Delitto tentatoFonte: Cod. Pen Articolo 56
13 Gennaio 2017
Inquadramento
La fattispecie del delitto tentato, disciplinata dall'art. 56 c.p., si iscrive tra le forme di manifestazione del reato, caratterizzandosi per la mancata produzione dell'evento – soggettivamente voluto dall'agente – all'esito della realizzazione della condotta tipica, ovvero di parte di essa. La funzione politico-criminale della disposizione, dunque, è quella di estendere la responsabilità penale anche a chi tenta, senza riuscirvi, di commettere un delitto. Sotto questo aspetto, dunque, attraverso la tipizzazione autonoma del delitto tentato, si mira a prevenire anche la mera esposizione a pericolo di beni giuridicamente protetti. Dal punto di vista tecnico-giuridico, la nozione delitto tentato si presenta immediatamente connessa a quella di consumazione del reato, secondo una logica di esclusione. Se per aversi reato consumato è necessaria la sussistenza di tutti gli elementi del fatto tipico, ivi compreso l'evento, il delitto tentato, all'opposto, si potrà configurare solo in difetto del momento consumativo. Secondo una concettualizzazione generalmente accolta da dottrina e giurisprudenza, il reato si presenta come un fenomeno diacronico, scandito da fasi ben distinte ma non tutte idonee a giustificare la repressione penale. I momenti che connotano l'iter criminis sono: a) ideazione; b) preparazione; c) esecuzione; d) consumazione. La fase dell'ideazione assorbe il periodo che precede la risoluzione ad agire. È dunque una fase tutta interna alla psiche del soggetto, che matura il convincimento di commettere un reato ma ancora non palesa all'esterno, attraverso atti tangibili, la propria intenzione. La preparazione, invece, è un passaggio meramente eventuale, che di solito accompagna fenomeni criminosi particolarmente articolati. In questa fase, il soggetto si limita a predisporre quanto gli risulterà necessario per commettere il reato. Anche in questa, però, mancano atti sintomatici della prossima commissione dell'illecito penale. Si ha invece esecuzione allorché è possibile verificare oggettivamente l'inizio di un decorso causale che condurrà alla integrazione dell'offesa tipica. In ultimo, la consumazione, che rappresenta il momento di produzione dell'offesa tipica. L'utilità di simile partizione è immediatamente percepibile ove si consideri che non è affatto semplice stabilire il momento di inizio dell'attività punibile. Certamente non punibile è la fase dell'ideazione. In un ordinamento orientato ad un diritto penale del fatto, tutto ciò che resta confinato nella sfera delle elaborazioni psichiche dell'essere umano non può essere preso in considerazione ai fini della repressione penale (secondo l'antico brocardo cogitationis poenam nemo patitur). Principio, peraltro, espressamente codificato al comma 1 dell'art. 115 c.p. Maggiori i dubbi che invece assistono la successiva fase della preparazione (v. infra). Atti preparatori ed atti esecutivi
Sotto la vigenza del codice Zanardelli il Legislatore, consapevole della difficoltà di segnare un confine preciso nell'individuazione dell'inizio dell'attività punibile, preferì accogliere la dicotomia atti preparatori (non punibili)/atti esecutivi (punibili). La punibilità, dunque, accompagnava solo l'effettivo “cominciamento dell'esecuzione”. Come tutte le alternative nette però, anche quella tra atti preparatori ed atti esecutivi andò incontro all'incapacità di descrivere definitivamente tutte le possibili sfumature dell'esperienza, che al contrario rivelò presto l'enorme difficoltà di individuazione dell'inizio di esecuzione del delitto. Secondo esemplificazioni ben note, in un omicidio commesso mediante esplosione di colpi d'arma da fuoco, l'inizio dell'esecuzione va fissato nel momento in cui si preme il grilletto, o in quello precedente in cui si punta l'arma? Nella consapevolezza di simili incertezze – e sulla scia di un fallito attentato all'allora capo del Governo – i compilatori del codice fascista (anche al fine di arretrare la soglia di rilevanza penale degli atti) preferirono ancorare la punibilità del tentativo a parametri più fluidi e non preventivamente riconducibili all'alternativa atti preparatori/atti esecutivi. Fu così