Responsabilità del datore di lavoro per la violazione dell’obbligo di sicurezza: gli oneri di allegazione e prova

09 Dicembre 2016

L'obbligo di sicurezza del datore di lavoro nei confronti del lavoratore scaturisce sia dal disposto dell'art. 2087 c.c. che da una serie di precetti speciali contenuti in altre fonti normative. Per ciò che concerne, in particolare, la previsione codicistica di carattere generale, partendo dall'affermazione della natura contrattuale di tale responsabilità la giurisprudenza ha progressivamente affinato i contorni della fattispecie per ciò che riguarda i suoi elementi costitutivi, chiarendo anche alcune problematiche inerenti alla ripartizione degli oneri probatori.
Il quadro normativo

Come noto, l'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di adottare tutte quelle misure che sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, avuto riguardo alla particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica. I profili personalistici presentati dalla norma ne consentono una lettura illuminata dai valori costituzionali: in particolare, la tutela della salute, tanto nella sua dimensione fisica che in quella psichica (art. 32), la sicurezza, la libertà e la dignità umana (che costituiscono i limiti esterni alla libertà di iniziativa economica privata secondo quanto disposto dall'art. 41, comma 2), il principio solidaristico e la pari dignità sociale orientata al pieno sviluppo della persona umana (artt. 2 e 3). La mancata specificazione, nel testo della norma, del suo contenuto precettivo (si fa riferimento unicamente all'adozione delle «misure […] necessarie» alla tutela dei beni giuridici indicati) consente di qualificare l'art. 2087 c.c. come norma generale (a differenza delle clausole generali si tratta comunque di una norma completa, comprensiva di una fattispecie e di un comando), che si pone in rapporto di genus a species con la legislazione speciale, contenuta principalmente nel d.lgs. n. 81/2008 (numerose decisioni penali hanno qualificato l'art. 2087 come una norma di carattere generale e sussidiario di integrazione della specifica normativa: cfr. Cass. pen., sez. IV, 26 novembre 2015, n. 46979; Cass. pen., sez. IV, 19 marzo 2008, n. 15297; Cass. pen., sez. IV, 21 febbraio 2008, n. 12375; Cass. pen., sez. IV, 7 febbraio 2008, n. 13953). L'obbligo di sicurezza, dunque, scaturisce dall'interazione tra norme speciali, che la specificano, e norma generale di chiusura del sistema prevenzionistico, che proietta le prime verso il fine della tutela della persona.

La natura della responsabilità del datore di lavoro

La giurisprudenza è ormai unanime nel sostenere la natura contrattuale dell'obbligo di sicurezza (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., 20 maggio 2010, n. 12351; Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3788; Cass. civ., sez. lav., 13 agosto 2008, n. 21590; Cass. civ., sez. lav., 7 marzo 2006, n. 4840), e ciò anche se talvolta esigenze di giustizia sostanziale hanno comportato, in alcune pronunce, anche in tempi recenti, il riconoscimento di un concorso di diverse forme di responsabilità, atteso che «sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di neminem laedere, espresso dall'art. 2043 c.c. (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell'integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall'art. 2087 c.c. ad integrazione ex lege delle obbligazioni nascenti da contratto di lavoro» (Cass. civ., sez. lav., 24 febbraio 2006, n. 4184). L'inquadramento dell'obbligo di sicurezza nel tessuto contrattuale sarebbe possibile in virtù del principio di integrazione del contratto secondo le previsioni di legge di cui all'art. 1374 c.c., che consente di calare a pieno diritti e doveri derivanti dall'art. 2087 c.c. nel sinallagma contrattuale, senza per questo farne venir meno la natura inderogabile. Conseguentemente, va in primo luogo sottolineato come l'obbligo di sicurezza non possa essere ridotto ad una mera giustiziabilità sul piano risarcitorio. Il sistema circolare composto dalla norma generale e dalle norme speciali di specificazione, infatti, delinea innanzitutto obbligazioni di prevenzione - di natura contrattuale - che si presentano idonee, da un lato, a giustificare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. del prestatore eventualmente costretto a operare in luogo insalubre o senza le necessarie condizioni di sicurezza (cfr. Cass. civ. sez. lav., 5 novembre 2012, n. 18921); dall'altro, quale prius logico giuridico dell'azione risarcitoria ammettono necessariamente la possibilità di agire per l'adempimento ex art. 1453 c.c. La diffusa tendenza a invocare in giudizio l'art. 2087 per ottenere il risarcimento di danni dovuti a infortuni o lesioni già verificatisi, piuttosto che in chiave preventiva, si spiega principalmente in considerazione della scarsa coercibilità dell'obbligo di sicurezza, che, consistendo in un facere infungibile del datore di lavoro che, viepiù, dipende dall'esercizio del potere organizzativo, presenta le stesse problematiche già ampiamente evidenziate, ad esempio, sempre in ambito lavoristico, per quanto concerne il ben noto tema dell'incoercibilità dell'obbligo di reintegrazione a seguito di licenziamento illegittimo.

