Incertezze e contrasti sul contenuto essenziale della domanda risarcitoria: a quando un intervento delle Sezioni Unite?

Antonino Barletta
06 Marzo 2017

Si approfondiscono i termini del contrasto tra gli indirizzi giurisprudenziali espressi dalla Cassazione sul contenuto essenziale della domanda risarcitoria e sulla correlata questione della validità dell'atto introduttivo del giudizio, auspicando un intervento delle Sezioni Unite.
Il contrasto tra orientamenti di legittimità sulla validità della domanda risarcitoria estesa a “tutti i danni”

Si è già avuto modo di rilevare la sussistenza di un contrasto di orientamenti riguardo al contenuto essenziale e alla validità della domanda risarcitoria e l'opportunità di un intervento delle Sezioni Unite in proposito (per un maggior approfondimento, si veda anche A.BARLETTA, La domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e le preclusioni processuali applicabili in tema di allegazione e prova, in Ridare.it).

Una parte dei precedenti della Cassazione, infatti, ammette la possibilità di richiedere il risarcimento di tutti i danni conseguenti ad un certo evento pregiudizievole. Di modo che la successiva specificazione dei singoli danni di cui s'invoca la liquidazione nella fase di trattazione viene ritenuta di carattere esemplificativo e non può essere interpretata nemmeno come espressione della volontà di delimitare il petitum (tra le più recenti Cass. civ., sez. III, 13 ottobre 2009 n. 21680, a tenore della quale, in particolare, «la domanda di risarcimento di tutti i danni, materiali e morali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, comprende necessariamente la richiesta volta al risarcimento del danno biologico, anche quando questa non contenga alcuna precisazione in tal senso, in quanto tale danno non richiede una specifica ed autonoma richiesta» Cass. civ., sez. III, 17 dicembre 2009 n. 26505; Cass. civ., sez. III, 25 febbraio 2008 n. 4718; Cass. civ., sez. III, 28 novembre 2007 n. 24745; Cass. civ., sez. III, 8 giugno 2007 n. 13391; Cass. civ., sez. lav.,8 maggio 2007 n. 10441).

Secondo il contrario orientamento l'attore nei giudizi risarcitori deve descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali chiede il ristoro, senza limitarsi a formule vuote e stereotipe come la richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi” (Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2015, n. 13328; analogamente Cass. civ., sez. III, 12 ottobre 2012, n. 17408; Cass. civ., sez. III, 18 febbraio 2012 n. 691, a tenore della quale le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione della condotta colpevole della controparte, a cui si ricollegano i danni prodotti nella sfera giuridica dell'attore, dovendo essere inclusa anche la descrizione delle lesioni patrimoniali e/o personali). Allo stesso indirizzo rigorista si può ascrivere Cass. civ., sez. III, 18 giugno 2015, n. 12614, che ha affermato l'invalidità della domanda risarcitoria che contenga la descrizione della condotta lesiva di un danno non patrimoniale, in relazione ad un caso in cui l'attore si era limitato a rivendicarne il riconoscimento e la liquidazione del danno relativo ad una certa condotta, riferendosi più che altro a titolo esemplificativo al danno morale soggettivo e a quello esistenziale.

In proposito, si registra inoltre una significativa oscillazione tra opposti indirizzi in materia di danno alla professionalità in caso di demansionamento del lavoratore: su cui v. infra.

I rilievi contenuti in Cass. civ., sez. III, n. 13328/2015

Con la sentenza Cass. civ., n. 13328/2015 la Cassazione, nell'ambito di un giudizio risarcitorio per malpratice medica, ha affermato la legittimità della mancata liquidazione del danno patrimoniale consistito nel costo del trapianto di cornee subito dall'attore e del costo del futuro intervento per la sostituzione delle cornee trapiantate, in quanto tale richiesta non poteva riferirsi alla domanda risarcitoria dei “danni subiti e subendi”, contenuta nell'atto di citazione. Il dictum appena menzionato si fonda sul rilievo secondo cui «una domanda di risarcimento del danno concepita in questi termini deve ritenersi tamquam non esset». L'art. 163 c.p.c., comma 2, nn. 3 e 4, impone all'attore di esporre, nell'atto di citazione:

– la determinazione della cosa oggetto della domanda;

– i fatti e gli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda.

In tema di risarcimento del danno da fatto illecito o da inadempimento contrattuale, la “cosa” oggetto della domanda è il pregiudizio di cui si invochi il ristoro, e gli “elementi di fatto” costitutivi della pretesa sono rappresentati dalla descrizione della perdita che l'attore lamenti di avere patito.