che, anche mutuando intuizioni della giurisprudenza dell'epoca ed attingendo all'insegnamento del Carrara, nell'attuale art. 56 c.p. si decise di far coincidere la punibilità con il compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco alla realizzazione di un delitto. Secondo autorevole dottrina (PETROCELLI, Il delitto tentato, Napoli, 1955.), gli atti che – al minimo – presentano simili caratteristiche (e che dunque possono essere considerati pienamente punibili), sono gli atti di messa in opera dei mezzi, da individuarsi di volta in volta in ragione della fattispecie delittuosa che viene in rilievo. Questo insegnamento ha certamente dato la stura alla corretta interpretazione del concetto di univocità degli atti, oggi suggellata dalla Corte costituzionale (sent. 177/1980), secondo cui solo gli atti esecutivi possono essere diretti in modo non equivoco, poiché solo dall'inizio dell'esecuzione di una fattispecie delittuosa può dedursi la direzione univoca dell'atto stesso a provocare proprio il risultato criminoso voluto dall'agente. La distinzione tra atti preparatori ed esecutivi, sebbene ancora cara alla dottrina – che non manca di segnalarne l'importanza teorica e l'utilità pratica – risulta oggi definitivamente abbandonata dalla giurisprudenza, che nell'ultimo decennio ha assunto un atteggiamento rigoristico quanto alla rilevanza degli atti preparatori: «Per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo. (Fattispecie relativa a tentativo di rapina ad un furgone portavalori, con riferimento alla quale la S.C. ha ritenuto che erroneamente il tribunale del riesame, in riforma dell'ordinanza coercitiva, avesse escluso l'univocità degli atti solo per la non imminenza dell'assalto, senza tener conto degli altri indici utilizzabili per stabilire se l'azione avesse una significativa probabilità di essere portata a compimento, tra cui l'individuazione dell'obiettivo, la progettazione dell'azione nei minimi particolari, la progressione nell'organizzazione - con l'approvvigionamento di una pala gommata, di armi e di maschere per i volti - nonostante la certezza del monitoraggio delle forze dell'ordine, nonché la scelta di un'idonea strada con curve a gomito per l'agguato)» (Cass. pen., Sez. II, n. 24302/2017). La posizione della giurisprudenza non manca di suscitare perplessità, anche in considerazione dell'espresso riferimento all'inizio di attuazione del piano criminoso e, soprattutto, della necessaria programmazione dell'obiettivo, che deve emergere dagli stessi atti compiuti. La struttura della fattispecie
Secondo il primo comma dell'art. 56 c.p. chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato se l'azione non si compie o l'evento non si verifica. La formulazione legislativa consente di trarre immediatamente alcune conclusioni di carattere definitivo. L'art. 56 c.p. – anche in forza della sua collocazione sistematica – si pone quale norma a carattere generale: come anche si dice, costituisce una clausola di estensione della tipicità, dal momento che dalla sua combinazione con la singola fattispecie di delitto verrà alla luce una nuova ed autonoma figura criminosa. Sarà compito dell'interprete verificarne la compatibilità con le singole disposizioni incriminatrici di parte speciale. La punibilità del tentativo, poi, è limitata ai soli delitti dolosi. Ed invero, non solo l'art. 56 c.p. è rubricato proprio delitto tentato ma nel suo tessuto non compare alcun riferimento all'imputazione colposa (arg. ex art. 42, comma 2, c.p.), oltre a presentare requisiti di tipicità (gli atti devono essere diretti a commettere il delitto) per definizione incompatibili con il reato colposo. Il delitto tentato costituisce l'archetipo del reato di pericolo concreto poiché implica la mancata realizzazione dell'evento di danno, ma impone al giudice l'accertamento dell'effettiva esposizione a pericolo del bene protetto. Il tenore letterale dell'art. 56 c.p. consente anche di emarginare due distinte ipotesi di delitto tentato: la prima è quella nella quale l'azione non si compie – che consiste appunto nella realizzazione solo parziale della condotta tipica – e che viene comunemente definita tentativo imperfetto (o incompiuto) ovvero anche delitto tentato; nella