La dichiarazione fiscale integrativa può essere fraudolenta?

Francesco Rubino
31 Agosto 2017

La vicenda coinvolge il legale rappresentante di un'azienda, il quale, al fine di evadere l'Ires, ha omesso di indicare nel mod. U60 integrativo presentato nel 2009 e successivo alla dichiarazione annuale presentata da altro soggetto nel 2008 (per il periodo di imposta 2007), elementi attivi per un ammontare complessivo pari ad € 1.528.150,00, quali sopravvenienze attive e ha indicato elementi passivi per un importo totale pari ad € 748.037,00, con conseguente superamento delle soglie di ...
Massima

Non risponde del reato di dichiarazione infedele (sia nella formulazione previgente che in seguito alla novella operata dal d.lgs. 158/2015) l'imprenditore che commette la condotta fraudolenta in sede di dichiarazione integrativa. Si tratta infatti di un reato che si consuma solo mediante la presentazione della dichiarazione annuale relativa ad una delle imposte indicate nell'art. 4 d.lgs. 74/2000 e non con eventuali dichiarazioni integrative.

Il caso

La vicenda coinvolge il legale rappresentante di un'azienda, il quale, al fine di evadere l'Ires, ha omesso di indicare nel mod. U60 integrativo presentato nel 2009 e successivo alla dichiarazione annuale presentata da altro soggetto nel 2008 (per il periodo di imposta 2007), elementi attivi per un ammontare complessivo pari ad € 1.528.150,00, quali sopravvenienze attive e ha indicato elementi passivi per un importo totale pari ad € 748.037,00, con conseguente superamento delle soglie di punibilità previste dall'art. 4d.lgs. 74/2000 (nella formulazione previgente alle novelle operate dal d.l. 138/2011 e dal d.lgs. 158/2015) travalicando – solo in sede di dichiarazione integrativa – le soglie di rilevanza penale previste dalla disposizione normativa.

La questione

La questione in esame è se commette il reato di dichiarazione infedele previsto dall'art. 4 d.lgs. 74/2000 l'imprenditore che perpetri la condotta nell'ambito della dichiarazione integrativa oppure se tale reato si consumi esclusivamente con la presentazione della dichiarazione annuale.

Le soluzioni giuridiche

Con sentenza emessa nel gennaio 2016, il Gip presso il tribunale di Pordenone ha dichiarato non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 c.p.p. nei confronti dell'imputato in ordine al delitto di cui all'art. 4 d.lgs. 74/2000 per non essere il fatto più previsto dalla legge come reato. La decisione del Gip si è fondata sulla natura istantanea del reato previsto dall'art. 4 d.lgs. 74/2000, il quale potrebbe considerarsi consumato – a parere del predetto Giudice – solo con la presentazione della dichiarazione annuale infedele, a nulla rilevando l'eventuale successiva presentazione integrativa e, conseguentemente, il possibile superamento in tale sede delle soglie di punibilità previste dalla norma.

Ha proposto ricorso per Cassazione il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Pordenone lamentando la mancata valutazione da parte del giudice della condotta criminosa nel suo complesso, non avendo approfondito il profilo relativo al superamento delle soglie di punibilità in sede di presentazione della dichiarazione integrativa.

La Suprema Corte ha ritenuto infondato il ricorso presentato dalla pubblica accusa, confermando la soluzione giuridica adottata dal Gip – e, quindi, il proscioglimento dell'imputato – ma modificandone la formula terminativa in quanto, essendo carente un elemento costitutivo della fattispecie criminosa, ossia la condotta delittuosa, la causa della definizione assolutoria del giudizio deve essere individuata nell'insussistenza del fatto anziché nella mancata previsione legislativa dello stesso come reato.

Ai fini della decisione, la Corte di cassazione – anche in considerazione della mancata modifica ad opera della novella del 2015 (d.lgs. 158/2015) della fattispecie penale in esame sul punto della natura “annuale” della dichiarazione – ha ripreso un principio già affermato in precedenza (Cass. pen. Sez. III, 3 luglio 2013, n. 40618), il quale, oltre a ribadire che il reato di cui all'art. 4d.lgs. 74 del 2000 è di natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale relativa ad una delle imposte indicate nella norma, ha ulteriormente precisato che «alcuna rilevanza assume, ai fini della integrazione del reato, la successiva dichiarazione integrativa effettuata anni dopo».

