Riabilitazione e risarcimento del danno derivante da reato

16 Agosto 2016

Al comma 6, n. 2 dell'art. 179 c.p. viene individuata una condizione ostativa alla riabilitazione del condannato che consiste nel mancato adempimento alle obbligazioni civili derivanti dal reato (fra le quali va ricompreso il risarcimento del danno ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 185 c.p.), in assenza della prova, da parte del reo, di essersi trovato nell'impossibilità di adempierle.
Abstract

Al comma 6, n. 2 dell'art. 179 c.p. viene individuata una condizione ostativa alla riabilitazione del condannato che consiste nel mancato adempimento alle obbligazioni civili derivanti dal reato (fra le quali va ricompreso il risarcimento del danno ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 185 c.p.), in assenza della prova, da parte del reo, di essersi trovato nell'impossibilità di adempierle. L'attivazione del condannato ai fini della tutela risarcitoria (così come per l'adempimento delle altre obbligazioni civili derivanti dal reato) è imposta in funzione del valore dimostrativo dell'avvenuta emenda e costituisce una applicazione specifica del requisito della buona condotta che il riabilitando deve fornire. Il positivo interessamento del reo nei riguardi dell'offeso dal reato costituisce il primo sintomo della sua avvenuta risocializzazione.

La riabilitazione nel sistema penale

La riabilitazione penale è una procedura che consente alla persona condannata che abbia manifestato sicuri segni di ravvedimento di ottenere l'estinzione delle pene accessorie (artt. 28 ss. c.p. – interdizione dai pubblici uffici, interdizione da una professione o da un'arte, interdizione legale, incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione, decadenza dall'esercizio della potestà genitoriale …) e di ogni altro effetto penale della condanna (salvo che la legge disponga diversamente), riacquisendo così le capacità eventualmente perdute (art. 178 c.p.).

La funzione premiale e promozionale dell'istituto persegue la finalità di pieno reinserimento sociale del condannato attraverso la restituzione, decorso un certo lasso di tempo dalla espiazione della pena, di alcune delle facoltà perdute in conseguenza della condanna penale

La riabilitazione può essere richiesta da chi abbia subito una condanna (passata in giudicato) quando, dal giorno in cui la pena principale è stata eseguita o estinta in altro modo (es. fine pena per il detenuto, pagamento della multa/ammenda in caso di condanna a pena pecuniaria ecc.) è decorso un termine di tre anni ovvero di otto (nei casi di recidiva aggravata o reiterata - art. 99, commi 2,3,4 c.p.) ovvero di dieci (ove si tratti di delinquenti abituali - art. 102 c.p., professionali - art. 105 c.p. o per tendenza - art. 108 c.p.).

Nel caso in cui sia stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena (ex art. 163, commi 1, 2, 3, c.p.) il termine di decorrenza sopraindicato inizia dallo stesso momento dal quale decorre quello della sospensione della pena.

La sentenza di riabilitazione è, tuttavia, revocata di diritto, se la persona riabilitata commette entro sette anni un delitto non colposo per il quale sia inflitta la pena della reclusione non inferiore a due anni od un'altra pena più grave.

Il codice penale individua, inoltre, anche i casi in cui la riabilitazione non può essere concessa e cioè ove il condannato sia stato sottoposto a misure di sicurezza – eccetto si tratti di espulsione dello straniero dallo Stato ovvero di confisca – e nel caso in cui non abbia adempiuto le obbligazioni civili derivanti da reato (deve, cioè, avere risarcito i danni arrecati alle parti offese indipendentemente dalla loro costituzione di parte civile e aver, altresì, pagato le spese processuali sostenute), salvo che dimostri di trovarsi nella impossibilità di adempierle.

La giurisprudenza ha poi aggiunto che sino alla data di decisione dell'istanza de quo (Cass. pen. n. 2314/1997), il reo deve avere iniziato e mantenuto uno stile di vita improntato al rispetto delle norme di comportamento comunemente osservate dai consociati e poste alle basi di ogni proficua e ordinata convivenza sociale, anche laddove non abbiano rilevanza penale e non siano penalmente sanzionate (Cass. pen. n. 196/2002; Cass. pen., 57/2000).

Denunce e condanne per fatti successivi alla sentenza a cui si riferisce la domanda di riabilitazione non sono automaticamente ostative alla concessione della stessa ma vengono valutate discrezionalmente dal tribunale di sorveglianza competente (Cass. pen. n. 46270/2007).

