Violazione delle distanze legali tra costruzioni e danno in re ipsa

Alessandro Benni de Sena
07 Novembre 2016

L'Autore si sofferma sull'analisi del fondamento dell'orientamento giurisprudenziale di legittimità che, in caso di violazione di norme sulle distanze legali codicistiche, ritiene sussistente un danno in re ipsa, che non necessita di particolare attività probatoria e che può essere liquidato dal giudice in via equitativa.
Inquadramento

In tema di proprietà edilizia è fondamentale la distinzione tra due gruppi di norme: da una parte gli artt. 869-871 c.c., dall'altra gli artt. 873 ss. c.c.

Infatti, come si ricava dall'art. 872, comma 2,c.c., il primo gruppo attiene alla regolamentazione di carattere amministrativo (limiti di altezza, di volume per area, norme igieniche, norme di ornato, etc.) stabilita in leggi speciali e dai regolamenti edilizi comunali, in virtù della quale il privato non è titolare di un diritto soggettivo, ma solo di un interesse legittimo, con la conseguenza che il privato potrà chiedere, in caso di violazione delle norme, il risarcimento del danno. L'opera abusiva potrà essere abbattuta solo ad iniziativa della Pubblica Amministrazione.

Al secondo gruppo appartengono le norme sulle distanze tra i fabbricati e le norme di fonte diversa (leggi speciali, regolamenti) che sono richiamate dalle regole in materia di distanze o che le integrano. Tali regole dettano norme privatistiche a tutela della proprietà nei rapporti di vicinato. In caso di violazione, spetta una doppia tutela, sia con un'azione reale-ripristinatoria assimilabile all'actio negatoria servitutis, sia con un'azione risarcitoria.

In senso lato, ad entrambi i gruppi di norme non sono estranei al contempo l'interesse privato e l'interesse generale, ma ciascun gruppo ne è connotato in misura differente. Anche il primo gruppo di norme rientra nei rapporti di vicinato, ma presenta un carattere diverso: sull'aspetto del conflitto tra i privati prevale l'interessepubblico a stabilire determinate modalità e limiti alla costruzione degli edifici, determinando solo indirettamente un vantaggio per il singolo proprietario. Nel secondo gruppo di norme non si può escludere anche il perseguimento di interessi generali (ordinato sviluppo urbanistico, tutela dell'igiene e della salute), sia pure prevalendo l'aspetto privatistico. Dalla diversità di carattere si giustificano le diverse conseguenze sanzionatorie.

La distinzione appena accennata rimane fondamentale anche per il tema prefissatoci. Se, infatti, il rimedio risarcitorio è comune alla violazione delle due fattispecie evidenziate, radicalmente diverso è lo statuto nei due casi, stante la diversità dell'inquadramento sistematico e della natura della violazione.

Secondo la giurisprudenza di legittimità più recente, il danno conseguente alla violazione delle norme del codice civile ed integrative di queste, relative alle distanze nelle costruzioni, si identifica nella violazione stessa, determinando un asservimento di fatto del fondo del vicino, al quale competerà il risarcimento del danno senza la necessità di una specifica attività probatoria. In difetto di precise indicazioni del danneggiato, il danno è liquidato dal giudice in via equitativa.

La violazione delle altre regole non integrative del c.c. potrebbe, sul piano privatistico, non avere conseguenze, in quanto la loro inosservanza non lede immediatamente un diritto soggettivo. Quindi, fermi i rimedi di carattere amministrativo, sul piano risarcitorio solo se la violazione determina una diminuzione patrimoniale sussiste una lesione che trova ristoro nel risarcimento del danno. Mancando un asservimento di fatto del fondo, occorre fornire la prova della potenziale esistenza di un danno ed una dimostrazione precisa e rigorosa della sua entità oggettiva, alla stregue delle regole ordinarie.

Violazione di norme e successione di leggi nel tempo

Prima di procedere oltre nell'approfondimento sulla pretesa configurabilità di un danno in re ipsa, occorre confrontarsi sulle sorti dell'azione risarcitoria nel caso di mutamento del quadro normativo.