Osservazioni

Preliminarmente alle valutazioni che hanno indotto i giudici della Suprema Corte a raggiungere la soluzione giuridica sopra illustrata, occorre spendere alcune parole per evidenziare, sul piano tributario, il valore giuridico della dichiarazione integrativa. L'impianto normativo di cui al d.P.R. 322/1998 e l. 190/2014, prevede l'integrale e automatica sostituzione/integrazione delle parti rettificate in sede di dichiarazione integrativa – se presentata entro i termini previsti per l'accertamento (art. 43 d.P.R. 600/1973) – in luogo di quelle contenute nella dichiarazione annuale.

In particolare, l'art. 2 d.P.R. 322/1998, al comma 8 stabilisce che «[…] le dichiarazioni dei redditi, dell'imposta regionale sulle attività produttive e dei sostituti d'imposta possono essere integrate per correggere errori od omissioni, compresi quelli che abbiano determinato l'indicazione di un maggiore o di un minore imponibile o, comunque, di un maggiore o di un minore debito d'imposta ovvero di un maggiore o di un minore credito, mediante successiva dichiarazione» da presentare entro il termine previsto dalla legge per l'accertamento. La stessa norma prevede poi al comma successivo (8-bis) che «l'eventuale credito derivante dal minor debito o dal maggiore credito risultante dalle dichiarazioni di cui al comma 8 può essere utilizzato in compensazione ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241 […]».

Inoltre, l'art. 1, comma 640,l. 190/2014 dispone che «nelle ipotesi di presentazione di dichiarazione integrativa» per i soli elementi oggetto di integrazione, i termini per l'accertamento decorrono dalla presentazione della dichiarazione integrativa.

Al quadro giuridico-tributario sopra delineato, fa dunque da contraltare un inquadramento penalistico che, come si vedrà a breve, non ritiene di conferire alla dichiarazione integrativa analoga valenza giuridica.

La Suprema Corte ha infatti ritenuto irrilevante, agli effetti della configurabilità del reato di dichiarazione infedele, la presentazione della c.d. dichiarazione integrativa, successiva a quella annuale, anche qualora quest'ultima indichi un fatturato tale da superare le soglie di punibilità previste dalla legge.

L'accezione “annuale” – escludendo qualunque altro tipo di dichiarazione – delimita l'ambito applicativo della fattispecie penale prevista dall'art. 4 d.lgs. 74/2000 sia sotto il profilo della condotta perpetrata, sia con riferimento al momento consumativo del reato.

Quanto al primo profilo occorre osservare che la norma in esame prevede espressamente, tra gli elementi costitutivi del reato di dichiarazione infedele, la condotta materiale della formazione delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto in tutto o in parte non veritiera.

Il riferimento all'annualità – a differenza di altre fattispecie (artt. 2 e 3 d.lgs. 74/2000) – nell'ambito della disposizione in esame resta immutato anche a seguito della recente riforma dei reati tributari (l. 158/2015). La struttura della condotta di reato di cui al nuovo art. 4, infatti, è rimasta inalterata, fatta eccezione per la sostituzione del termine fittizi con l'aggettivo inesistenti.

Il Legislatore del 2015, dunque, non ha modificato l'intelaiatura della norma e ha lasciato l'ambito di rilevanza penale circoscritto alla sola dichiarazione annuale decettiva.

Sul punto, i giudici di legittimità hanno precisato che le dichiarazioni prese in considerazione dall'art. 4 d.lgs. 74/2000 sono solo «la dichiarazione annuale in tema di imposta sul reddito delle persone fisiche e delle persone giuridiche che i soggetti sono obbligati a presentare ai sensi del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 1 e 6, e la dichiarazione annuale relativa all'imposta sul valore aggiunto disciplinata dal d.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 8. Sono escluse invece tutte le altre dichiarazioni fiscali presenti nel nostro ordinamento».

Quanto al momento consumativo, la Suprema Corte afferma che il reato di dichiarazione infedele è un reato istantaneo e, pertanto, si intende perfezionato con la realizzazione in un solo ed unico momento della condotta criminosa, ossia la presentazione della dichiarazione annuale infedele, momento dal quale, peraltro, decorre il dies a quo ai fini del calcolo del termine di prescrizione del reato.

Sul punto, la Corte di Cassazione richiama una precedente pronuncia del 2013 (Cass. pen. Sez. III, n. 40618/2013), che, in una fattispecie analoga alla presente in cui una dichiarazione del 2004 (infedele) era stata rettificata con una dichiarazione integrativa nel 2007, nel ribadire che il reato di cui all'art. 4 d.lgs. 74/2000 è di natura istantanea e si consuma con la presentazione della dichiarazione annuale relativa ad una delle imposte indicate dalla norma, ha ulteriormente precisato che «alcuna rilevanza assume, ai fini della integrazione del reato, la successiva dichiarazione integrativa effettuata anni dopo».