Il codice si occupa anche della c.d. riabilitazione breve: nella specie, qualora sia stata concessa la sospensione condizionale per una pena non superiore ad un anno e sia stato riparato interamente il danno, prima che sia stata pronunciata la sentenza di primo grado, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni, nonché qualora il colpevole, entro lo stesso termine e fuori del caso previsto nel caso di delitto impedito (art. 56, comma 4, c.p.), si sia adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato da lui eliminabili, la riabilitazione è concessa allo scadere del termine di un anno dal verificarsi delle condizioni previste dall'art. 163, comma 4, c.p., purché sussistano le altre condizioni previste dall'art. 179 c.p.

L'emenda del reo

Il richiamo agli obblighi risarcitori del condannato affinché possa concedersi la riabilitazione, nel codice penale, opera in via “indiretta” attraverso il richiamo (art. 179 c.p.) al comma 4 dell'art. 163 c.p. ed alle cc.dd. conseguenze civili del reat” di cui agli artt. 185 ss c.p.

La giurisprudenza ha già avuto modo di rilevare che in tema di riabilitazione, l'adempimento delle obbligazioni civili ha un evidente valore dimostrativo dell'emenda del condannato, onde la stessa non può essere concessa se il richiedente si sia limitato semplicemente ad affermare di non essere riuscito a rintracciare le parti offese, anche perché a tale impossibilità potrebbe ovviarsi mediante un'offerta reale (Cass. pen., Sez. VI, 8 marzo 2000, n. 1147). Tant'è che l'attivarsi del reo al fine della eliminazione, per quanto possibile, di tutte le conseguenze di ordine civile derivanti dalla condotta criminosa, costituisce una condizione imprescindibile per l'ottenimento del beneficio, anche nel caso in cui nel processo penale sia mancata la costituzione di parte civile e non vi sia stata, quindi, alcuna pronuncia in ordine alle obbligazioni civili conseguenti al reato (Cass. pen., Sez. V, 27 novembre 1998, n. 6445).

L'accertamento necessario ai fini della concessione di tale istituto premiale, secondo gli ermellini, deve essere condotto attraverso una analisi puntuale dei comportamenti assunti dal condannato di modo che possa, nel concreto, valutarsi l'esistenza o meno di una propria volontà riparatrice. Pertanto, in giurisprudenza si è affermato che è sempre richiesto che il tribunale di sorveglianza, incaricato di vagliare l'istanza del reo, motivi adeguatamente il provvedimento con il quale eventualmente neghi la concessione del beneficio, non potendosi limitare alla indicazione riassuntiva delle cause ritenute ostative alla riabilitazione. Al contrario dovrà essere menzionato il contenuto delle stesse, posto che, in caso contrario, non si consentirebbe al giudice di legittimità di controllare l'adeguatezza e la correttezza della decisione assunta.

Risarcimento e onere della prova

L'art.179, comma 6, n.2) c.p. prevede, quale causa ostativa alla concessione della riabilitazione, il mancato adempimento alle obbligazioni risarcitorie derivanti dal reato; è consentito prescindere dall'obbligo di adempimento delle obbligazioni civili soltanto se il condannato dimostri di trovarsi nella impossibilità di adempierle, con espressa attribuzione al soggetto che richiede la riabilitazione dell'onere di dimostrare la sussistenza di una condizione di impossibilità oggettiva di assolvere gli obblighi di restituzione e di risarcimento del danno cagionati dal reato ai sensi dell'art.185 c.p. (condizione nella quale rientra anche la rinuncia volontaria alla pretesa risarcitoria da parte della vittima del reato).

Va, pertanto, disconosciuta la valenza probatoria delle dichiarazioni di rinuncia al risarcimento asseritamente provenienti dalle persone offese in difetto di una adeguata ricostruzione delle modalità e delle tempistiche con cui risultino realizzate (Cass. pen., Sez. I, 4 aprile 2014, n.23656).

Di impossibilità oggettiva può parlarsi, per esempio, nei casi di irreperibilità della persona offesa o di dilatazione eccessiva dei termini per apprestare la predetta tutela risarcitoria: in tali circostanze il richiedente è liberato dall'obbligo (di natura civilistica) imposto dal codice anche se sussiste la possibilità per il tribunale di sorveglianza di indicare, eventualmente, un destinatario “pubblico” (ente benefico, associazione, Onlus, ecc.) al quale destinare una simbolica somma di denaro a guisa di risarcimento. Va, peraltro, rilevato, che quest'ultima ipotesi, non espressamente riconosciuta dalla legge (ma di matrice giurisprudenziale), non può costituire ex sé la condizione dirimente ai fini della concessione della riabilitazione.