L'adempimento dell'onere di allegare i fatti costitutivi della pretesa è preordinato:

- a consentire al convenuto l'esercizio del diritto di difesa;

- a consentire al giudice di individuare il thema decidendum.

L'attore dunque non ha certamente l'onere di designare con un preciso nomen iuris il danno di cui chiede il risarcimento, né di quantificarlo al centesimo: tali adempimenti non sono infatti strettamente necessari né per delimitare il thema decidendum, né per mettere il convenuto in condizioni di difendersi. L'attore ha invece il dovere di indicare analiticamente e con rigore i fatti materiali che assume essere stati fonte di danno. E dunque in cosa è consistito il pregiudizio non patrimoniale, in cosa è consistito il pregiudizio patrimoniale e con quali criteri di calcolo dovrà essere computato. Essendo questo l'onere imposto dalla legge all'attore che domanda il risarcimento del danno, ne discende che una richiesta di risarcimento dei “danni subiti e subendi”, quando non sia accompagnata dalla concreta descrizione del pregiudizio di cui si chiede il ristoro, va qualificata generica ed inutile. Generica, perché non mette né il giudice, né il convenuto, in condizione di sapere di quale concreto pregiudizio si chieda il ristoro; inutile, perché tale genericità non fa sorgere in capo al giudice il potere-dovere di provvedere».

Nel tentativo di corroborare le argomentazioni appena riferite, a proposito della nullità domanda che non contenga la «concreta descrizione del pregiudizio», la sentenza in discorso si richiama alla simmetria tra l'onere di contestazione posto sul convenuto, e quello di allegazione gravante sull'attore osservata da Cass. civ., Sez. Un., 17 giugno 2004 n. 11353, anche sotto il profilo della specificità dell'onere di allegazione (Cass. civ.,sez. III, 12 ottobre 2012, n. 17408; Cass. civ.,sez. III, 13 maggio 2011, n. 10527) che è evidentemente speculare all'onere di specifica contestazione enunciato dall'art. 115 c.p.c.

La critica degli orientamenti rigoristi: la necessità di tenere distinta la funzione della domanda di risarcimento rispetto quella dell'onere di allegazione (e della prova) dei fatti rilevanti in sede di determinazione del danno

Per individuare il contenuto minimo richiesto ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p.c. ai fini della validità della domanda risarcitoria, occorre muovere dalla specifica funzione dell'atto introduttivo del giudizio in discorso nel quadro delle relazioni processuali che si realizzano tra l'attore e gli altri soggetti del processo. Tale funzione consiste nella richiesta di un provvedimento di condanna al pagamento di somma pecuniaria, che rappresenta l'incremento patrimoniale diretto a reintegrare una diminuzione patrimoniale (danno patrimoniale) o compensare un pregiudizio non economico (danno non patrimoniale) (per un maggior approfondimento, si veda anche A.BARLETTA, La domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e le preclusioni processuali applicabili in tema di allegazione e prova, in Ridare.it). Ed è ben vero che la domanda risarcitoria non può prescindere dalla descrizione del pregiudizio che si ricollega alla condotta lesiva del danneggiante su cui si fonda (causa petendi) la richiesta del provvedimento di condanna (petitum), e che tali elementi sono riferibili rispettivamente ai nn. 4 e 3 dell'art. 163, comma 3, c.p.c. : a loro insussistenza, dunque, o la loro assoluta incertezza determina la nullità della citazione ai sensi dell'art. 164, comma 4, c.p.c. Nondimeno, ciò essenzialmente consiste nell'affermazione delle circostanze concrete in cui si è realizzata la lesione delle situazioni giuridicamente rilevanti identificate dall'attore (c.d. danno-evento) e a cui si ricollega la richiesta risarcitoria, non nell'allegazione dei fatti rilevanti solo per determinare la specifica consistenza del danno patrimoniale o non patrimoniale (c.d. danno-conseguenza). Infatti, secondo l'orientamento prevalente le circostanze rilevanti in relazione alla liquidazione del danno non sono riferibili alla nozione di causa petendi della domanda risarcitoria (per un maggior approfondimento, si veda anche F. PICARDI, Onere di allegazione e prova del danno patrimoniale e non patrimoniale, in Ridare.it). A tali diverse nozioni di danno fanno riferimento le due diverse tipologie di accertamento riguardanti il nesso di causalità (i.e. la causalità “materiale” e quella “giuridica”), con le quali si designa ora la relazione tra la condotta del responsabile e l'accadimento lesivo, ora l'ambito dei danni risarcibili (per un maggior approfondimento, si veda anche L.BERTI, Il nesso di causa nella responsabilità civile, in Ridare.it).