I presupposti della responsabilità: condotta e nesso causale

I presupposti della responsabilità del datore di lavoro per la violazione dell'obbligo di sicurezza sono ravvisabili in una condotta, commissiva od omissiva, che si pone in contrasto con obblighi posti da norme di legge, nel nesso causale tra questa e l'evento lesivo eventualmente verificatosi e nell'ulteriore requisito della colpa (cfr. Cass. civ., sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17693).

Per ciò che attiene al primo profilo, le azioni od omissioni datoriali che costituiscono inadempimento sono individuabili con relativa facilità allorché si prendano in esame gli obblighi predisposti da norme speciali. Con riferimento all'art. 2087 c.c., invece, le condotte datoriali che rilevano ai fini dell'inadempimento non risultano tipizzate, dal momento che la norma si limita ad obbligare genericamente all'adozione di tutte le misure «necessarie». Le condotte rilevanti ai fini dell'inadempimento, dunque, in questo caso si ricavano dall'applicazione al caso concreto del principio, di elaborazione dottrinale, dell'obbligo di ricercare la massima sicurezza tecnologicamente possibile. Ciò che conta è se l'evento lesivo si sia verificato in virtù di un'azione od omissione del datore di lavoro che non sia giustificabile alla luce dei parametri della «particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica», che costituiscono proiezioni della diligenza di cui all'art. 1176 c.c. (anche se nel caso in esame si tratta di una diligenza particolarmente qualificata), quale regola dell'adempimento (sulla rilevanza della condotta datoriale, cfr. la recente Cass. civ., sez. lav., 2 dicembre 2015, n. 24538).

Perché possa aversi responsabilità, l'evento lesivo della salute del prestatore deve essere causalmente connesso all'azione od omissione del datore. Per l'accertamento del nesso di causalità, nel giudizio civile generalmente si accoglie un criterio probabilistico meno stringente rispetto al giudizio penale, ovvero quello di causalità adeguata, in base al quale una condotta deve considerarsi causa di un evento solo se quest'ultimo era prevedibile ad un giudizio ex ante, al momento in cui l'azione è stata posta in essere (sui criteri impiegati per l'accertamento del nesso causale, cfr. Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576): i canoni di diligenza, quindi, andrebbero costituiti ex ante, con un razionale nesso di prevedibilità tra la condotta e il pregiudizio e non apprezzati a posteriori (Cass. civ., sez. lav., 1 settembre 1997, n. 8267). Merita un cenno, in proposito, il consolidato orientamento secondo cui il nesso eziologico non sarebbe spezzato dall'eventuale concorso di colpa del lavoratore (cfr. Cass. civ., sez. lav., 23 aprile 2012, n. 6337), in quanto l'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. si estenderebbe alla protezione dell'incolumità del lavoratore nonostante la sua eventuale imprudenza o negligenza (cfr., ad es., Cass. civ., sez. lav., 4 dicembre 2013, n. 27127; Cass. civ., sez. lav., 1 luglio 2011, n. 14507). Tale principio, al fine di non avallare una concezione “oggettivizzata” dell'obbligo di sicurezza, sarebbe mitigato dall'esclusione della responsabilità del datore di lavoro in caso di dolo del lavoratore o di “rischio elettivo”. Con tale locuzione si fa riferimento a un comportamento del prestatore che presenti i caratteri dell'esorbitanza, abnormità, eccezionalità e imprevedibilità rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, tale da apparire, ex ante, inverosimile e dunque idoneo ad escludere il nesso causale tra la condotta datoriale e l'evento dannoso (cfr., ex multis, Cass. pen., sez. IV, 2 febbraio 2016, n. 4347; Cass. pen., sez. IV, 2 luglio 2015, n. 28132; Cass. civ. sez. lav., 4 febbraio 2014, n. 2455; Cass. civ. sez. lav., 11 aprile 2013, n. 8861).