Regola generaledi diritto sostanziale è che il rispetto delle distanze legali tra costruzioni e le relative conseguenze vanno accertate con riferimento alla normativa vigente al momento della edificazione, in forza del principio di irretroattività delle leggi, anche se la controversia sorga dopo l'intervento normativo (Cass. civ., sez. II, 15 marzo 2001, n. 3771).

Diverso è il caso di previsioni locali restrittive sopravvenute in corso di costruzione. Data la loro applicazione immediata, è dirimente lo stato di avanzamento dei lavori. In particolare, «nel caso in cui dopo la concessione edilizia sopravvengano nuove norme sulle distanze tra edifici, o sulla loro volumetria od altezza, il costruttore deve conformarsi allo "ius superveniens" (art. 11 disp. prel. c.c.), salvo che la costruzione sia già iniziata, perché in tal caso, se la nuova disciplina è più restrittiva della precedente, non può esplicare efficacia retroattiva su una situazione già consolidatasi» (Cass. civ., sez. II, 04 agosto 1997, n. 7185). Si è specificato che è determinante non l'inizio dell'opera, ma, meglio, il suo completamento nella sua struttura essenziale. E così la nuova disciplina più restrittiva non è applicabile alle nuove costruzioni che al momento della sua entrata in vigore possono considerarsi già sorte, per l'attuale realizzazione delle strutture organiche, che costituiscono il punto di riferimento per la misurazione delle distanze legali (Cass. civ., sez. II, 24 giugno 2008, n. 17160; Cass. civ., sez. II, 22 settembre 2010, n. 20038).

Sul piano probatorio spetta al proprietario che chiede la demolizione dell'opera in violazione della normativa sulle distanze dimostrare che al momento dell'entrata in vigore della disciplina più rigorosa essa non era completata (Cass. civ., sez. II, 9 gennaio 1998, n. 141).

Altro caso è la successione di disposizioni più favorevoli dopo l'ultimazione della costruzione. «Nell'ipotesi di nuove norme meno restrittive, il principio dell'immediata applicabilità dello "jus superveniens" trova unico limite nell'eventuale giudicato formatosi nella controversia sulla legittimità o non della costruzione, con la conseguenza che non può disporsi la demolizione degli edifici originariamente illeciti alla stregua delle precedenti norme e che siano consentiti dalla normativa sopravvenuta, né, qualora la costruzione risulti illegittima anche alla stregua della disciplina sopravvenuta, ordinarsene l'arretramento in misura maggiore di quella necessaria ad assicurare il rispetto della nuova prescrizione» (Cass. civ., sez. II, 3 febbraio 1998, n. 1047; Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 2000, n. 1565). Pur rimanendo sussistente l'illecito di chi abbia costruito in violazione di norme giuridiche allora vigenti e la sua responsabilità per i danni subiti dal confinante fino all'entrata in vigore della normativa meno restrittiva, viene però meno l'illegittimità della situazione di fatto determinatasi con la costruzione, essendo questa conforme alla normativa successiva e quindi del tutto identica a quella delle costruzioni realizzate dopo la sua entrata in vigore (Cass. civ., sez. II, 28 maggio 2003, n. 8512; Cass. civ., sez. II, 22 febbraio 1998, n. 1368).

Per quanto ci interessa, quindi, in caso di successione di disposizioni più favorevoli, spetta il diritto al risarcimento del danno subito medio tempore, ossia in riferimento al periodo di vigenza della disciplina pregressa più limitativa.

Resta da ricordare che le norme sulle distanze di cui all'art. 873 c.c., dettate a tutela di reciproci diritti soggettivi dei singoli e miranti unicamente ad evitare la creazione di intercapedini antigieniche e pericolose, sono derogabili mediante convenzione tra privati. Le norme degli strumenti urbanistici locali che impongono di mantenere le distanze fra fabbricati o di questi dai confini non sono invece derogabili, perché dirette, più che alla tutela di interessi privati, a quella di interessi generali, pubblici in materia urbanistica e come tali inderogabili, con la conseguente invalidità delle convenzioni in contrasto con dette norme, anche tra i proprietari di fondi confinanti che le hanno pattuite (Cass. civ., sez. II, 31 maggio 2006, n. 12966).

Tuttavia, la valorizzazione della componente, pur presente, anche di tutela di interessi generali (e non solo privati) porterebbe ad una soluzione opposta, ossia per l'inderogabilità.