Con riferimento al momento consumativo della fattispecie in esame – individuato dalla Suprema Corte – occorre aggiungere un'ulteriore precisazione: la tipicità del fatto di reato previsto dall'art. 4 d.lgs. 74/2000 è, infatti, circoscritta dalla norma sul piano oggettivo anche attraverso la previsione di due specifiche soglie di punibilità, il cui superamento congiunto comporta la configurabilità della fattispecie delittuosa.

Tali soglie sono elementi costitutivi del reato dal momento che contribuiscono a segnare il confine oltre il quale la condotta – consistente nell'indicazione, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi fittizi – è considerata dal legislatore offensiva del bene giuridico tutelato dall'ordinamento – l'interesse dell'Erario – e meritevole di sanzione penale (cfr. AA.VV., Diritto penale dell'economia - Omnia Trattati giuridici, Milano, 2017, p. 793).

In proposito, come noto, la norma in commento, a seguito della riforma tributaria del 2015, ha subito un'importante modifica, consistente nel significativo innalzamento di entrambe le soglie di punibilità.

In particolare attualmente: a) l'imposta evasa, con riferimento a taluna delle singole voci d'imposta, deve essere superiore a € 150.000 (anziché € 50.000) e b) l'ammontare complessivo dell'imponibile sottratto a tassazione (elementi attivi non indicati, anche mediante l'inserimento di elementi passivi inesistenti – non più fittizi) deve essere superiore al 10% del totale complessivo degli elementi attivi effettivamente indicati o, comunque, a tre milioni di euro (anziché due milioni).

Si tratta di una novità legislativa che si è rivelata estremamente favorevole al contribuente in quanto ha ampliato l'ambito di liceità delle condotte evasive determinando una parziale abolitio criminis ex art. 2, comma 2, c.p. del reato di dichiarazione fraudolenta.

Il reato di dichiarazione infedele è dunque anche un reato di danno che si perfeziona con il realizzarsi della lesione degli interessi dell'Erario. Tale lesione si verifica quando la condotta delittuosa supera il confine oltre il quale il legislatore attribuisce alla stessa rilevanza penale.

Alla luce di quanto esposto, tuttavia, con riferimento al caso a mani, la novella del 2015 si rivela – a giudizio della stessa Corte di cassazione – ininfluente in quanto il superamento delle soglie è avvenuto esclusivamente in sede di dichiarazione integrativa che, come detto, è irrilevante ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 4 d.lgs. 74/2000.

È per tali ragioni che la Suprema Corte, nel confermare la sentenza del Gip, non ritiene di dover prendere in considerazione la questione del superamento delle soglie di punibilità, nonostante, nel caso di specie, l'applicazione di quelle nuove ex art. 2, comma 4, c.p. avrebbe potuto comunque condurre ad una definizione assolutoria in ragione del mancato superamento congiunto delle stesse. Tale profilo, infatti, presuppone la rilevanza penale della dichiarazione integrativa, che nella fattispecie di reato in commento è – come detto – pacificamente da escludersi.

L'unico rilievo che la dichiarazione integrativa potrebbe dunque assumere nell'ambito del giudizio penale è in qualità di circostanza attenuante ex art. 62 n. 6 c.p. nel caso in cui – all'opposto del caso in esame – l'autore del reato, successivamente alla dichiarazione annuale infedele, presenti una dichiarazione integrativa veritiera con la quale rettifichi gli elementi fraudolenti inseriti in quella annuale. Attraverso tale condotta, infatti, il reo, prima del giudizio e fuori dall'ipotesi di recesso attivo prevista dell'art. 56 ult. comma c.p., si adopera «spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato» tramite la realizzazione di un comportamento positivo nei confronti dell'Erario. Si tratta, dunque, di un fattore capace di incidere esclusivamente sulla decisione del giudice con riferimento alla misura della pena da comminare.

Alle luce delle considerazioni sopra svolte, dunque, è derivata la modifica ex art. 619 c.p.p. operata dalla Corte di cassazione in punto di formula terminativa della sentenza di non luogo a procedere impugnata: l'irrilevanza penale della dichiarazione integrativa presentata a distanza di tempo comporta che tale dichiarazione non sia di per sé adatta ad integrare l'elemento oggettivo del reato di cui all'art. 4 d.lgs. 74/2000 e, conseguentemente, che il fatto di reato non sussista.

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