Il divieto di patto leonino e le clausole put a prezzo predefinito

Bianca Caruso
15 Marzo 2017

Le clausole put contenute nello statuto sociale ovvero in accordi parasociali possono possono talvolta comportare effetto analogo a quello oggetto del divieto di cui all'art. 2265 c.c. (c.d. divieto di patto leonino). Dopo una generica analisi del divieto di patto leonino, l'Autore si propone di esaminare i presupposti, elaborati a livello dottrinale e giurisprudenziale, per l'applicazione dello stesso a tale tipologia di clausole.
La ratio e l'ambito di applicazione del divieto di patto leonino: una sintetica ricostruzione

È ormai unanimemente riconosciuto che la società o i soci possano determinare liberamente i tempi, le modalità e le proporzioni della partecipazione agli utili o perdite, con l'unico limite del divieto di patto leonino. L'art. 2265 c.c. sancisce, infatti, la nullità dei patti con cui uno o più soci risultino esclusi dalla partecipazione agli utili o alle perdite: ciò che la norma pone come limite invalicabile all'autonomia statutaria è l'esclusione assoluta e incondizionata, in capo a uno o più soci, dei rischi delle perdite e del diritto agli utili, consentendo invece una limitazione o gradazione dei diritti patrimoniali delle azioni.

Quanto alla ratio del divieto venivano in passato ravvisate dalla dottrina logiche differenti con riguardo, rispettivamente, all'esclusione dagli utili ed esonero dalle perdite (in tal senso, tra gli altri, Sraffa, Patto leonino e nullità del contratto sociale, in Riv. dir. comm., 1915, I, 956 ss.; Greco, Garanzie di utili e retribuzioni di apporti nel contratto di società, in Riv. dir. comm., 1932, II, 138 ss.; Soprano, Trattato teorico-pratico delle società commerciali, Torino, 1934, I, 282; Gasperoni, Convenzione di esonero dalle perdite e titoli azionari, in Dir. e prat. comm., 1940, II, 168 ss.; Lordi, Patto leonino: garanzia dei soci che esonerano un altro socio dalle perdite, in Riv. dir. comm., 1940, II, 305 ss.; Graziani, Patto leonino e contratto di garanzia, in Giur. comp. dir. comm., VI, 1941, 120 ss.).

In particolare, il divieto di esclusione di un socio dagli utili trovava la sua ragione nella causa del contratto di società, di cui costituiva mera esplicitazione: l'esclusione di un socio tout court dagli utili, infatti, sarebbe risultata incompatibile l'esercizio in comune di un'attività economica allo scopo di dividerne gli utili (invero, la causa tipica del contratto di società sancita all'art. 2247 c.c.). Quanto alla nullità dell'esonero dalla partecipazione alle perdite, invece, questa avrebbe dovuto ricondursi a una logica antiusuraria o antisopraffattoria: seppur non incompatibile con la causa della società, infatti, una simile previsione avrebbe alterato in maniera negativa e “prevaricatoria” gli equilibri tra i soci a scapito del socio più debole.

La duplicità di ratio non era priva di conseguenze pratiche: da un lato, la totale esclusione dalla percezione degli utili avrebbe comportato una declaratoria di nullità per mancanza della causa; dall'altro lato, invece, l'esonero dalle perdite avrebbe portato ad affermare la nullità per illiceità della causa, con le differenze di disciplina che ne sarebbero conseguite (cfr. in tal senso Sraffa, Patto leonino e nullità del contratto sociale, cit., 957, il cui pensiero è stato poi ripreso da G. Piazza, La causa mista credito-società, in Contr. e impr., 1988, 806).

Questa risalente ricostruzione della norma è stata superata con l'entrata in vigore del codice civile del 1942, quando ha preso piede un'interpretazione unitaria dell'istituto (cfr. Simonetto, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società, Padova, 1959, 130 ss., secondo cui la ratio di tale divieto andrebbe ricercata in ragioni di politica economica. Si vedano anche Abbadessa, Le disposizioni generali sulle società, in Trattato Rescigno, 16, Torino, 1985, 34; Spada, La tipicità delle società, Padova, 1974, 467; Gambino, Azioni privilegiate e partecipazioni alle perdite, in Giur. comm., 1979, I, 379; Ferrara-Corsi, Gli imprenditori e le società, Milano, 1987, 250; Cottino, Diritto commerciale, I, 2, Padova, 1999, 145; Abriani, Il divieto di patto leonino, Milano, 1994, 41 ss.).

