Minaccia. L'idoneità intimidatoria della frase deve essere valutata con riferimento al contesto concreto

Valentina Ventura
31 Agosto 2016

In presenza di una frase astrattamente idonea ad integrare la condotta tipizzata dall'art. 612 c.p., può escludersi la sussistenza del reato di minaccia in ragione del concreto contesto in cui la frase viene pronunciata?
Massima

L'idoneità intimidatoria della frase pronunciata deve essere valutata con riferimento al concreto contesto di riferimento.

Il caso

Tizio è stato condannato dal giudice di pace di Belluno al pagamento della sola pena pecuniaria per i reati di minaccia e ingiuria commessi ai danni di un vicino nel corso di una lite verificatasi per ragioni condominiali.

Avverso la sentenza di condanna è ricorso personalmente l'imputato deducendo, quanto all'ingiuria, l'illogica esclusione dell'esimente della reciprocità delle offese e, quanto alla minaccia, l'errata applicazione della legge penale in merito alla sussistenza di tale delitto, unitamente alla violazione di legge per difetto assoluto di motivazione su detto reato, asserendo che la frase attribuitagli non avrebbe avuto alcuna valenza intimidatoria, tenuto conto della sua età avanzata e della reazione tenuta dalla persona offesa.

Poiché dopo la proposizione del ricorso è entrato in vigore il d.lgs. 7/2016, a mezzo del quale, tra gli altri, è stato abrogato il delitto di ingiuria, la Corte di cassazione ha preliminarmente annullato senza rinvio la sentenza impugnata riguardo a detto capo di imputazione e si è pronunciata, ritenendolo fondato, sul motivo di ricorso relativo al reato di cui all'art. 612 c.p. stimando la frase pronunciata dall'imputato come del tutto inoffensiva, tenuto conto del concreto contesto in cui si erano svolti i fatti.

La questione

La questione in esame è la seguente: se, in presenza di una frase astrattamente idonea ad integrare la condotta tipizzata dall'art. 612 c.p., debba escludersi la sussistenza del reato di minaccia, tenuto conto del concreto contesto in cui la frase viene pronunciata.

Le soluzioni giuridiche

La vicenda in commento impone una considerazione sulla condotta tipica che realizza il reato di cui all'art. 612 c.p., dovendosi chiedere l'interprete se l'espressione Vieni fuori che facciamo a pugni pronunciata da un soggetto di ottantaquattro anni nei confronti di persona di venti anni più giovane abbia o meno idoneità intimidatoria.

Come noto, quello di cui all'art. 612 c.p. è un reato di pericolo inserito tra i delitti contro la libertà individuale delle persone intesa, in particolare, come libertà psichica e libertà di autodeterminazione.

Trattandosi di reato di pericolo, ai fini dell'integrazione della fattispecie non è necessaria la concreta intimidazione della persona offesa, essendo sufficiente la comprovata idoneità della condotta ad intimidirla (Cass. pen., Sez. I, n. 47739 del 2008 e, più recentemente, Cass. pen., Sez. V, n. 644 del 2013, relativa ad un caso in cui un soggetto aveva detto ad alcuni bambini che giocavano vicino casa sua che se non si fossero allontanati, sarebbe rientrato in casa a prendere il fucile, ove la suprema Corte ha censurato il giudice di appello che aveva escluso la sussistenza del reato ritenendo l'espressione utilizzata dall'imputato un classico espediente verbale colorito contro bimbi molesti).

La minaccia consta della prospettazione di un male o di un danno ingiusto e futuro, la cui verificazione dipende dalla volontà del soggetto agente; elemento essenziale del reato è proprio la capacità di intimidire il soggetto passivo.

Detta capacità intimidatoria deve essere accertata con rigore, secondo un metro di valutazione di carattere medio, tenuto conto delle peculiarità del caso concreto sia sul piano oggettivo (vale a dire che dovrà aversi riguardo al tempo, alla forma e al luogo), sia sul piano soggettivo (dovendosi guardare le condizioni psichiche e fisiche dei soggetti coinvolti).

La minaccia deve essere seria e la valutazione di detta serietà deve essere effettuata in considerazione delle circostanze concrete del fatto, anche a prescindere dall'entità del danno minacciato e dall'eventuale stato di sicurezza in cui si trovi il minacciato nel momento in cui la frase è pronunciata, dato che il danno si riferisce ad un tempo futuro.

A tale conclusione dottrina e giurisprudenza sono giunte da tempo, rilevando come la manifestazione del proposito ostile nei confronti della vittima deve essere idonea ad esercitare una pressione restrittiva della libertà psichica in una tempra umana media, ovvero sul soggetto di cui in concreto si tratta, ancorché non l'abbia effettivamente esercitata (MANZINI).

L'idoneità ad intimidire non deve essere confusa con la probabilità o possibilità che il danno minacciato si verifichi.

Non si ha danno in senso giuridico e, conseguentemente, non sussiste il reato di minaccia laddove la prospettazione del male ingiusto riguarda un danno assolutamente impossibile rispetto alla capacità umana di incidere su un dato evento, come nell'ipotesi in cui si minaccia un evento infausto per causa di un agente atmosferico, imprevedibile ed ingovernabile dall'uomo.

