Assolto l’incapace, la parte civile propone domanda di risarcimento in un nuovo procedimento

Redazione Scientifica
02 Febbraio 2016

Non è incostituzionale la norma ex art. 538 c.p.p. che, in caso di assoluzione dell'imputato per incapacità di intendere e volere, prevede l'impossibilità per il giudice penale di pronunciarsi sulle questioni civili; in questi casi, la parte civile e la persona offesa dovranno proporre domanda di risarcimento danni in un nuovo procedimento, avanti al giudice civile.

Assolto perché incapace. Chi si occupa della parte civile? Il Tribunale di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 538 c.p.p. in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., poiché non prevede che il giudice penale possa decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposto a norma degli artt. 74 e seguenti c.p.p., quando pronuncia sentenza di assoluzione dell'imputato per incapacità di intendere e volere nel momento in cui ha commesso il fatto.

Nel caso di specie, la parte civile ha chiesto ex art. 2047 c.c. che l'imputato fosse condannato a corrispondergli un'equa indennità. Tuttavia, ai sensi dell'art. 538 c.p.p., il giudice penale può decidere sulle questioni civili, solo quando vi sia la condanna dell'imputato. Sicchè, in caso di assoluzione dell'imputato per vizio di mente, il danneggiato può far valere i suoi diritto promuovendo un autonomo giudizio avanti al giudice civile.

La presunta illegittimità costituzionale. L'art. 538 c.p.p., a giudizio del giudice a quo violerebbe:

  • il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) «generando una ingiustificata disparità di trattamento tra il danneggiato costituitosi parte civile in un processo che si concluda con l'assoluzione dell'imputato per vizio totale di mente e il danneggiato che veda invece esaminata la sua domanda risarcitoria all'esito della condanna dell'imputato “sano di mente”».
  • il diritto di difesa del danneggiato costituitosi parte civile (art. 24 Cost.), lesione che non verrebbe meno tramite la possibilità di riproporre la domanda risarcitoria in sede civile trovandosi in questo modo il danneggiato «costretto ad agire nuovamente in giudizio con totale vanificazione della precedente scelta di far valere le proprie ragioni in sede penale»;
  • il principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.) «in quanto l'esigenza di trasferire l'azione civile da una giurisdizione ad un'altra proietterebbe in un tempo certamente lontano la pronuncia definitiva sulla domanda risarcitoria»;

Separazione e autonomia dei procedimenti. La Consulta, nel decidere la questione, ricorda che «il collegamento istituito dalla norma censurata (…) tra decisione sulle questioni civili e condanna dell'imputato, riflette il carattere accessorio e subordinato dell'azione civile proposta nel processo penale rispetto agli obiettivi propri dell'azione penale: obiettivi che si focalizzano nell'accertamento della responsabilità penale dell'imputato. Di qui la ritenuta inopportunità di lasciar ferma la competenza del giudice penale a pronunciare sulle pretese civilistiche anche quando l'affermazione di detta responsabilità non abbia luogo».

D'altronde il danneggiato ha piena consapevolezza del fatto che nel momento in cui sceglie se esercitare l'azione di danno, non nella sede sua propria, ma in quella penale, potrà incombere nell'impossibilità di ottenere una decisione sulla domanda risarcitoria ( laddove, per esempio, il processo penale si concluda con una sentenza di proscioglimento).

Inoltre, nel caso di sentenza di assoluzione per vizio totale di mente, oltre ad essere esclusa la responsabilità penale, «viene esclusa – in virtù della regola generale dell'art. 2046 c.c. – persino la sua responsabilità civile»: infatti «il danneggiato potrà conseguire il ristoro del pregiudizio patito unicamente da terzi, ossia dai soggetti tenuti alla sorveglianza degli incapaci qualora non provino di non aver potuto impedire il fatto (art. 2047, comma 1, c.c.); solo in via sussidiaria – allorchè non risulti possibile ottenere il risarcimento in tal modo – il danneggiato sarà abilitato a pretendere dall'incapace, non già il risarcimento, ma la corresponsione di un'equa indennità, rimessa sia nell'an che nel quantum, all'apprezzamento discrezionale del giudice, sulla base di una comparazione delle condizioni economiche delle parti (art. 2047, comma 2, c.c.).

Sulla base di tali argomenti la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 538 c.p.p..

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