seconda, invece, l'azione si compie per intero ma l'evento non si verifica. Questa individua il c.d. tentativo perfetto, o delitto mancato. Fatte queste precisazioni preliminari, non sfugge come l'intera tipicità della fattispecie del delitto tentato ruoti attorno ai requisiti dell'idoneità e dell'univocità degli atti, sui quali ci si soffermerà analiticamente, unitamente alla disamina dell'elemento soggettivo richiesto. Il primo requisito che si incontra nella lettura dell'art. 56 c.p. è quello del compimento di atti idonei a commettere un delitto. Il concetto di idoneità rimanda certamente ad un giudizio di carattere oggettivo, che però – come oggi pacificamente ammesso – non può risolversi automaticamente in quello di efficienza causale. Ed invero – come ormai dimostrato dagli approdi della giurisprudenza delle Sezioni unite in tema di causalità – solo il giudizio causale “pieno” (che caratterizza cioè i reati causalmente orientati con evento di danno) va condotto secondo una valutazione ex post factum. Mutuando tale regola nel giudizio di idoneità, si finirebbe per addivenire all'assurdo secondo cui gli atti sono sempre non idonei perché, ove giudicati ex post, per definizione non devono avere realizzato l'evento. Al contrario, il delitto tentato, configurando un'ipotesi di reato di pericolo, segue l'ordinaria regola di accertamento della prognosi postuma (o dell'id quod plerumque accidit). Allo stesso tempo, tale giudizio va effettuato in concreto: il giudice, collocandosi idealmente al momento in cui l'agente ha dato inizio all'attività criminosa, dovrà stabilire, secondo l'ordinaria esperienza, se il compimento di quegli atti era sufficiente, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, concludersi nella commissione del delitto.
Si tratta, dunque, di un giudizio di verosimiglianza e non già di efficienza causale. Come tale, però, il giudizio di verosimiglianza è a sua volta graduabile, potendosi muovere dalla mera non impossibilità fino alla probabilità piena del verificarsi dell'evento. Il nodo è certamente foriero di incertezza. Ecco perché, a questo scopo, va affrontato anche il profilo della base del giudizio di idoneità. Ci si deve chiedere, in altre parole, se il giudice potrà utilizzare, nel formulare la prognosi, le sole circostanze note all'agente modello, o comunque conoscibili, al momento della realizzazione degli atti (prognosi a base parziale), ovvero anche quelle ignote ma comunque esistenti (prognosi a base totale). La dottrina maggioritaria è orientata a preferire la tesi della prognosi a base parziale, grazie alla quale si evita che il reo benefici dell'impunità per effetto di circostanze ignote che fanno venire meno la capacità offensiva della condotta. Di diverso avviso una corrente minoritaria ma autorevole (FIANDACA – MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2011, p. 461) secondo la quale la prognosi di pericolosità dovrebbe prendere in considerazione tutte le circostanze esistenti al momento dell'azione, anche se conosciute dal reo successivamente ad essa, che rientrano nella sfera di conoscenza della vittima. Simile conclusione appare coerente con la natura oggettiva del giudizio di idoneità degli atti, che non può essere inficiata dalla predisposizione soggettiva del soggetto alla commissione del reato. Allo stesso tempo, essa consente di tracciare un parallelo coerente tra l'art. 56 c.p. e l'art. 49, comma 2, c.p. A tale ultimo riguardo, la Cassazione ha consolidato un orientamento in base al quale «In tema di tentativo, l'idoneità degli atti non va valutata con riferimento ad un criterio probabilistico di realizzazione dell'intento delittuoso, bensì in relazione alla possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si propone, configurandosi invece un reato impossibile per inidoneità degli atti, ai sensi dell'art. 49 c.p., in presenza di un'inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato che sia assoluta e indipendente da cause estranee ed estrinseche, di modo che l'azione, valutata "ex ante" e in relazione alla sua realizzazione secondo quanto originariamente voluto dall'agente, risulti del tutto priva della capacità di attuare il proposito criminoso» (Cass. pen., Sez. I, n. 36726/2015).