Vale la pena di ricordare, infine, che l'ampia formulazione dell'art. 2087 c.c., che comprende la tutela sia dell'integrità fisica che della personalità morale del lavoratore, consente di qualificare come inadempimento datoriale non soltanto le condotte da cui derivi un pregiudizio alla salute del prestatore (in tal caso, come noto, opera l'assicurazione obbligatoria istituita presso l'Inail e il prestatore può eventualmente agire contro il datore per il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale cd. differenziale), ma anche quelle che dovessero comportare esclusivamente la menomazione della dignità personale, come ad esempio nel caso del mobbing (cfr. Cass. civ., sez. lav., 23 novembre 2015, n. 23837, con nota di M. AZZONI, G. PANIZZA, Riconoscibilità in astratto e oneri di allegazione e prova del danno esistenziale da mobbing, in Ri.Da.Re.). In questo caso, l'onere della prova della responsabilità ex art. 2087 c.c., che, come si chiarirà infra, per quanto riguarda alcuni dei presupposti grava sul lavoratore, mentre per altri grava sul datore di lavoro, va tenuto distinto dall'onere della prova del danno lamentato, la cui sussistenza – non potendo considerarsi in re ipsa nell'inadempimento - e consistenza devono essere oggetto di specifica dimostrazione da parte del lavoratore. Con particolare riferimento al risarcimento del danno non patrimoniale, infatti, si può richiamare l'insegnamento delle Sezioni Unite della Suprema Corte (Cass. civ., sez. un., 26 marzo 2006, n. 6572), secondo cui: «il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione della natura e delle caratteristiche del pregiudizio che ne sarebbe scaturito» (nello stesso senso, tra le tante, Trib. Monza, sez. lav., 1 aprile 2015, n. 154; Trib. Milano, sez. lav., 13 gennaio 2015, n. 3609; T.A.R. Catanzaro, sez. 1, 21 marzo 2013, n. 299).

Segue. La colpa e il relativo onere della prova

La saldatura tra la condotta commissiva od omissiva del datore di lavoro e il requisito della colpa si riscontra nel principio (menzionato supra) secondo cui l'art. 2087 c.c. individuerebbe il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile. L'individuazione di una misura della diligenza posta così oltre la regola di cui all'art. 1176 c.c. rischia di identificare un obbligo assolutamente indeterminato, tanto che sembra doversi optare per una lettura della regola nel senso che essa imporrebbe la massima sicurezza ragionevolmente praticabile (cfr. Cass. civ., sez. lav., 1 giugno 2006, n. 13053; Cass. civ., sez. lav., 14 agosto 2004, n. 15896; Cass. civ., sez. lav., 5 marzo 2002, n. 3162). In questa chiave può leggersi il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale proprio la regola della diligenza (pur, beninteso, trattandosi di una diligenza particolarmente qualificata) imporrebbe di valutare il contenuto dell'obbligo in relazione alle fonti che lo determinano e non consentirebbe di individuare un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno (il principio è largamente affermato in giurisprudenza: cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., 22 gennaio 2014, n. 1312; Cass. civ., sez. lav., 7 agosto 2012, n. 14192; Cass. civ., sez. lav. 12 luglio 2004, n. 12863; Cass. civ., sez. lav. 1 giugno 2004, n. 10510; Cass. civ., sez. lav. 10 maggio 2000, n. 6018).