In altre parole, il danno-evento è senz'altro riferibile al principio dispositivo c.d. sostanziale, di cui la regola della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato non è altro che l'esplicazione, avendo un rilievo essenziale nell'identificazione della causa e nella delimitazione del dovere decisorio del giudice; mentre al danno-conseguenza è applicabile solamente il principio di trattazione, a cui sono riferibili l'onere di allegazione, di contestazione e prova, rilevanti ai soli fini della pronuncia di merito sulla fondatezza della domanda, ossia sull'esistenza e la quantificazione del danno (sulla distinzione tra principio dispositivo c.d. sostanziale e principio di trattazione v. per tutti C.CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale, I, Torino, 2015, 17 e 133 ss.). Per altro verso, la distinzione tra danno-evento e danno-conseguenza è imprescindibile tanto ai fini della riaffermata unitarietà del danno non patrimoniale (cfr. le c.d. sentenze a Sezioni Unite di San Martino nn. 26972-26975 del 2008), quanto per evitare di far scivolare la stessa funzione del risarcimento nell'applicazione di una sanzione civile per un comportamento lesivo di un interesse giuridicamente tutelato (cfr. C.cost., 27 ottobre 1994, n. 372; nonché da ultimo Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350 e le stesse sentenze di San Martino, ove si osserva che «il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza…, che deve essere allegato e provato. Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l'evento dannoso, parlando di "danno evento"… E del pari da respingere è la variante costituita dall'affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell'effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo».

Per altro verso, neanche tutti gli accertamenti compiuti dal giudice in relazione al c.d. danno-evento possono ritenersi riferibili al principio dispositivo sostanziale, sotteso alla previsione dell'art. 112 c.p.c. Certo all'attore spetta affermare la sussistenza della causalità materiale, ma sicuramente non spetta a quest'ultimo l'individuazione di ogni circostanza rilevante in ordine al suo accertamento ai fini del giudizio di merito, sulla base delle regole concernenti gli oneri di allegazione e della prova. Difatti, se ordinariamente tali oneri sono posti a carico dell'attore (tra le più recenti, cfr. Cass. civ., sez. III, 20 maggio 2015, n. 10244), non mancano fattispecie in cui si assiste ad un sostanziale rovesciamento di tali oneri a carico del convenuto: come in relazione all'ipotesi della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria o da contatto sociale del medico, ove la Cassazione ha avuto modo di statuire in più occasioni che l'onere del paziente- danneggiato è limitato all'allegazione e alla prova del contratto o del contatto sociale, dell'insorgenza o dell'aggravamento della patologia in rapporto causale con l'intervento medico, nonché all'allegazione del comportamento del (presunto) responsabile, che abbia i caratteri dell'astratta idoneità a provocare il danno lamentato, rimanendo invece a carico del convenuto l'onere di dimostrare che nessun addebito possa in concreto essere mosso a quest'ultimo in termini di scarsa diligenza o imperizia (tra le ultime Cass. civ., sez. III, 20 marzo 2015, n. 5590).

Nell'accertamento della causalità giuridica, la stessa natura del danno-conseguenza spiega la peculiare coesistenza dell'onere posto in capo all'attore con la funzione assegnata al giudice in sede di liquidazione, specialmente in relazione all'accertamento del danno non patrimoniale (cfr. Cass. civ., Sez. Un., n. 26972/2008 ; Cass. civ., Sez. Un., n. 26975/2008). Difatti, al di là della potestà di operare la corretta qualificazione giuridica del danno nell'ambito della decisione sulla sua risarcibilità, alla stregua del principio iura novit curia, «è compito del giudice accertare l'effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative… si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione» (Cass. civ., Sez. Un., n. 26972/2008): là dove il riferimento al «pregiudizio allegato» deve essere colto alla luce del principio di acquisizione, quale naturale limite all'esercizio dei poteri ufficiosi del giudice – riferibili in primis alla regola di cui all'art. 1226 c.c.entro ciò che risulta dalle allegazioni e delle prove versate nel processo da tutte le parti e non dal solo attore. Del resto, a questo riguardo non credo possa esigersi dall'attore il rispetto di un rigore, nella descrizione e nella determinazione del danno, che si esclude in relazione all'obbligo di motivazione delle decisioni in punto di liquidazione del danno: «è dunque escluso che si possa far carico al giudice di non aver indicato le ragioni per le quali il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare – costituente la condizione per il ricorso alla valutazione equitativa di cui all'art. 1226 c.c. – giacché in tanto una precisa quantificazione pecuniaria sarebbe possibile in quanto esistessero dei parametri normativi fissi di commutazione, in difetto dei quali il danno non patrimoniale non può mai essere provato nel suo preciso ammontare» (Cass. civ., sez. III, 20 ottobre 2005, n. 20320), che fa seguito alla realistica considerazione secondo cui la «liquidazione di ogni danno privo delle caratteristiche della patrimonialità è quella equitativa, sicché la ragione del ricorso a tale criterio è insita nella natura del danno».