Danno in re ipsa: fondamento, condizioni e criterî di liquidazione

Dopo un lungo contrasto la giurisprudenza della Corte di Cassazione da qualche anno è costante nell'affermare che, in tema di violazione della distanza tra costruzioni prevista dal c.c. e dalle norme integrative dello stesso, al proprietario confinante che lamenti tale violazione spetta, oltre alla tutela reale, anche quella risarcitoria. In particolare, il danno subito deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria, poiché l'effetto, certo ed indiscutibile dell'abusiva imposizione di una servitù di fatto nel proprio fondo e, dunque, della limitazione del relativo godimento, si traduce in una limitazione temporanea del valore della medesima. Il danno potrà essere eventualmente liquidato in via equitativa dal giudice (recente, Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 2016, n. 2848; Cass. civ., 2 febbraio 2016, n. 1989; Cass. civ., 11 dicembre 2015, n. 25033; Cass. civ., 22 luglio 2014, n. 17786; Cass. civ., 10 novembre 2011, n. 23553; Cass. civ., 16 dicembre 2010, n. 25475; Cass. civ., 7 maggio 2010, n. 11196; quanto all'orientamento contrario, l'ultima sentenza di legittimità che afferma che la violazione delle norme codicistiche sulle distanze legali o sue integrative, mentre legittima sempre la condanna alla riduzione in pristino, non costituisce di per sé fonte di danno risarcibile, essendo al riguardo sempre necessario che chi agisce per la sua liquidazione deduca e dimostri l'esistenza e la misura del pregiudizio effettivamente subito, è Cass. civ., sez. II, 24 settembre 2009, n. 20608).

È opportuno riportare il percorso argomentativo di tale orientamento (si veda, ad esempio, Cass. civ., n. 25475/2010 cit.), poiché evidenzia esso stesso le problematiche e le criticità sottese:

- l'inosservanza delle distanze legali lede interessi pubblici e, nei rapporti tra privati, la normativa conformativa del diritto di proprietà. Da qui la doppia tutela reale e risarcitoria riconosciuta dalla legge;

- tale inosservanza costituisce per il vicino una limitazione al godimento del bene, quindi di una delle facoltà che si riconnettono al diritto di proprietà; per tale ragione il danno è in re ipsa: l'azione risarcitoria è volta a porre rimedio all'imposizione di una servitù di fatto e alla conseguente diminuzione del valore del fondo fino all'eliminazione dell'abuso;

- questa soluzione non determina un eccesso di tutela o uno snaturamento del sistema della responsabilità civile (che ammette la risarcibilità del solo danno conseguenza). In particolare, riconoscere un danno in re ipsa non significa riconoscere che il risarcimento viene accordato per il solo fatto del comportamento lesivo o che si risolve in una pena privata nei confronti di chi violi l'altrui diritto di proprietà. Al contrario, significa ammettere che il danno che il proprietario subisce (danno conseguenza e non danno evento) è l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima.

Come accennato nel primo paragrafo, il principio esposto non vale ove si tratti di violazioni di disposizioni non integrative di quelle delle distanze: in questo caso, mancando un asservimento di fatto, la prova del danno è richiesta ed il proprietario è tenuto a fornire una dimostrazione precisa dell'esistenza del danno, sia in ordine alla sua potenziale esistenza, sia alla sua entità oggettiva, in termini di amenità, comodità, tranquillità ed altro.

Conseguenza diretta di tale impostazione è la trascrivibilità della domanda diretta a denunziare la violazione della distanza legale da parte del proprietario del fondo vicino e ad ottenere l'arretramento della sua costruzione, poiché tende a salvaguardare il diritto di proprietà dell'attore dalla costituzione di una servitù di contenuto contrario al limite violato e ad impedirne tanto l'esercizio attuale, quanto il suo acquisto per usucapione, e, quindi, ha natura di actio negatoria servitutis. La trascrizione avviene ai sensi sia dell'art. 2653, n. 1 c.c. che, ritenuta suscettibile di interpretazione estensiva, è applicabile anche alle domande dirette all'accertamento negativo dell'esistenza di diritti reali di godimento, sia del successivo n. 5, che dichiara trascrivibili le domande che interrompono il corso dell'usucapione su beni immobili (Cass. civ., sez. II, 15 maggio 2015, n. 10005; Cass. civ., Sez. Un., 12 giugno 2006, n. 13523).