In particolare, elemento costitutivo imprescindibile di quella che, diversamente, si tradurrebbe in un'ipotesi di responsabilità oggettiva, risulta essere la colpa del datore di lavoro (cfr. Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 9689), quale difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire ragioni di danno per il lavoratore (cfr. Cass. civ., sez. lav., 7 agosto 2012, n. 14192), da valutarsi, oltre che in considerazione della concreta realtà aziendale, anche, più in generale, della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico (cfr. Cass. civ., sez. lav., 24 gennaio 2014, n. 1477; nonché, in tema di cautele contro il rischio amianto, ad es., la più risalente Cass. civ., sez. lav., 14 gennaio 2005, n. 644).

La responsabilità del datore, dunque, richiede la sussistenza di un comportamento inadempiente (cfr. Cass. civ., sez. lav., 27 luglio 2010, n. 17547), che può però essere identificato come tale solo in quanto colposo, ovvero in quanto il conseguente evento lesivo della salute del lavoratore fosse prevedibile ed evitabile (cfr. Cass. pen., sez. IV, 19 febbraio 1998, n. 453). Risiede proprio nella natura generale del comando previsto dall'art. 2087 la ragione della necessaria sussistenza del requisito della colpa, che consente di coniugare il piano dei requisiti sostanziali con quello dei profili attinenti all'onere della prova dell'inadempimento di obbligazioni contrattuali, di cui all'art. 1218 c.c. (cfr., in tema di ripartizione dell'onere della prova dell'inadempimento di obbligazioni contrattuali, la nota Cass. civ., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533). In giurisprudenza si è infatti affermato che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell'art. 1218 c.c. circa l'inadempimento delle obbligazioni, da ciò discendendo che il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, la sussistenza del danno e il nesso causale, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile, e cioè di aver adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure possibili e idonee ad evitare il danno (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., 24 gennaio 2014, n. 1477; Cass. civ., sez. lav., 18 luglio 2013, n. 17585; Cass. civ., sez. lav., 1 luglio 2013, n. 16452; Cass. civ., sez. lav., 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. civ., sez. lav., 20 maggio 2010, n. 12351; Cass. civ., sez. lav., 17 febbraio 2009, n. 3788; Cass. civ., sez. lav., 13 agosto 2008, n. 21590).

Interpretando in modo rigoroso i principi enucleati, proprio per evitare che l'ombra della responsabilità oggettiva, esclusa sul piano teorico, venga a materializzarsi in concreto, si deve concludere che l'elemento della colpa non può essere apoditticamente dedotto dalla circostanza della mancata predisposizione di una particolare misura di prevenzione senza aver previamente individuato quale fosse nel caso concreto il fattore di rischio che ne avrebbe richiesto l'adozione. Tale principio è stato affermato di recente dalla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. civ., sez. lav., 17 dicembre 2015, n. 25395, con nota di F. Agnino, Il datore di lavoro e la responsabilità: è necessario individuare la fonte del rischio, in Ri.Da.Re.), che, in relazione all'infortunio occorso a un lavoratore, vittima di una caduta nel sottopasso che collegava la mensa aziendale agli uffici ove prestava la propria attività, ha affermato proprio che l'accertamento della responsabilità datoriale non può prescindere dalla previa individuazione della situazione generativa del rischio. Senza la definizione di questa, sarebbe impossibile per il giudice verificare il rispetto delle misure di protezione richieste dalle norme di legge o dalle regole di prudenza, verifica che gli consentirebbe di escludere la colpa del datore di lavoro in relazione all'infortunio.

Da ciò non discende, tuttavia, che l'onere della prova relativo all'elemento della colpa debba ricadere sul lavoratore: in conformità ai principi generali, è comunque il datore di lavoro a dover dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire il sinistro. Ma proprio il requisito dell'idoneità deve essere perimetrato in relazione a un parametro di riferimento, che la Cassazione definisce, appunto, situazione generativa del rischio. Questa deve essere allegata dal lavoratore, in modo che l'onus probandi datoriale non finisca per rivelarsi così indeterminato da rendere, di fatto, oggettiva la responsabilità in questione.