Secondo la nuova impostazione, entrambe le declinazioni del divieto sarebbero riconducibili al fenomeno societario e risponderebbero alla medesima ratio di rendere tutti i soci partecipi del rischio insito nello svolgimento dell'attività d'impresa e nella stessa nozione di società.

Inoltre, il divieto di esonero dalle perdite, così come quello di esclusione dagli utili, risponderebbe alla necessità di garantire un esercizio avveduto e corretto da parte dei soci dei loro poteri (lato sensu) gestori: secondo tale impostazione – i cui concetti di base sono mutuati dall'analisi economica del diritto – la possibilità di perdere l'investimento effettuato, rappresentato dal valore economico del proprio conferimento, costituirebbe efficace deterrente dalla conclusione di operazioni eccessivamente rischiose o aleatorie, nonché un incentivo a prodigarsi per il favorevole esito dell'attività d'impresa (per una ricostruzione della ratio della norma, si veda Minervini – Cuffaro - Giorgianni, Un lodo sul patto leonino nelle società di capitali, in Contr. e impr., 2000, 2, 959 ss., ove si legge: «L'esigenza di un corretto esercizio del potere di gestione del socio verrebbe invero compromessa dall'esclusione del socio dalle perdite, perché questa situazione lo indurrebbe a privilegiare affari più azzardati, purché gli apparissero prospetticamente più proficui, posto che in ogni caso non sopporterebbe le conseguenze di un loro esito negativo; l'esclusione invece del socio dagli utili lo renderebbe indifferente ad una gestione proficua, dei cui risultati non beneficerebbe in nessun caso, lo indurrebbe invece ad un eccesso di prudenza e ad un immobilismo, che del pari pregiudicherebbero la gestione sociale». In giurisprudenza, si vedano Cass., 29 ottobre 1994 n. 8927 (caso Laminatoio di Buttrio), in Giur. comm., 1995, II, 478 ss., con nota di A. Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino e nel merito Trib. Milano, 30 dicembre 2011, in RDS, 1, 2013, 64 ss.

Infine, la presenza all'interno della compagine azionaria di soci soggetti al rischio d'impresa e di altri esenti dallo stesso comporterebbe il verificarsi di un inevitabile conflitto di interessi per via della diversa propensione al rischio (cfr. Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contr. e impr., 1988, 808; Abriani, cit., 40).

Muovendo da tale impostazione, in quanto attinente alle radici sistematiche della disciplina di tutti i fenomeni societari, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie concordano nell'applicazione di tale principio anche alle società di capitali e, al di fuori del dettato statutario, con riferimento ai patti tra soci (sul punto, Barcellona, Clausole di put & call a prezzo predefinito: fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Milano, 2004, 34; in giurisprudenza, Cass., 29 ottobre 1994, n. 8927, cit.).

Non è mancato, tuttavia, chi si sia espresso in senso contrario: secondo qualche autore, infatti, non possono trascurarsi le diversità strutturali tra le varie forme associative e, nello specifico, tra le società personali e le società di capitali; in particolare, nelle società di persone, proprio per bilanciare la loro responsabilità illimitata, i soci sono di regola anche amministratori della società. Solo per queste ultime, quindi, il divieto risponderebbe effettivamente alla logica di garantire un'amministrazione avveduta e prudente della società. Nelle società di capitali, invece, in cui la gestione sociale è riservata esclusivamente agli amministratori, tale iter argomentativo appare meno convincente (si veda Penzo, Opzione di vendita a prezzo fisso e divieto di patto leonino: una convivenza possibile, in Soc., 2, 2014, 146 ss.).