L'orientamento precedente era di segno opposto: la domanda diretta all'accertamento di una limitazione legale della proprietà del vicino, inerendo al contenuto normale del diritto di proprietà, non rientra tra quelle soggette all'onere della trascrizione, atteso che detta domanda non tende all'accertamento positivo o negativo di un diritto di proprietà o reale di godimento (art. 2653 n. 1 c.c.), ma solo un limite a carico del diritto di proprietà, né è diretta ad interrompere il corso dell'usucapione del diritto di proprietà come previsto dall'art. 2653 n. 5 c.c., ma solo l'usucapione della servitù derivante alla violazione delle limitazioni legali, ipotesi che resta esclusa dall'ambito di previsione di tale norma, insuscettibile di applicazione analogica atteso il carattere tassativo delle norme sulla trascrizione. Ne consegue che il giudicato è sempre opponibile ai successivi acquirenti dell'immobile cui si riferiscono le violazioni dei limiti legali denunziate dall'attore (Cass. civ., sez. II, 11 agosto 1990, n. 8190; Cass. civ., sez. II, 22 aprile 1980, n. 2592).

È evidente l'inversione di rotta presa dalla giurisprudenza di legittimità più recente.

Certo l'an, si pone il problema del quantum. Anche ricorrendo al criterio equitativo, in caso di obiettiva e palese difficoltà di quantificazione economica del pregiudizio subito, resta un interrogativo pratico: a quali parametri va agganciata questa liquidazione?

La stessa Giurisprudenza ha cercato di individuare gli elementi di valutazione. In via generale, il risarcimento del danno per asservimento del fondo andrà liquidato con riferimento alla riduzione dei parametri di soleggiamento e panoramicità e, in genere, del godimento dell'immobile.

Tale danno non consiste solo nel deprezzamento commerciale del bene o nella totale perdita di godimento di esso, ma anche nella indebita limitazione del pieno godimento del fondo in termini di diminuzione di amenità, comodità e tranquillità, trattandosi di effetti pregiudizievoli egualmente suscettibili di valutazione patrimoniale.

In particolare, si sono individuati alcuni criterî concorrenti (Trib. Modena, 10 aprile 2014 n. 638) che tengono conto:

a) della perdita di valore del fabbricato danneggiato per diminuzione di visuale, esposizione, luce, aria, sole, comodità, tranquillità, amenità in genere, con conseguente deprezzamento commerciale;

b) del costo di un intervento edilizio di ripristino, che può costituire base per il calcolo del deprezzamento subito dall'immobile danneggiato;

c) del vantaggio conseguito per effetto dell'illecito;

d) dei costi aggiuntivi per l'immobile danneggiato (ad esempio, maggior consumo di energia elettrica, metano, etc.).

Non è questa la sede per soffermarci su questa singola decisione di merito, tuttavia occorre subito evidenziare come una siffatta impostazione apre davvero la strada ai c.d. danni punitivi (con particolare riferimento al criterio del vantaggio conseguito per effetto dell'illecito) e ad un'estensione della responsabilità civile oltre le sue regole tipiche, come vedremo.

Ad ogni modo, la configurazione di un danno (patrimoniale) per la limitazione del godimento non esaurisce ed esclude altri tipi di danni subiti, da allegare e provare puntualmente.

Così vi potranno essere danni patrimoniali costituiti dai costi di ripristino del fondo finitimo danneggiato. Si pensi all'intercapedine insalubre che abbia determinato l'ammaloramento della facciata, piuttosto che alla modifica del piano di campagna con conseguente modifica dello scolo delle acque che ha determinato un'erosione del fondo vicino con disconnessione della pavimentazione. Non si può sottacere anche che la ratio di evitare intercapedini dannose non riguarda solo l'aspetto della salubrità, ma anche della sicurezza. Per tale via non si può escludere un contenzioso simile a quello che si propone per il caso dei ponteggi, con tutte le problematiche connesse, ove il manufatto edificato a distanza irregolare abbia facilito l'accesso al fondo del vicino. Si tratta di danni che dovranno essere allegati e provati secondo le regole ordinarie.