Anche il requisito dell'univocità degli atti esprime un elemento della fattispecie oggettiva del delitto tentato e come tale va accertato a prescindere dall'intenzione criminosa del soggetto. Come giustamente posto in rilievo dalla dottrina, il requisito dell'univocità è fondamentale nell'individuazione dell'inizio dell'attività punibile, dal momento che gli atti devono rivelare che l'agente ha iniziato a commettere un determinato delitto (Marinucci – Dolcini, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2004, p. 253). Declinato esclusivamente in chiave oggettiva, il vincolo di univocità degli atti non può in alcun modo degradare a mero indicatore probatorio della volontà criminale dell'agente, come vorrebbe una remota ed oggi superata corrente interpretativa. Detto altrimenti, gli atti possono considerarsi univoci perchè si è rinvenuta aliunde (ad es. attraverso una confessione) la prova dell'intenzione criminosa. L'univocità, dunque, deve consentire di anti vedere, negli atti commessi, la fattispecie delittuosa verso la quale vi era stata risoluzione ad agire
Come già accennato in precedenza, la fattispecie di delitto tentato, sul piano dell'elemento soggettivo, è compatibile esclusivamente con l'imputazione dolosa. Vi è generale accordo nel ritenere che il dolo del tentativo debba essere in tutto e per tutto conforme con il dolo del reato consumato. Secondo taluni autori, l'unica significativa differenza risiede nel fatto che l'accertamento del dolo debba precedere e non seguire quello sulla fattispecie oggettiva, atteso che il fine perseguito dall'agente costituirebbe un indicatore preliminare nel giudizio sull'idoneità e l'univocità degli atti (C. FIORE – S. FIORE, Diritto penale. Parte generale, Torino, 2015, p. 532). L'equiparazione tra dolo del tentativo e dolo del reato consumato fa sorgere profondi dubbi interpretativi sulla compatibilità tra delitto tentato e forme di dolo, in particolare circa il dolo alternativo e il dolo eventuale (vedi ALBERICO, Delitto tentato: compatibilità con il dolo alternativo e con il dolo eventuale).
Tentativo e circostanze
Non sono pochi i problemi di compatibilità tra la fattispecie di delitto tentato e le circostanze. Il primo che si è posto è quello della compatibilità delle circostanze speciali – come tali previste per la sola ipotesi di delitto consumato – con l'autonoma figura criminosa scolpita dall'art. 56 c.p. In linea di principio, il dubbio si risolve positivamente ogni qualvolta la circostanza attiene alla condotta e non presuppone il verificarsi dell'evento. Questa stessa linea di demarcazione si rivela utile anche nella soluzione di altro problema afferente la compatibilità tra tentativo e circostanze materialmente non concretizzatesi. All'uopo soccorre la tradizionale distinzione tra tentativo circostanziato di delitto e tentativo di delitto circostanziato. Nel primo caso, la circostanza si riferisce certamente alla componente del delitto effettivamente realizzata; nel secondo, invece, la circostanza attiene all'evento, per definizione non realizzatosi. Il che, secondo la dottrina, dovrebbe escludere la configurabilità del tentativo di delitto circostanziato. La giurisprudenza, di contro, adotta un criterio del tutto particolare in base al quale la circostanza che dovrebbe cadere sull'evento è applicabile al delitto tentato se è certo che la stessa si sarebbe verificata ove si fosse verificato l'evento. È il caso dell'aggravante dell'ingente quantità nel delitto di traffico di sostanze stupefacenti: «la circostanza aggravante della ingente quantità, prevista dall'art. 80, comma 2, d.P.R. 309 del 1990, è configurabile anche nell'ipotesi del delitto tentato, quando sia possibile desumere con certezza dalle modalità del fatto e in base ad un preciso giudizio ipotetico, che, se il reato fosse stato portato a compimento, la condotta tipica avrebbe riguardato un quantitativo ingente di droga» (Cass. pen., Sez. III, n. 6021/2016). Discorso analogo per l'ingente quantità del danno nei reati contro il patrimonio (Cass. pen., Sez. un., n. 28243/2013). La dottrina denuncia – in maniera condivisibile – una vera e propria lesione del principio di legalità, segnalando come si finisce per applicare una circostanza che nella realtà non si è mai verificata. La desistenza volontaria