Recentemente la suprema Corte ha affermato oltretutto che anche nel caso di accordo transattivo tra l'autore del reato e la vittima, è onere del giudice accertare se quest'ultima sia stata effettivamente ristorata dei danno patiti a cagione dell'illecito penale.

Difatti, i giudici di legittimità, prendendo atto di come il mancato adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato costituisca causa ostativa alla concessione della riabilitazione, pongono a carico di colui che chiede il beneficio l'onere di provare di avere provveduto alla reintegrazione della persona offesa mediante il risarcimento in forma integrale di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati dal reato. Per cui, se è vero che il requisito della integralità del risarcimento dei danni non può dirsi aprioristicamente escluso dall'esistenza di un accordo transattivo (Cass pen.., Sez. I, 8 gennaio 2010, n. 5767; Cass. pen., Sez. un., 12 luglio 2007, n. 35535), è altrettanto vero che è onere del giudice di merito verificare, in base all'entità delle somme convenzionalmente pattuite e ad ogni altro elemento ritenuto rilevante, la corrispondenza, nella sostanza, di quanto versato a seguito di accordo tra le parti, ad un risarcimento integralmente satisfattorio del diritto alla riparazione dei danni vantato dalle persone offese (Cass. pen., Sez. I, 10 ottobre 2012, n. 42164).

Provvedere al risarcimento integrale dei danni conseguenti all'illecito, del resto, fa leva su una serie di considerazioni peculiari:

  • innanzitutto le componenti patrimoniali del danno risarcibile non si arrestano all'importo eventualmente sottratto alla vittima del reato, ma comprendono in aggiunta interessi e rivalutazioni;
  • debbono essere risarcite anche le spese sostenute per il recupero della somma in contestazione nonché l'equivalente economico del tempo impiegato e degli oneri affrontati dalla vittima – componenti tutte del danno emergente la cui consistenza va apprezzata in termini oggettivi e nella globalità degli effetti;
  • in assenza di prova di altri profili di danno patrimoniale, ogni fatto illecito è astrattamente idoneo a produrre quantomeno un danno morale derivante dall'aggressione posta in essere anche agli interessi non strettamente patrimoniali tutelati dalla norma incriminatrice.

In passato la giurisprudenza ha ritenuto che il giudice di merito dovesse accertare se il danno patrimoniale fosse conseguenza diretta del fatto illecito, valutando la sua gravità in termini generali e globali, senza quelle specificazioni analitiche che sarebbero richieste per la pronuncia di statuizioni civilistiche (Cass. pen., sez. I, 3 giugno 2010, n. 23902). Soltanto in tempi più recenti, invece, si è preferito condividere un orientamento più restrittivo che impone al giudice de quo di specificare, con maggiore dovizia di dettagli, i motivi posti a sostegno delle proprie decisioni. Due le soluzioni percorribili: la prima è quella di nominare, in ossequio a quanto statuito dall'art. 666, comma 5, c.p.p. (nella parte in cui permette al giudice, se occorre, di assumere prove), un perito affinché provveda ad una stima del danno considerato che in tema di esecuzione non sussiste un onere probatorio a carico del soggetto che invochi un provvedimento giurisdizionale favorevole ma solo un onere di allegazione, cioè un dovere di prospettare e di indicare al giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi alla autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti (Cass. pen., Sez. V, 14 novembre 2000, n. 4692). La seconda è quella di procedere ex officio in via equitativa, alla verifica della liquidazione del danno (ivi compreso quello patrimoniale) così come stabilito tra l'imputato e la parte offesa purché il Giudice indichi, attraverso quali canoni decisori, sia addivenuto a stabilire congruo (o meno) un dato quantum risarcitorio convenzionalmente pattuito.

In conclusione

La giurisprudenza di legittimità, in gran parte delle sue pronunce, ha ritenuto più consona al modello processualpenalistico la “semplice” verifica di un'adeguata offerta riparatoria da parte del condannato che chieda di essere “riabilitato”, da valutarsi in misura compatibile con le proprie entrate (Cass. pen., Sez. V, 21 ottobre 2009, n. 5048), ben potendo, la prova dell'integrale adempimento delle obbligazioni civili dipendenti da reato, essere fornita con qualsiasi mezzo (a differenza di quanto accade nel processo civile, in considerazione delle rigide preclusioni probatorie ivi contemplate). Nel processo penale, detto altrimenti, vale principalmente il valore dimostrativo dell'emenda (Cass. pen., Sez. I, 27 gennaio 2005, n. 9755).

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