Non si può, poi, escludere a priori la sussistenza di un danno non patrimoniale, anche se deve essere valutato con molta attenzione al fine di non dare ingresso a danni solo vagheggiati o immaginati. Alla luce della concreta gravità dell'offesa si potrebbe discutere di danni alla salute (insalubrità) o comunque non patrimoniali, dovendosi, però, allegare e provare in concreto la lesione all'integrità psico-fisica oppure il peggioramento della qualità della vita, anche in relazione al diritto alla riservatezza.

Tutti questi danni, diversi da quello patrimoniale derivante dalla limitazione del godimento del diritto di proprietà, non sono in re ipsa e devono eventualmente essere allegati e provati in modo rigoroso.

Tale distinzione di voci di danno pone una delicata questione: il danno in re ipsa per limitazione del diritto di godimento, proprio per la sua caratteristica ontologica, potrebbe sfumare in un ristoro di una lesione “personale” di godimento. I due piani (danno patrimoniale e danno non patrimoniale) non vanno confusi e la giurisprudenza pare attenta, almeno in linea di principio, a mantenere la valutazione del danno in re ipsa ancorata a parametri economici di deprezzamento dell'immobile.

Per tale ragione, il danno potrebbe, in realtà, anche non sussistere, sol pensando a violazioni che non determinino una diminuzione di visuale, esposizione, luce, aria, sole, comodità, tranquillità, amenità in genere, con conseguente deprezzamento commerciale (v., in tal senso, Trib. Milano, G.I. dr. D. Spera, sent. 25 agosto 2015 n. 9590

Osservazioni critiche

L'ultima considerazione svolta pone in dubbio che si possa parlare di danno in re ipsa, se, alla luce dei criterî equitativi di liquidazione, non è possibile riconoscere una seria ed apprezzabile lesione economica. È chiaro che il danno sussiste sempre oppure non è in re ipsa.

Non è tuttavia questa banale osservazione a mettere in dubbio le argomentazioni della Suprema Corte. È il suo stesso percorso argomentativo, nei suoi presupposti logico-giuridici, a non essere adeguatamente solido o comunque condivisibile, come cercheremo di evidenziare ricorrendo ai noti criterî ermeneutici.

La riconduzione ad un asservimento, sia pure di fatto, è seriamente revocabile in dubbio. L'an debeatur (ossia l'effetto certo e indiscutibile dell'abusiva imposizione di una servitù di fatto) viene dato come presupposto senza, invero, una fondata argomentazione sulla natura della limitazione della proprietà.

Come sappiamo, il concetto di (diritto di) proprietà comprende la facoltà per il suo titolare di servirsi della cosa, di ricavarne tutti i frutti e le utilità possibili, di modificarla e persino di distruggerla. Tale nozione, astratta, è incompleta, perché qualsiasi diritto esiste in concreto, si realizza e può farsi valere solo nei rapporti da uomo a uomo. Detto diversamente, il diritto di proprietà non può consistere sempre o solo nella facoltà positiva di azione, ma deve anche necessariamente consistere, per necessità sociale, di una parte negativa o di inazione (obbligo giuridico di non fare oppure obbligo giuridico di agire in un determinato modo).

Da qui è nata la teoria dei limiti della proprietà, che possono essere di diversa natura: vi sono limiti riguardanti la generalità dei cittadini e hanno natura di ordine di interesse pubblico; vi sono limiti riguardanti esclusivamente il bisogno di evitare conflitti tra proprietari vicini e fissano regole di buon vicinato e sono di ordine di interesse privato.

Tra i limiti posti nell'interesse privato, vi è la disciplina degli atti emulativi (art. 833 c.c.), delle immissioni (art. 844 c.c.), dell'estensione verticale della proprietà e dell'accesso al fondo (artt. 840, 841, 842 e 843 c.c.).

La dottrina più recente discute di proprietà conformata, facendo riferimento a tutte quelle regole (tra loro piuttosto eterogenee) che delineano una particolare configurazione della proprietà in ragione delle limitazioni poste dalla legge a carico del proprietario per perseguire, come detto, interessi pubblici o privati. Tra queste ultime limitazioni rientrano le previsioni sulla proprietà edilizia e sulle distanze legali tra costruzioni.

