Arresti domiciliariFonte: Cod. Proc. Pen. Articolo 284
25 Agosto 2015
Inquadramento
Gli arresti domiciliari rientrano tra le misure cautelari personali di tipo custodiale e si distinguono dalla custodia in carcere per la minore afflittività – legata al fatto che la restrizione assoluta della libertà di movimento avviene al di fuori di un istituto di pena – e perché presuppongono una certa collaborazione da parte del soggetto sottoposto, non essendo previsto il piantonamento costante del domicilio. Tanto vale a giustificare il motivo per cui, nella scala gradata delle misure cautelari personali, gli arresti domiciliari occupino un gradino più basso rispetto alla carcerazione preventiva e perché, accanto alla generale equiparazione tra le misure custodiali prevista dall'art. 284, comma 5, c.p.p., siano previsti tratti di differenziazione tra la disciplina della custodia in carcere e quella degli arresti domiciliari. Equiparazione e profili di disciplina differenziata rispetto alla custodia in carcere
A norma dell'art. 284, comma 5, c.p.p. “l'imputato agli arresti domiciliari si considera in stato di custodia cautelare”. Da tale opzione normativa la giurisprudenza ha ricavato le seguenti implicazioni:
Passando ai profili di disciplina differenziata, si segnala quanto segue:
I luoghi degli arresti domiciliari
Con l'ordinanza che dispone gli arresti domiciliari, “il giudice prescrive all'imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza ovvero, ove istituita, da una casa famiglia protetta” (art. 284, comma 1, c.p.p.).
La misura degli arresti domiciliari presso luogo di cura o di assistenza o di accoglienza deve essere disposta, a norma dell'art. 275, comma 4-ter, c.p.p., ove la persona sottoposta a custodia cautelare sia affetta da una delle gravi patologie indicate nel comma 4-bis dello stesso art. 275, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza ma l'esecuzione della misura non sia possibile presso idonee strutture sanitarie penitenziarie. In tal caso, l'applicazione degli arresti domiciliari “non comporta come conseguenza necessaria la disposizione del piantonamento del detenuto, restando salva la possibilità per il giudice di prescrivere specifiche modalità di controllo” (Cass. pen., 28 marzo 2003, n. 22441).
Quale disposizione di chiusura per quel che concerne il luogo degli arresti domiciliari, il comma 1-bis dell'art. 284 c.p.p. – aggiunto dall'art. 1, comma 1, lett. a), d.l. 78/2013 – stabilisce che “il giudice dispone il luogo degli arresti domiciliari in modo da assicurare comunque le prioritarie esigenze di tutela della persona offesa dal reato”. La disposizione ha portata generale ma è stata pensata essenzialmente per soddisfare le esigenze di tutela della persona offesa di reati come i maltrattamenti in famiglia o gli atti persecutori, laddove la vicinanza dell'autore delle condotte alla vittima potrebbe agevolare la reiterazione delle stesse o la perpetrazione di delitti più gravi. La limitazione della libertà personale fisiologicamente connessa agli arresti domiciliari può essere resa più gravosa “quando è necessario”, attraverso l'imposizione di “limiti o divieti alla facoltà dell'imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono” (art. 284, comma 2, c.p.p.). La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “è affetto da nullità assoluta a norma degli artt. 178, lett. b), e 179 c.p.p. il provvedimento del giudice che, disponendo l'applicazione della misura degli arresti domiciliari, impone limiti o divieti alla facoltà dell'imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono, in difetto di una conforme richiesta del pubblico ministero”; detta nullità incide, però, solo sulle modalità ultra petita, comportandone la caducazione, senza travolgere, per il resto, la validità ed efficacia della misura (Cass. pen., 27 novembre 2014, n. 53671). Considerato che l'imposizione degli ulteriori limiti e divieti può avvenire solo ove ciò sia necessario, il giudice della cautela è chiamato a fornire specifica motivazione sul punto, in maniera tale da rendere la propria decisione trasparente e controllabile sotto il profilo dell'adeguatezza e della proporzionalità (in argomento, Cass. pen., 15 ottobre 2008, n. 3516). Gli eventuali limiti o divieti devono essere, oltre che motivati, anche delineati in modo chiaro e preciso, poiché, ovviamente, il provvedimento impositivo costituisce anche il metro alla stregua del quale valutare l'eventuale trasgressione delle prescrizioni. Procedure di controllo: il c.d. braccialetto elettronico