Validità della domanda estesa a “tutti i danni” alla luce del principio dell'unitarietà del diritto al risarcimento

La peculiarità della domanda risarcitoria si ricollega essenzialmente al fatto che la causa petendi corrisponde a una situazione lesiva, in relazione al cui accertamento sono normalmente più ampie le prerogative ufficiose riconosciute al giudice; a ciò è correlata la possibilità che il petitum consista anche solo in una generica richiesta di tutti i danni riferibili a tale lesione (A.BARLETTA, Extra e ultra petizione. Studio sui limiti del dovere decisiorio del giudice civile, Giuffrè, 2012, 26 ss.), che trova uno specifico riscontro normativo, riguardo alla fase di quantificazione del danno, nella previsione di cui all'art. 1226 c.c.

Per altro verso, la validità della domanda di risarcimento estesa a “tutti i danni” è correlata al principio dell'unitarietà del diritto al risarcimento e al suo riflesso processuale, rappresentato dall'ordinaria infrazionabilità del giudizio risarcitorio, riferito dalla giurisprudenza al rispetto dei canoni della concentrazione e della correttezza processuale (cfr. Cass. civ., sez. III, 22 agosto 2007, n. 17873; Cass. civ., sez. III, 26 febbraio 2003, n. 2869; Cass. civ., sez. III, 27 ottobre 1998, n. 10702), a cui consegue che «quando un soggetto agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni da lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta» (così Cass. civ., sez. III, n. 17873/2007, cit.; su tale orientamento vedi anche A.BARLETTA, Frazionamento della domanda di adempimento o di risarcimento e abuso del processo, in Ridare.it). In altre parole, nel richiedere il risarcimento di “tutti i danni” l'attore non fa altro che esplicitare in sede processuale ciò che è connaturato nella conformazione sostanziale del diritto fatto valere, potendo invece riferirsi al principio dispositivo la limitazione del giudizio ad alcune voci soltanto di danno, a cui consegue normalmente la rinuncia a far valere le voci di danno non richieste: «il principio dell'unitarietà del diritto al risarcimento del danno, comportando l'infrazionabilità del giudizio di liquidazione, da una parte esige che la liquidazione abbia luogo in un unico processo, e dall'altra preclude, di regola, una successiva domanda di liquidazione delle voci di danno non comprese nell'originaria domanda, la cui limitazione soltanto ad alcune voci, risolvendosi sostanzialmente nell'abbandono del relativo diritto, può essere desunta soltanto da una volontà inequivoca della parte» (Cass. civ., sez. III, n. 17873/2007, cit.; Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2005, n. 15823). Mentre si può ammettere una diversa definizione dell'oggetto del giudizio (e del successivo giudicato) solo quando sia esclusa la potenzialità della domanda a coprire tutte le possibili voci di danno, allorché ciò si riferisca ad una volontà inequivoca, idoneamente manifestata sin dall'instaurazione o nel corso del processo (Cass. civ., sez. III, n. 17873/2007 cit., Cass. civ., 2869/2003, cit.), ossia più precisamente quando la domanda “limitata” sia supportata da un interesse oggettivamente apprezzabile (sul punto, anche per ulteriori riferimenti, M.FORNACIARI, Oggetto del processo e diritto sostanziale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2015, 829 ss.).