Se tali limiti vanno a configurare il diritto di proprietà, appare discutibile ragionare in termini di servitù, sia pure di fatto: è un accostamento che, nella sua assolutezza, rischia, come lo è, di essere fuorviante.

Il problema è che le limitazioni legali alla proprietà, anche nell'interesse privato, hanno natura diversa. Basti pensare alla disciplina delle immissioni, ove è previsto un indennizzo, poiché si configura un atto lecito dannoso, per cui si può dire che l'atto immissivo può essere qualificato come esercizio del diritto di proprietà.

Non è così per la violazione delle distanze legali, dove è previsto il risarcimento del danno (art. 872 comma 2 c.c.). Si tratta di una violazione di un limite di legge (peraltro, automatico, reciproco e gratuito), che non presuppone l'esercizio del diritto di proprietà (siamo in presenza di un atto illecito), che è meramente accidentale e descrittivo, come pure l'asservimento di fatto.

L'inconfigurabilità di una servitù di fatto è suffragata anche da argomentazioni di ordine storico e sistematico.

Sotto la vigenza del codice del 1865 si discuteva di distanze legali in termini di servitù legali, ma completamente diverso era l'inquadramento codicistico (artt. 533 e ss.), che, figlio del Code Napoleon, trattava queste limitazioni sotto la rubrica delle servitù. L'art. 535 prevedeva che «le servitù che la legge impone per utilità privata sono determinate dalle legge, dai regolamenti sulla polizia campestre e dalle disposizioni della presente sezione». Seguivano, quindi, regole sui muri, edifici, fossi comuni, distanze, scavi, piantagioni, luci e vedute, etc.

Dottrina e giurisprudenza rigettavano l'idea che tali restrizioni avessero natura di servitù sia pure legali: esse non aumentano o diminuiscono i diritti dell'uno o dell'altro proprietario; non è stabilita la tipica indennità a favore del proprietario del fondo servente; si tratta di limitazioni reciproche imposte all'esercizio del diritto di proprietà affinché non segua reciproco nocumento, non esistendo un fondo servente e un fondo dominante.

Tali osservazioni sono tutt'oggi valide.

Se a livello descrittivo l'esclusione della servitù era ed è indiscutibile, era problematico individuare il fondamento giuridico dei limiti: ora si discuteva di misura di prevenzione del danno, ora di quasi-contratto (nel senso di imporre al proprietario che voglia procedere in suo all'esecuzione di opera di seguire certe regole), quindi di obbligazioni di vicinato (che danno luogo ad azioni reali), ora di oneri reali.

Tornando ai giorni nostri, il legislatore del '42 ha chiaramente escluso che i limiti delle distanze legali costituiscano una servitù legale. Le servitù sono sistematicamente disciplinate in modo separato nel Titolo IV del Libro II e non nel titolo II del medesimo Libro contenente la disciplina della proprietà fondiaria.

Tale dato storico e sistematico ci permette di osservare come la configurazione di un danno in re ipsa in forza di una pretesa riconduzione della limitazione nell'interesse privato ad una servitù, anche solo di fatto, non è sostenibile.

Accertata la violazione, si è in sicura presenza di un illecito, ma il danno non sussiste automaticamente, tanto più che stiamo ragionando di danno patrimoniale da deprezzamento, che può essere provato alla stregua delle regole ordinarie.

Vi è un altro passaggio motivazionale che non convince e che non è argomentato: la relazione tra (violazione della) distanza legale e (lesione del) diritto di godimento, tale da far ritenere certo ed ineludibile il danno in caso di violazione.

Si tratta di affermazione puramente formale (PASCUZZI, 92). L'argomentare, da una parte, si rifà alla teoria del danno evento, facendo coincidere danno e lesione ed è inamissibile; dall'altra, presuppone che il rispetto delle distanze legali rappresenti una sorta di estensione del proprio diritto di proprietà edilizia, cosa indimostrata e contraria ad un'interpretazione letterale e sistematica.

L'art. 840 c.c., sull'estensione fisica del diritto di proprietà del suolo, chiaramente non autorizza tale interpretazione. Nel momento in cui passiamo dalla proprietà del suolo alla proprietà edilizia il ragionamento non cambia: anche in forza del principio dell'accessione non siamo autorizzati ad ipotizzare che le opere costruite abbiano uno statuto/estensione maggiore della proprietà del suolo in termini di distanze.