Allo scopo di verificare e garantire il rispetto delle prescrizioni inerenti alla cautela, “il pubblico ministero o la polizia giudiziaria, anche di propria iniziativa, possono controllare in ogni momento l'osservanza delle prescrizioni imposte all'imputato” (art. 284, comma 5, c.p.p.). Si tratta di controlli a sorpresa, a carattere necessariamente episodico, che si distinguono dalle procedure di controllo mediante mezzi elettronici od altri strumenti tecnici – il c.d. braccialetto elettronico –, che assicurano un monitoraggio a distanza, senza continuo impiego delle forze dell'ordine (sulle modalità di installazione e di uso dei meccanismi di controllo a distanza, si veda il d.m. 2 febbraio 2001). Dalla sua introduzione – avvenuta per effetto dell'art. 16, d.l. 341/2000, che ha inserito nel codice l'art. 275-bis c.p.p. – la previsione del braccialetto elettronico ha subito una significativa trasformazione. Infatti, a seguito della novella attuata dall'art. 1, comma 1, lett. a), d.l. 146/2013, conv. con modif. nella l. 10/2014, il ricorso a detto strumento è passato da opzione cui ricorrere ove ritenuto necessario in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto – con conseguente onere di motivazione sul punto –, a modalità ordinaria di esecuzione degli arresti domiciliari, che opera salvo che il giudice non ritenga di poter fare a meno del controllo a distanza in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari del caso concreto (in questo senso, Cass. pen., 20 gennaio 2015, n. 6505, ove si precisa che, per disporre l'adozione del braccialetto elettronico, il giudice non è tenuto ad alcun onere di motivazione aggiuntiva rispetto a quella che sostiene la scelta della misura degli arresti domiciliari). Da tale assunto si desume anche che l'applicazione del braccialetto elettronico non presuppone espressa richiesta da parte del pubblico ministero, essendo implicita nella richiesta di arresti domiciliari. È evidente l'intento di incentivare, tra le misure custodiali, l'opzione per gli arresti domiciliari rispetto al carcere, in un'ottica sia di piena attuazione del principio di extrema ratio della carcerazione preventiva sia di deflazione della popolazione carceraria. Muove in questa direzione anche il comma 3-bis dell'art. 275 c.p.p. – introdotto dall'art. 4 della l. 47/2015 –, che impone al giudice di indicare, nel disporre la custodia in carcere, “le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari con le procedure di controllo di cui all'art. 275-bis, comma 1”. L'attivazione del braccialetto elettronico presuppone la disponibilità dello strumento da parte della polizia giudiziaria ed il consenso espresso – quindi non implicito – dell'imputato/indagato; il giudice, con lo stesso provvedimento, prevede l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere qualora l'imputato neghi il consenso all'adozione del suddetto braccialetto (art. 275-bis, commi 1 e 2, c.p.p.). Il soggetto che abbia accettato l'applicazione del braccialetto elettronico è, poi, tenuto ad agevolare le procedure di installazione e ad osservare le altre prescrizioni impostegli (art. 275-bis, comma 3, c.p.p.). Per rafforzare il rispetto delle particolari modalità di controllo previste dall'art. 275-bis c.p.p., è stata introdotta una specifica fattispecie di reato, che punisce con la reclusione da uno a tre anni “il condannato o la persona sottoposta a misura cautelare che, al fine di sottrarsi ai controlli prescritti, in qualsiasi modo altera il funzionamento dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici adottati nei suoi confronti, o comunque si sottrae fraudolentemente alla loro applicazione o al loro funzionamento” (art. 18, d.l. 341/2000).