Se, invece, l'evento prospettato può essere determinato dall'intervento umano, occorre accertare se, nonostante il soggetto agente non sia in grado di attuarla, la minaccia sia stata comunque in grado di intimidire il soggetto passivo, tenuto conto della sua età, del suo livello di cultura e delle modalità concrete di formulazione della minaccia stessa.

Ne discende che è irrilevante che la minaccia sia formulata con un mezzo effettivamente idoneo a produrre il danno prospettato o che tale idoneità sia soltanto apparente (come in ipotesi di utilizzo di una pistola falsa o scarica, per esempio), se tuttavia detta condotta è in grado di intimidire la persona offesa.

In forza di detto principio, la suprema Corte ha dunque ritenuto sussistente la minaccia grave in ipotesi di semplice esibizione di un'arma da sparo anche se scarica ovvero ove vi fosse il sospetto della sua falsità, (Cass. pen., Sez. V, n. 8264 del 1992; Cass. pen., Sez. V, n. 10255 del 1981), così come in ipotesi di utilizzo di un'arma giocattolo, ritenendo che l'esibizione di ciò che appare come un'arma unitamente all'affermazione ti sparo determini un maggior effetto intimidatorio sull'animo del minacciato (Cass. pen., V, n.10179 del 2013).

La Corte ha altresì precisato che ove manchi una minima parvenza di arma vera e di serietà del fatto, il reato non può dirsi sussistente (così Cass. pen., Sez. V, n. 8264 del 1992, cit.).

La valutazione delle concrete circostanze di tempo, di luogo e della complessiva modalità dell'azione devono essere oggetto di attenta analisi anche in ipotesi di intimidazione che si concretizza attraverso l'invio di atto scritto.

Al riguardo la suprema Corte ha precisato che in ipotesi di minaccia a mezzo di atto scritto, ai fini della sussistenza del reato è necessario che vi sia un riferimento esplicito, chiaro ed inequivocabile ad un male ingiusto, tale da ingenerare timore nel destinatario, in considerazione delle concrete circostanze di tempo e di luogo (in tal senso Cass. pen., Sez. V, n. 51246 del 2014, ove la Corte ha escluso che potesse costituire il reato in parola la comunicazione via e-mail a mezzo della quale l'imputato aveva genericamente prospettato al proprio contraente l'avvio di una legittima azione giudiziaria civile e la diffusione di notizie relative all'inadempimento negoziale di cui era stato vittima, censurando il giudice di merito per non aver considerato in modo adeguato il contesto in cui la comunicazione si inseriva, caratterizzato da una risalente amicizia tra le parti e da toni forse esasperati, ma non minatori in senso stretto).

Nondimeno, proprio richiamando il principio appena enunciato, la suprema Corte ha avuto modo di precisare che il riferimento contenuto in uno scritto anonimo alla vita privata ed ai familiari del destinatario, è chiaramente allusivo al pericolo di cagionare un male ingiusto alla vittima, esprimendo la possibilità di incidere sugli interessi ed affetti di questa anche senza farne espressa menzione, al punto da poterne coartare la libertà di autodeterminazione (Cass. pen., Sez. V, n. 463 del 2015).

La giurisprudenza in tema di minaccia è piuttosto copiosa, specialmente con riguardo ad espressioni sovente usate in occasione di liti e diverbi, quali, ad esempio, non finisce qui, me la pagherai, sta attento et similia.

Con riferimento ad espressioni del tenore di quelle indicate, in più occasioni la suprema Corte ha ritenuto sussistente il reato in commento laddove, pur essendo indeterminato il male minacciato, per il rapporto esistente tra i soggetti coinvolti, gli incarichi da questi ricoperti o altri elementi del caso concreto potesse ritenersi la condotta idonea ad intimorire il destinatario delle frasi o invettive (così Cass. pen., Sez. V, n. 31693 del 2001, ove la suprema Corte ha ravvisato attitudine intimidatoria nella condotta del vice-presidente di una Regione che si era rivolto ad un funzionario con la frase questa me la paga, me la lego al dito, non mi faccio prendere in giro da un funzionario, io sono presidente del consiglio regionale, ritenendo che la minaccia avesse assunto concretezza intimidatoria in considerazione della situazione di collaborazione tra autore e vittima e del fatto che l'espressione facesse riferimento alla carica politica che il primo ricopriva nell'ente in cui la persona offesa era impiegata).

Quando l'espressione intimidatoria è diretta ad un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio al fine di costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell'ufficio o del servizio ovvero a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su uno di detti soggetti, la fattispecie sotto la quale la minaccia deve essere sussunta è quella di cui all'art. 336 c.p.