In seconda battuta il diritto del vicino al rispetto delle distanze legali è individuabile a contrario, essendoci primariamente un obbligo di tenere, ad esempio, le costruzioni a distanza non minore di tre metri (art. 873 c.c.). Vi è un dovere conformativo di chi costruisce e non il riconoscimento in capo al vicino di una maggiore estensione del suo diritto di proprietà, tale da configurare un rapporto tra fondo servente e fondo dominante. Non è possibile riconoscere quell'elemento tipico della servitù che letteralmente costituisce un diritto reale in re aliena, ove quest'ultimo stato fisicamente non vi è.

La Cassazione individua una servitù (di fatto) di contenuto contrario al limite legale dedotto in giudizio. Tale passaggio logico non è motivato. «Proiettare un diverso ipotetico stato di libertà dei fondi, rispetto al quale prospettare come servitù il regime legale delle distanze …, può costituire una inutile complicazione» (Grosso-Deiana, 302).

Diversamente ragionando, ogni violazione, di qualsiasi natura, dell'altrui sfera giuridica comporterebbe un asservimento, in quanto la invado/ledo e occorre sopportare tale ingerenza fino alla sua cessazione, se è vero che, nei rapporti umani-sociali e in via del tutto generale, la libertà di ciascuno arriva fin dove inizia la libertà altrui. L'asservimento è puramente descrittivo (e fuorviante) e non vale a sostenere una qualificazione giuridica in tali termini della violazione.

Detto altrimenti, l'orientamento della Cassazione pare sovrapporre e confondere il concetto di distanze legali e quello di diritto di proprietà. A ben vedere, l'oggetto della tutela non è tanto il diritto proprietario, quanto il concreto interesse (economico e non) del suo titolare, che, come tale, dovrebbe essere provato alla stregua delle regole ordinarie.

La Cassazione, inoltre, pare confondere la responsabilità per il danno arrecato con l'atto illecito nei rapporti di vicinanza. Costruire liberamente nella mia proprietà è perfettamente lecito, quando nessuna prescrizione di distanze o cautele da osservare ponga dei limiti in proposito o questi vengano rispettati. Anche quando l'operazione è lecita, ben può accadere che sia tenuto a rispondere del danno arrecato ad altri, se ricorrono le note condizioni di responsabilità, tra cui la lesione giuridica e la colpa. In tema di violazione dei rapporti di vicinato si prescinde dalla colpa, ma la lesione e la sua entità deve essere allegata a e provata.

D'altra parte, osta all'inquadramento in termini di servitù la stessa disciplina generale dei limiti alla proprietà, ove fa riferimento, nelle eterogenee previsioni, all'esercizio anteriore (vedi prevenzione), allo stato di possesso, alla normale tollerabilità, etc. Tali regole, dunque, sembrano rappresentare dei criterî per risolvere il conflitto tra varî diritti sullo stesso oggetto e non sembrano stabilire i confini tra due sfere distinte di diritti in termini di estensione fisica.

Argomento a favore si ritrova nella considerazione, pacifica, che il legislatore fissa regole generali, prescindendo dal danno (al Giudice è preclusa ogni indagine sulla dannosità, in presenza della violazione); l'obbligo di osservare le distanze sussiste anche se in concreto il danno non si realizza o il pericolo non sia configurabile. L'assenza di discrezionalità per il Giudice riguarda l'illiceità e non la sussistenza del danno, a maggior ragione se si ritiene, come si riconosce, che tali regole tutelano anche interessi pubblici.

In effetti, la protezione del diritto del vicino è indiretta, poiché non deriva da un bilanciamento diretto e concreto tra i diritti dei vicini, ma dalla discrezionalità legislativa in ordine alla misura impositiva, che prescinde, nella ratio legis, dall'indagine dell'esistenza di un danno, che non è elemento diretto e costitutivo della fattispecie e, pertanto, non può considerarsi in re ipsa.

Alla fine, quindi, tutto ruota attorno all'individuazione della natura delle distanze legali.

È un tema troppo vasto per essere trattato in questa sede. A livello descrittivo si tratta di limiti al diritto di proprietà per evitare un reciproco nocumento e per assicurare la salubrità, la sicurezza e l'amenità. Troppo vago.