Ai sensi dell'art. 284, comma 3, c.p.p., il giudice può autorizzare l'indagato/imputato sottoposto agli arresti domiciliari ad assentarsi per provvedere alle sue “indispensabili esigenze di vita”, quando questi non possa provvedere altrimenti, ovvero per esercitare un'attività lavorativa, quando versi in una situazione di “assoluta indigenza”. Dal testo normativo, dai lavori preparatori e dalla qualificazione dei presupposti autorizzativi in termini di “indispensabilità” e di “assolutezza”, emerge che la valutazione del giudice nel decidere se concedere l'autorizzazione richiesta deve essere improntata a criteri di particolare rigore, di cui deve essere dato conto nella motivazione del relativo provvedimento (cfr., tra le altre, Cass. pen., 17 novembre 1999, n. 3649). Inoltre, l'eventuale autorizzazione non deve vanificare le ragioni della cautela (cfr. Cass. pen., 17 febbraio 2015, n. 9004). Sempre in tema di autorizzazioni ad allontanarsi dal luogo di arresto, si segnala che, a norma dell'art. 22 disp. att. c.p.p., quando una persona in stato di arresto o detenzione domiciliare deve comparire per ragioni di giustizia davanti all'autorità giudiziaria, il giudice competente a norma dell'art. 279 c.p.p. ovvero il magistrato di sorveglianza del luogo dove si svolge la detenzione autorizza – con le opportune prescrizioni – l'allontanamento dal luogo di arresto o di detenzione per il tempo strettamente necessario, salvo che non ritenga di dover disporre l'accompagnamento o la traduzione per salvaguardare comprovate esigenze processuali o di sicurezza. Chiaro l'obiettivo della disposizione di evitare di impegnare le forze di polizia in attività di accompagnamento o traduzione non strettamente necessarie. Stessa ratio è sottesa all'art. 97-bis, disp. att. c.p.p. – come sostituito dall'art. 4, d.l. 92/2014 –, a norma del quale, a seguito del provvedimento di sostituzione della custodia cautelare in carcere con la misura degli arresti domiciliari, l'imputato raggiunge il luogo di esecuzione della misura senza accompagnamento, a meno che, in caso di ritenute specifiche esigenze processuali o di altre esigenze di sicurezza pubblica, il giudice non disponga che l'imputato venga accompagnato dalle forze di polizia presso il luogo di esecuzione degli arresti domiciliari. Il divieto di concessione degli arresti domiciliari
Ai sensi dell'art. 284, comma 5-bis, c.p.p., è preclusa la concessione degli arresti domiciliari “a chi sia stato condannato per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per il quale si procede, salvo che il giudice ritenga, sulla base di specifici elementi, che il fatto sia di lieve entità e che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con tale misura”. Prima che la recente l. 47/2015 intervenisse sul testo del citato comma 5-bis dell'art. 284 c.p.p., la giurisprudenza attribuiva al predetto divieto carattere assoluto e lo intendeva riferito a qualsivoglia misura cautelare meno afflittiva della custodia carceraria (Cass. pen., 4 luglio 2013, n. 31434). A seguito della novella che ha tramutato il divieto da assoluto in relativo, lo stesso ufficio del massimario della Corte di cassazione ha auspicato un ripensamento dell'indirizzo giurisprudenziale che, nel divieto di concessione degli arresti domiciliari sancito dal comma 5-bis dell'art. 284, ritiene implicitamente compreso anche quello di applicare misure ulteriormente gradate ed ha suggerito che – in relazione ai fatti di lieve entità, per dare attuazione ai principi di adeguatezza delle misure cautelari e del carcere come extrema ratio – si riconosca la possibilità di fare ricorso anche a misure meno afflittive. La recente modifica del comma 5-bis dell'art. 284 c.p.p. muove nella stessa direzione di quella che ha interessato il comma 1-ter dell'art. 276 c.p.p. sempre ad opera della l. 47/2015. Ed infatti, a seguito della novella, in caso di trasgressione alle prescrizioni degli arresti domiciliari concernenti il divieto di allontanarsi dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora, la regola resta quella della revoca degli arresti domiciliari e loro sostituzione con la custodia cautelare in carcere, ma è stata introdotta una clausola di riserva (“salvo che il fatto sia di lieve entità”). Di conseguenza, in caso di trasgressione delle predette prescrizioni, non opera più l'automatismo introdotto dall'art. 16, comma 3, d.l. 341/2000, perché il giudice è chiamato a valutare l'eventuale lieve entità del fatto e, ove la ravvisi, non sarà tenuto a disporre il carcere, con sostanziale riallineamento alla previsione del comma 1 dello stesso art. 276 c.p.p. A quest'ultimo proposito, è stato evidenziato che i due citati commi dell'art. 276 c.p.p. sono, comunque, diversamente strutturati, perché il comma 1 richiede al giudice di tenere conto “dell'entità, dei motivi e delle circostanze della violazione”, mentre la clausola di riserva del comma 1-ter considera la sola “entità” del fatto. Tuttavia, la differenza è forse più apparente che reale, perché – a parere di chi scrive – il riferimento alla entità del “fatto” piuttosto che della trasgressione apre ad una valutazione complessiva della vicenda, nell'ambito della quale hanno rilevanza anche i motivi e le circostanze della violazione. |