L'art. 56, comma 3, c.p. detta una disciplina specifica nel caso in cui il colpevole volontariamente desista dal proseguire o portare a compimento l'azione criminosa. In tale caso, infatti, egli risponderà solo degli atti compiuti, ove autonomamente questi costituiscano reato. Quanto al fondamento politico-criminale di tale ipotesi di non punibilità del tentativo, tradizionalmente si usava evocare la c.d. teoria del ponte d'oro, secondo la quale l'ordinamento offrirebbe fino all'ultimo momento utile all'agente la possibilità di neutralizzare la spinta criminosa, garantendone in cambio l'impunità. Secondo altra prospettiva, la non punibilità sarebbe invece collegata alla valorizzazione in chiave di prevenzione speciale della controspinta manifestata dall'agente verso il rispetto delle regole: un simile individuo, in altre parole, non denoterebbe la necessità di alcuna sanzione per essere rieducato, essendo stato capace da solo di interrompere la condotta criminosa in tempo utile a scongiurare anche solo il pericolo di lesione per il bene protetto. Si obietta, però, che in questo modo il giudice dovrebbe riconoscere una vera e propria spontaneità – intesa quale assenza di condizionamenti esterni – nella desistenza, requisito estraneo al dato normativo. Alla luce di questa critica, risulta imprescindibile comprendere quali requisiti debba possedere una desistenza per essere considerata volontaria. L'accertamento della volontarietà, si sostiene, prescinde dalla meritevolezza dei motivi che giustificano l'interruzione dell'azione. Si pretende, comunque, che la decisione non sia imposta dal sopravvenire di circostanze esterne (ad es., l'intervento delle forze dell'ordine, resistenza della vittima ecc.). In ogni caso, grava su chi la deduce l'onere di provare che l'interruzione dell'azione criminosa dipende dalla determinazione volitiva dell'agente e non da fattori esterni che impediscono la prosecuzione dell'azione medesima (Cass. pen., Sez. I, n. 48418/2017).
La struttura della desistenza impone di verificarne la compatibilità con le diverse tipologie di fattispecie incriminatrici. In linea di principio, «nei reati di danno a forma libera, è configurabile la desistenza volontaria solo nella fase del tentativo incompiuto, ossia fino a quando non siano stati posti in essere gli atti da cui origina il processo causale idoneo a produrre l'evento» (Cass. pen., Sez. V, n. 50079/2017). Una menzione a sé merita la configurabilità della desistenza nei reati omissivi e nell'ipotesi di concorso di persone nel reato. Si è detto che nei reati commissivi la desistenza deve intervenire in itinere, cioè nel corso di un'intrapresa criminosa già iniziata, che va dunque arrestata. Nei reati omissivi, di contro, è necessario l'utile compimento dell'azione inizialmente omessa e dovuta. Si faccia il tradizionale caso della madre che decida di uccidere figlio neonato privandolo della nutrizione. Per aversi desistenza sarà necessario che costei riprenda l'allattamento in un momento utile a scongiurare l'evento infausto. Quanto alla desistenza da parte di uno solo dei concorrenti nella fattispecie plurisoggettiva, ci si chiede questa, per essere tale, debba anche impedire la realizzazione dell'azione collettiva. Ci si chiede, in altri termini, se il mancato apporto da parte di uno solo dei concorrenti debba anche essere tale da impedire che gli altri proseguano nel comune progetto criminoso. In effetti, il problema non si pone nel caso in cui a desistere sia l'esecutore materiale. In una simile evenienza, va da sé che si arresterebbe la stessa realizzazione del fatto di reato. Quando, invece, la desistenza è spiegata da un mero partecipe, la giurisprudenza e la dottrina maggioritaria affermano che In tema di tentativo il concorrente nel reato plurisoggettivo, per beneficiare della desistenza volontaria, non può limitarsi ad interrompere la propria azione criminosa, occorrendo, invece, un