Alla stregua del principio dell'unitarietà del risarcimento non si può esigere ai fini dell'insorgenza del dovere decisorio su tutte le possibili conseguenze lesive della condotta pregiudizievole allegata dall'attore che quest'ultimo indichi «analiticamente e con rigore i fatti materiali che assume essere stati fonte di danno. E dunque in cosa è consistito il pregiudizio non patrimoniale; in cosa è consistito il pregiudizio patrimoniale; con quali criteri di calcolo dovrà essere computato» (così, invece, Cass. civ., sez. III, n. 13328/2015). Difatti, tali circostanze – in qualunque modo legittimamente acquisite nel processo – sono rese rilevanti dalla suddetta domanda risarcitoria riferita ad una determinata condotta lesiva. Sull'esistenza e la quantificazione del danno, infatti, il giudice dovrà pronunciarsi nel merito sulla base degli alligata et probata ed, in mancanza di elementi rilevanti ai fini del riconoscimento della tutela richiesta, dovrà rigettare la domanda, motivando la propria decisione sulla base delle suddette acquisizioni processuali ed aprendo alla formazione di un giudicato sostanziale di contenuto negativo.

Venendo al contrasto in materia di danno alla professionalità in caso di demansionamento del lavoratore, le Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 24 marzo 2006 n. 6572, in Foro it., 2006, I, 2334, con note di P. Cendon, G. Ponzanelli) hanno statuito che il lavoratore danneggiato non può limitarsi a prospettare l'esistenza della dequalificazione costituente inadempimento datoriale ai sensi dell'art. 2103 c.c. chiedendo genericamente il risarcimento del danno. Per contro, più recentemente la Cassazione (Cass. civ., sez. lav., 12 luglio 2016, n. 14204) ha riconosciuto come indubbiamente gravino sul lavoratore che si affermi danneggiato l'onere di allegare la qualità e la quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpita, la durata del demansionamento, nonché l'esito finale della dequalificazione. Nondimeno si è osservato come risulti «del tutto irrilevante che le medesime circostanze non abbiano trovato nel ricorso una esposizione specifica sul piano della richiesta del risarcimento del danno che il Giudice doveva liquidare anche in via equitativa sulla base di elementi obiettivamente risultanti dal ricorso». Giacché i suddetti elementi, già determinati ai fini dell'accertamento di esistenza di un demansionamento, sono riconosciuti come «rilevanti sul piano obiettivo per una liquidazione in via equitativa del danno» (gli incisi sono di Cass. civ., sez. lav. n. 14204/2016, richiamandosi anche a Cass. civ., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4063).

È appena il caso di aggiungere come chi scrive ritenga senz'altro condivisibile l'arresto giurisprudenziale del 2016.

Più in generale, in realtà, il maggior problema interpretativo è inerente all'individuazione del limite entro il quale l'attore possa usufruire delle potestà ufficiose del giudice, ai fini dell'accertamento del pregiudizio nei giudizi risarcitori: il che si deve determinare in base all'onere della prova e, in ispecie, nei limiti in cui è possibile muovere all'attore un'imputazione di responsabilità a tale proposito. Ordinariamente, l'attore può ritenersi onerato almeno dell'identificazione (e della prova) dei fatti che integrano la condotta lesiva del convenuto e la sua riferibilità causale ad un certo evento, ma l'applicazione di questo precetto può dipendere dalla natura dell'interesse protetto e più in generale dalle peculiarità del caso concreto. Ove sia sostanzialmente impossibile per l'attore individuare le circostanze che integrano il pregiudizio, il giudice può (e deve) dar luogo alla liquidazione equitativa del danno, anche sul solo presupposto del rilievo ufficioso di una condotta generatrice di un danno risarcibile.

Conclusioni

È appena il caso di aggiungere come chi scrive ritenga senz'altro condivisibile l'arresto giurisprudenziale del 2016.

Più in generale, in realtà, il maggior problema interpretativo è inerente all'individuazione del limite entro il quale l'attore possa usufruire delle potestà ufficiose del giudice, ai fini dell'accertamento del pregiudizio nei giudizi risarcitori: il che si deve determinare in base all'onere della prova e, in ispecie, nei limiti in cui è possibile muovere all'attore un'imputazione di responsabilità a tale proposito. Ordinariamente, l'attore può ritenersi onerato almeno dell'identificazione (e della prova) dei fatti che integrano la condotta lesiva del convenuto e la sua riferibilità causale ad un certo evento, ma l'applicazione di questo precetto può dipendere dalla natura dell'interesse protetto e più in generale dalle peculiarità del caso concreto. Ove sia sostanzialmente impossibile per l'attore individuare le circostanze che integrano il pregiudizio, il giudice può (e deve) dar luogo alla liquidazione equitativa del danno, anche sul solo presupposto del rilievo ufficioso di una condotta generatrice di un danno risarcibile.

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