli artt. 42 e 43 c.p..

Un'altra parte della dottrina e la giurisprudenza, invece, sposano fermamente la tesi dell'incompatibilità ontologica e strutturale tra delitto tentato e dolo eventuale. Questi, in sintesi, gli argomenti a sostegno dell'orientamento in analisi:

  • concezione soggettiva del requisito dell'univocità degli atti, inteso come elemento diretto a dimostrare una volontà intenzionalment” diretta alla commissione del reato;
  • autonomia ed indipendenza del delitto tentato rispetto alla relativa forma consumata: conseguentemente, la fattispecie sarebbe caratterizzata da un proprio dolo, nel cui fuoco dovrebbero necessariamente rientrare gli elementi dell'idoneità e, soprattutto, dell'univocità degli atti;

- idea secondo cui alla stessa essenza del tentativo sarebbe connaturata una condotta consapevolmente orientata verso uno scopo, non la mera accettazione del rischio di esso.

In conclusione

Al termine di tale breve disamina degli orientamenti riscontrabili in argomento, risulta che la soluzione del problema dipende inevitabilmente dal tipo di impostazione teorica prescelto come base del ragionamento.

Ad ogni modo, sembrerebbe che la posizione dominante in giurisprudenza non sia destinata a conoscere contrasti, posto che è pressoché pacifica l'affermazione secondo cui il dolo eventuale non è configurabile nel caso di delitto tentato, in quanto è ontologicamente incompatibile con la direzione univoca degli atti compiuti nel tentativo, che presuppone il dolo diretto.

In tema di delitti omicidiari, peraltro, deve qualificarsi come dolo diretto e non meramente eventuale, quella particolare manifestazione di volontà definita dolo alternativo, che sussiste quando al momento della realizzazione dell'elemento oggettivo del reato il soggetto attivo si rappresenta e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente o indifferente, l'uno o l'altro degli eventi (nella specie, morte o grave ferimento della vittima) causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, con la conseguenza che esso ha natura di dolo diretto ed è compatibile con il tentativo. Si ha, invece, dolo eventuale allorquando l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta e, ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla.

Per la casistica v. Cass. pen., n. 9663/2013: in applicazione del suddetto principio, la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che aveva affermato la sussistenza del reato di tentato omicidio in relazione ad una aggressione condotta attingendo con ripetuti colpi di coltello una zona vitale del corpo della vittima, la cui morte sarebbe sopravvenuta se non fosse intervenuto immediato soccorso delle persone vicine. In un'altra occasione è stata ritenuta corretta la configurabilità dell'animus necandi, nella forma del dolo alternativo, con riferimento alla condotta realizzata da un soggetto che, allo scopo di sfuggire al controllo delle forze dell'ordine, aveva investito frontalmente un carabiniere con la propria autovettura, e, dopo l'impatto, aveva ripreso la marcia dirigendo nuovamente il veicolo contro la vittima, pur avendo la possibilità di allontanarsi attraverso altra via.

Per distinguere il reato di lesione personale da quello di tentato omicidio, così come avviene in genere per tutti i casi di reato progressivo, occorre avere riguardo sia al diverso atteggiamento psicologico dell'agente (per l'individuazione della direzione teleologica della sua volontà verso la morte della vittima) sia alla differente potenzialità dell'azione lesiva, desumibili da una serie di elementi sintomatici utili quali la micidialità e le caratteristiche del mezzo usato, la posizione degli antagonisti, la violenza, la profondità e la reiterazione delle offese, la zona del corpo attinta, o la mancanza di motivazioni alternative dell'azione (Cass. pen., n. 51056/2013).

Ad ogni modo, quando l'alternativa accusatoria si pone tra due delitti contro la vita e l'incolumità individuale, che differiscono solo per la gravità del risultato e si sia verificato l'evento meno grave, può prospettarsi un problema di dolo indiretto solo se risulta accertato che l'evento meno grave è quello perseguito come scopo finale, ossia con dolo intenzionale, con accettazione secondaria del rischio che possa anche verificarsi quello più grave. Il problema del dolo eventuale concernente il tentativo del reato più grave nemmeno si pone, invece, allorché la condotta sia stata di tale intensità da non potersi distinguere se la volontà dell'agente fosse volta a provocare – alternativamente, ossia con dolo diretto – la lesione o la morte.

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