quid pluris consistente nell'annullamento del contributo dato alla realizzazione collettiva e nella eliminazione delle conseguenze dell'azione che fino a quel momento si sono prodotte (da ultimo, Cass. pen., Sez. I, n. 9284/2014). Il concorrente che desiste, in altre parole, dovrebbe neutralizzare il contributo causale che la sua azione avrebbe dovuto arrecare alla comune condotta. La tesi non è esente da critiche, poiché introduce un requisito di fattispecie non previsto dalla norma. Nella fattispecie plurisoggettiva, infatti, il partecipe desiste dal concorrere nel reato e, dunque, desiste dalla partecipazione ad un tentativo di delitto da commettere con altri. Non può chiedersi a costui di interrompere anche l'azione altrui: la volontarietà della desistenza dovrebbe rendere sufficiente che egli interrompa il proprio contributo alla comune intrapresa. Il recesso attivo
L'art. 56, comma 4, c.p. delinea una circostanza attenuante ad effetto speciale, propria alla sola fattispecie di delitto tentato, nel caso in cui il colpevole riesca ad impedire l'evento. Per comprende la differenza tra desistenza e recesso è utile ricordare la differenza tra delitto tentato e delitto mancato. Si era rilevato, in quella sede, che il delitto tentato ricorre quando l'azione non si compie, mentre il delitto mancato si connota per la sola mancata verificazione dell'evento, comportando dunque l'esaurimento dell'iter criminis. Ebbene, utilizzando questa dicotomia, può concludersi che la desistenza intervenga in presenza di un delitto tentato, caratterizzandosi per il mancato completamento dell'iter criminis, mentre il recesso postuli la necessità che sia intervenuta anche la fase della consumazione,ma che l'agente sia riuscito ad impedire il verificarsi dell'evento. Anche la giurisprudenza si allinea su questa posizione: In tema di reati di danno a forma libera (nella specie, omicidio), la desistenza può aver luogo solo nella fase del tentativo incompiuto e non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l'evento, rispetto ai quali può, al più, operare la diminuente per il cosiddetto recesso attivo, qualora il soggetto tenga una condotta attiva che valga a scongiurare l'evento (Cass. pen., Sez. I, n. 11746/2012). Sul piano politico-criminale, il recesso segnala una risoluzione del colpevole alla tutela del bene protetto. Si tratta dunque di un ritorno ai valori dell'ordinamento, in una fase in cui, però, si è già determinato pericolo per il bene medesimo. Anche il recesso, dunque, deve essere assistito dal requisito della volontarietà. Su questa base, un recente arresto di legittimità ha negato la sussistenza del recesso nella condotta di chi, dopo aver procurato gravi ferite ad una persona, si è limitato a segnalare a terzi che l'aggredito versava in critiche condizioni di salute, rilevando che tale comportamento fosse riconducibile all'intento opportunistico di distogliere da sé i sospetti sulla responsabilità dell'evento e non al fine di evitare la morte della vittima (Cass. pen., Sez. VII, ord. n. 22817/2014). Il recesso va distinto anche dalla circostanza attenuante comune di cui all'art. 62, n. 6 c.p., comunemente definita del ravvedimento operoso. La differenza tra le due ipotesi risiede nella necessità, ai fini dell'applicazione della figura generale, che si sia verificato anche l'evento. L'art. 62, n.6 c.p., in altre parole, postula la piena consumazione del reato, come esplicitamente segnala la clausola di salvaguardia fuori dal caso preveduto dall'art. 56 c.p. Anche sul punto si registra la piena convergenza della giurisprudenza di legittimità: La diminuente del cosiddetto recesso attivo nel delitto tentato postula che l'agente si riattivi, interrompendo il processo di causazione dell'evento, così da impedirne il verificarsi, mentre la circostanza attenuante del ravvedimento attivo presuppone che l'evento si sia già realizzato e che l'agente si adoperi spontaneamente ed efficacemente per attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato (Cass. pen., Sez. I, n. 40936/2009). Casistica
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