In tal caso, secondo il supremo Collegio, il reato non può dirsi integrato in presenza di una reazione genericamente minatoria da parte del privato che esprima sentimenti ostili non accompagnati dalla specifica prospettazione di un danno ingiusto di una qualche concretezza idonee a turbare il pubblico ufficiale nell'assolvimento dei suoi compiti istituzionali, come nel caso in cui siano proferite frasi del tipo se mi fai la contravvenzione giuro che te la faccio pagare, chiamo il mio avvocato e ti querelo (Cass. pen., Sez. VI, n. 20320 del 2015) ovvero ti sistemo io e se no te ne accorgi cosa succede (Cass. pen., Sez. VI, n. 6164 del 2011).

In tali circostanze, infatti, la condotta posta in essere dal soggetto agente non pare dotata di effettiva potenzialità a coartare la volontà del pubblico ufficiale nell'assolvimento dei propri doveri d'ufficio, ma le parole pronunciate appaiono, piuttosto, espressive di uno stato d'ira o di frustrazione dinanzi alla sensazione di impotenza generata dal contatto con l'autorità, in definitiva non idonee, secondo una ragionevole valutazione delle circostanze del caso concreto, a rendere prospettabile una realizzazione di una qualche conseguenza dannosa a carico del pubblico ufficiale.

La valutazione delle concrete circostanze nelle quali la minaccia è proferita devono essere valutate anche laddove la minaccia è elemento strutturale di altro e diverso reato, come nel caso dell'estorsione, per esempio, ove devono essere valutate la personalità sopraffattrice dell'agente, le circostanze ambientali in cui questi opera, l'ingiustizia della pretesa e, naturalmente, anche le condizioni soggettive della vittima, dal momento che più questa è vulnerabile, maggiore è la potenzialità coercitiva di comportamenti anche soltanto velatamente minacciosi (Cass. pen., Sez. II, n. 2702 del 2015, relativa ad un caso in cui le minacce erano state formulate in forma scritta nei confronti di persona in condizioni di depressione nevrotica, disturbo della personalità borderline e abuso alcolico).

Da ultimo, interessanti considerazioni sul tema si rinvengono nella recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 12228/2013 in tema di rapporti tra concussione e induzione indebita, ove, nella ricerca di un criterio distintivo tra le fattispecie di cui agli artt. 317 e 319-quater c.p., il supremo Collegio ha avuto occasione di approfondire, tra gli altri, proprio il tema della minaccia, muovendo dalla disamina del concetto di costrizione.

La suprema Corte ha evidenziato come, per porre un argine ad interpretazioni troppo estensive e per non correre il rischio, nella prospettiva penalistica che qui interessa, di eludere il principio di tipicità, la più recente dottrina penalistica, nel lodevole tentativo di individuare una nozione unitaria di minaccia, ha rilevato, in primo luogo, come questa, per sua natura, ha per oggetto un male o danno (così, rispettivamente, prevedono gli artt. 1435 c.c. e art. 612 c.p.) ingiusto, vale a dire contra ius (idonea a ledere gli interessi della vittima) e, in secondo luogo, presuppone una vittima costretta ad agire in un dato modo per evitare un danno, non avendo altra via d'uscita.

Il criterio discretivo tra costrizione ed induzione ad avviso delle Sezioni unite deve essere ricercato nella contrapposizione tra ciò che costituisce minaccia e ciò che minaccia non è, una ricerca che non può prescindere da una valutazione della intimidazione alla luce del concreto contesto in cui essa è formulata, tenuto conto di tutti gli elementi caratterizzanti il caso di specie.

Osservazioni

Nel caso oggetto della pronuncia in esame, la suprema Corte non si è dilungata in un articolato percorso argomentativo, limitandosi a ritenere che l'espressione Vieni fuori che facciamo a pugni pronunciata da un soggetto di ottantaquattro anni nei confronti di persona molto più giovane, pur essendo astrattamente idonea ad integrare la condotta di cui all'art. 612 c.p., deve essere considerata assolutamente inoffensiva alla luce del concreto contesto in cui detta frase è stata pronunciata.

L'agente, di oltre ottantaquattro anni, è stato ritenuto del tutto incapace di fare a pugni con un soggetto di venti anni più giovane e la sua frase del tutto inidonea ad incutere timore nel suo interlocutore, uomo di capacità intellettive nella media, privo, a quanto pare, di limitazioni psichiche o fisiche tali da indurlo a ritenere concretamente offensive le parole formulate.

La pronuncia si inserisce, come detto, nel solco di altre decisioni in tema di reato di minaccia ed è diretta ad interpretare il delitto in commento alla luce del principio di offensività. Traendo spunto anche da altre sentenze, relative a delitti complessi che contengono la minaccia come elemento costituivo (es. artt. 336, 629, etc. c.p.), è possibile aggiungere un ulteriore tassello al percorso ermeneutico tratteggiato e ritenere che, oltre alla prospettazione di mali inattuabili, debbano essere estromesse dall'area di operatività dell'art. 612 c.p. anche le prospettazioni di mali generici, indeterminati, vaghi, ecc., che proprio per la loro evanescenza finiscono per scontare una inidoneità intimidatoria in concreto.

Guida all'approfondimento

GATTA, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013;

MANZINI, Trattato di diritto penale italiano, VIII, 1985, pp. 810-813.

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