A ben vedere, tuttavia, è innegabile che anche nelle società di capitali vi sia uno stretto legame tra i soci e gli amministratori che ne sono espressione e che il socio di controllo possa esercitare in ogni caso un'influenza sulla gestione della società (in generale, sul tema dell'influenza gestoria del socio nelle società di capitali, Ascarelli, Ancora sul socio sovrano e sulla partecipazione di una società di capitali a una società di persone, in Foro it., 1957, I, 1443; sulla problematicità della questione, Barcellona, cit., 24 ss.; Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contr. e impr., 1988, 771 ss. e Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino, in Contr. e impr., 1987, 816 ss.).

L'applicabilità del divieto alle clausole put a prezzo predefinito

Sulla base delle considerazioni che precedono, la posizione della prevalente dottrina è quella di considerare il divieto di patto leonino applicabile alle clausole put e call a prezzo predefinito, anche ove riferite a società di capitali, sia se contenute nello statuto sociale sia se previste al di fuori del dettato statutario, in quanto tali da consentire al socio di liquidare la propria partecipazione in qualsiasi momento senza incorrere in eventuali perdite derivanti dal decrementi del valore della partecipazione stessa (cfr. Guglielmucci, Lo smobilizzo delle partecipazioni nei patti parasociali delle finanziarie regionali private, in Riv. soc., 1980, 1196; Id., Le azioni postergate nelle perdite, in Giur. Comm., 1982, II, 84; Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino, in Giur. comm., 1995, II, 485; Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contr. e impr., 1988, 771; Delfini, Opzioni put con prezzo predeterminato “a consuntivo”, arbitraggio della parte e nullità, in Giur. comm., 2012, 739 ss.; Batti, Il patto leonino nell'ambito delle partecipazioni a scopo di finanziamento, in Soc., 1995, 178 ss.).

Vale comunque la pena di segnalare anche la tesi minoritaria, di coloro che reputano ammissibili tali clausole, seppur entro certi limiti e a determinate condizioni (cfr. Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino, cit., 816; Piazza, La causa mista credito-società, cit., 803; Abriani, cit., 67 ss.; Penzo, cit., 146 ss.; Barcellona,cit., passim; M.M. Pratelli, Rinnovo dei patti parasociali e opzione put & call, in Giur. comm., 2010, 931 ss.).

Tale diverso orientamento si basa, non su una diversa ricostruzione della ratio del divieto di patto leonino, bensì su una differente qualificazione delle previsioni put e call, idonea a escludere la loro riconducibilità al novero delle clausole che limitano in maniera assoluta e costante la partecipazione agli utili o alle perdite. Le clausole in questione, infatti, non disciplinerebbero la partecipazione agli utili o alle perdite, ma la circolazione delle azioni che ne sono oggetto (in tal senso, Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino, cit., 819 ss., secondo cui: «mi sembra che occorra distinguere tra disciplina convenzionale della circolazione delle azioni e disciplina della partecipazione dei soci agli utili o alle perdite. Questa, ma non quella, incontra il limite costituito dal divieto di patto leonino, sancito dall'art. 2265 c.c. […] mentre queste ultime si configurano […] come patti di riacquisto, stipulati nel quadro di complesse operazioni di finanziamento, le clausole put e call si presentano come semplici impegni di acquisto, inseriti in normali contratti di cessione di titoli azionati e finalizzati a permettere di scaglionare nel tempo l'acquisizione di un determinato pacchetto di controllo. Esse si collocano, dunque, sul piano della circolazione della partecipazione azionaria, e non su quello della distribuzione degli utili e delle perdite»).

L'orientamento appena menzionato non ha trovato comunque seguito nella giurisprudenza di merito e di legittimità, che abbraccia in linea di principio l'applicabilità del divieto di patto leonino a tali previsioni, seppur con una maggiore propensione a valutare le singole fattispecie alla luce della ratio del divieto.

Gli orientamenti della giurisprudenza in argomento

In giurisprudenza, i criteri per un corretto giudizio di applicabilità del divieto di patto leonino alle clausole put e call a prezzo predefinito contenute in pattuizioni parasociali sono stati individuati dalla Corte di Cassazione in una ormai nota pronuncia del '94 (cfr. Cass., 29 ottobre 1994 n. 8927, cit.).