Tali conclusioni hanno rilievo principalmente allorquando la responsabilità datoriale sia invocata essenzialmente sulla base della violazione dell'obbligo generale di cui all'art. 2087, piuttosto che nel caso di violazione delle misure di sicurezza cd. nominate previste dalla normativa speciale. Infatti, non si è mancato di sottolineare come, nelle due ipotesi, gli oneri probatori si configurerebbero in modo lievemente differente (cfr. Cass. civ., sez. lav., 25 maggio 2006, n. 12445): nel secondo caso sarebbe sufficiente che il lavoratore si limitasse a provare l'inadempimento e il nesso eziologico con l'evento, lasciando al datore la prova liberatoria consistente nella negazione dell'azione/omissione; nel primo, invece, la prova liberatoria verterebbe, appunto, sull'idoneità preventiva delle misure adottate, che non può essere dimostrata se non in virtù della preventiva allegazione del lavoratore che circoscriva l'onere alla fonte di pericolo che sarebbe stata individuabile ex ante.

L'onere di allegazione descritto non pare requisito coincidente con quello posto da quel filone giurisprudenziale secondo cui sarebbe esigibile, da parte del lavoratore, la prova «che vi è stata omissione nel predisporre le misure di sicurezza necessarie ad evitare il danno» (Cass. civ., sez. lav., 17 maggio 2006, n. 11523; in senso analogo, cfr. Cass. civ., sez. lav., 23 luglio 2004, n. 13887; Cass. civ., sez. lav., 12 luglio 2004, n. 12863). Infatti tale orientamento, invero lievemente risalente, sembrerebbe addossare al lavoratore anche l'onere della prova della colpa, che, invece, nella ricostruzione di cui alla pronuncia sopra indicata rimane integralmente a carico del datore, salvo, come detto, il previo onere di allegazione incombente sul prestatore. La questione, ad ogni modo, pare stemperata dal fatto che, se non ci si limita alla lettura del mero principio di diritto ma si considera l'intero iter argomentativo delle pronunce di cui a tale meno recente filone, si desume che il principio stesso, seppure diversamente formulato, viene impiegato, in sostanza, per finalità analoghe a quelle avute di mira dagli ultimi approdi giurisprudenziali, ovvero quelle di circoscrivere – non già di escludere - l'onere datoriale di fornire una prova liberatoria

In conclusione

L'assetto del riparto degli oneri probatori in tema di responsabilità ex art. 2087 c.c. ricavabile dalle pronunce giurisprudenziali analizzate pare orientato alla medesima ratio di escludere che tale responsabilità finisca per integrare, di fatto, un'ipotesi di responsabilità oggettiva, attribuendo, invece, rilievo effettivo al presupposto della colpa. In tale ottica pare coerente – vuoi con la natura contrattuale della responsabilità, vuoi con la ripartizione dell'onere della prova che ne consegue - l'orientamento che ravvisa un onere di allegazione in capo al lavoratore della situazione generativa del rischio, ovvero della pericolosità dell'ambiente, come requisito di delimitazione, e non di attenuazione, dell'oggetto della prova relativa all'insussistenza della colpa, il cui onere resta in capo al datore di lavoro.

Guida all'approfondimento

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CAPONETTI S., Superlavoro e dovere di sicurezza del lavoratore verso se stesso: un caso estremo che vale l'applicazione del brocardo civilistico volenti non fit iniuria, ADL, 2015, II, 1321 ss.;

DEL PUNTA R., Diritti della persona e contratto di lavoro, DLRI, 2006, 195 ss.;

DE MATTEIS A. e Giubboni S., Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Giuffrè, Milano, 2005;

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MALZANI F., Ambiente di lavoro e tutela della persona, Giuffrè, Milano, 2014;

TULLINI P., I sistemi di gestione della prevenzione e della sicurezza sul lavoro, DLRI, 2010, 403 ss.;

TULLINI P., A rischio amianto?, RIDL, 2007, I, 453 ss.;

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