In particolare, la pattuizione dovrebbe configurare un'esclusione assoluta e costante del socio dalla partecipazione agli utili o alle perdite ovvero da entrambe (c.d. requisiti sostanziali); l'effettiva violazione del divieto deve essere vagliata non già in via meramente formale, bensì sostanziale: sarebbero affette da nullità le clausole che, seppur soggette a condizione, colleghino la partecipazione agli utili e alle perdite a eventi di impossibile realizzo ovvero a un termine talmente lungo da intendersi di fatto indeterminato.

Inoltre, occorrerebbe verificare se il socio titolare del diritto di opzione possa effettivamente influire o meno sulla gestione, in senso lato, della società: potrebbe, infatti, ritenersi valido il patto parasociale in forza del quale un socio venga tenuto indenne da eventuali perdite nella misura in cui tale socio non partecipi alla formazione della volontà sociale (cfr. Penzo, cit., 148; in giurisprudenza, Trib. Cagliari, 3 aprile 2008, in Banca borsa tit. cred., 2009, 746 ss., con commento di Santagata, Partecipazioni in s.r.l. a scopo di finanziamento e divieto del patto leonino).

Una volta verificata la potenziale portata lesiva di tali clausole, a differenza delle opzioni a prezzo determinatocontenute nello statuto sociale, che sarebbero nulle tout court se integrati i requisiti sopra menzionati, le previsioni extrastatutarie sarebbero soggette a un vaglio di meritevolezza ai sensi dell'art. 1322 c.c. In particolare, ci si deve chiedere se le stesse trovino la propria giustificazione nel perseguimento di uno specifico interesse meritevole di tutela.

Si pensi, in particolare, al tipico caso delle partecipazioni detenute nella società a scopo di finanziamento, dove al socio “imprenditore”, si affianca un soggetto – di solito titolare di una partecipazione di minoranza – indifferente alla gestione societaria, ma interessato solo al finanziamento dell'impresa. In tal caso, l'utilizzo di clausole siffatte sarebbe volto, non tanto all'esclusione del socio dalla partecipazione alle perdite, quanto piuttosto a incentivarne l'ingresso nella compagine sociale, anche al fine di apportare risorse finanziarie alla società.

Ci si interroga, dunque, se tale interesse sia tale da neutralizzare la portata applicativa del divieto. Essendo le valutazioni circa la meritevolezza rimesse alla discrezionalità del giudice di merito, non è un caso che, in tali fattispecie, il giudice di merito sia spesso giunto a conclusioni difformi (cfr. in particolare Corte Appello Milano, Sez. I, 19 febbraio 2016, n. 636, che si è da ultimo pronunciata sancendo l'illegittimità di tali previsioni; in senso diametralmente opposto, invece, Trib. Milano, 13 settembre 2011, in Soc., 2012, 1163 ss.). Non vi è, dunque, unanimità di vedute all'interno delle corti di merito.

Conclusioni

Ci si chiede, dunque, se sia effettivamente corretto determinare la validità o meno di tali previsioni sulla base di una valutazione di meritevolezza assolutamente discrezionale, contribuendo in tal modo ad alimentare incertezze e dubbi interpretativi. Probabilmente un passo in più da parte del giudice di legittimità nella nota pronuncia sopra citata avrebbe potuto, a suo tempo, contribuire a definire in maniera più certa lo scenario attuale.

Ad oggi, rimane tangibile una discrepanza tra l'opinione della dottrina maggioritaria e di parte della giurisprudenza e le esigenze dettate dalla prassi, in cui tali clausole sono sempre più diffuse. Occorre tuttavia riconoscere che l'utilizzo avveduto di tali previsioni – ad esempio, evitando di utilizzare clausole esercitabili ad nutum e senza alcun limite temporale, ovvero esplicitando un interesse definito all'investimento – potrebbe, in qualche misura, agevolare la progressiva, seppur lenta, apertura dei giudici a far leva sul requisito della meritevolezza di tali previsioni, ammettendone così la legittimità.

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