È necessario ritrovare concetti giuridici fondamentali, ovvero ri-stabilire a monte la centralità della logica e del diritto, giungendo ad una soluzione, che, da una parte, non sacrifichi la proprietà, e, dall'altra, abbia riguardo alle esigenze sociali.

Occorre tracciare chiaramente i confini del proprio diritto e delimitare la lesione di un diritto e la lesione di un interesse nel campo dei rapporti di vicinato.

Come detto, i confini del proprio diritto fondiario sono segnati dai confini stessi del proprio fondo, con certi limiti di altezza e profondità.

La sfera del mio diritto di proprietà è la c.d. sfera interna, data dai confini del mio fondo. Al di là di essa vi è la sfera esterna, sulla quale, però, non si estende il mio diritto di proprietà.

Consegue che la lesione della sfera interna è lesione del diritto di proprietà; la lesione della sfera esterna è lesione di un interesse, economicamente apprezzabile.

Tale interesse è risarcibile a prescindere dalla colpevolezza per espressa previsione normativa (art. 872 c.c.), che altrimenti risulterebbe superfluo rispetto alla regola generale dell'illecito aquiliano. Si tenga presente che storicamente si accordava tutela solo alla lesione di un diritto soggettivo, per cui l'art. 872 c.c. poteva avere una portata maggiore di oggi.

In estrema sintesi, l'assimilazione delle distanze legali alle servitù (sia pure di fatto) è inaccettabile, dal momento che “non è possibile confondere ed assimilare due istituti così profondamente distinti e funzionalmente e strutturalmente, cioè distinti sia in base alla loro stessa funzione sociale, sia in base alla loro struttura e regolamentazione giuridica. Diversa e separata questione è vedere se il contenuto di una limitazione possa essere incluso in una servitù volontaria: essa, che presuppone pur sempre la differenziazione tra i due istituti, attiene alla determinazione del contenuto di una servitù, cioè a stabilire se la libertà delle parti nella costituzione di una servitù e nella determinazione del suo contenuto si estenda fino al punto di rendere possibile che le parti stesse diano vita ad una servitù volontaria, sottoposte alle regole proprie di questa, avente come contenuto quello di un limite legale” (Tamburrino, 60).

In conclusione

Indubbiamente la violazione delle distanze legali può comportare un nocumento per il diritto proprietario del vicino. Tuttavia, l'assimilazione alle servitù, sia pure solo di fatto, con tutte le sue conseguenze, specie con riferimento al danno patrimoniale per cui un eventuale intento speculativo può essere provato alla stregua delle regole comuni (mancata vendita o locazione, etc.), non ci pare sostenibile.

D'altra parte, come accennato, questo danno appare evanescente ed ambiguo, poiché sembra o rischia di risarcire una componente soggettiva del danneggiato in termini di godimento (danno non patrimoniale) e non la facoltà di usare il bene oggetto del diritto. O la diminuzione patrimoniale o di valore in termini di panoramicità, soleggiamento, etc. è dimostrabile, oppure si va a risarcire non una lesione del diritto reale, ma di un diritto personale del titolare in termini di comodità, amenità, etc., ossia un danno riflesso e mediato, occasionato dalla lesione di un interesse proprietario.

Per usare parole altrui in un contesto più ampio, il campo di applicazione della responsabilità civile va crescendo sempre più, tramite un utilizzo sempre più esasperatamente funzionale delle sue regole, ove la sostanza (la volontà del risarcimento) prevale sulla forma (rispetto delle regole): G. PONZANELLI, L'imperialismo della responsabilità civile, in Danno e resp., 2016, 221.

Ove sia assai discutibile l'individuazione di un an sicuro, la liquidazione in via equitativa pare assolvere ad una funzione repressiva e preventiva, in casi come questi. Infatti, non si può nascondere il pericolo concreto ed insito nell'orientamento della Suprema Corte di debordare nel danno punitivo.

Ad ogni modo, al di là della ricostruzione che si voglia preferire, un punto deve essere chiaro: l'orientamento della Suprema Corte non deve far reputare che il diritto al risarcimento spetti per il solo fatto della violazione, demandando al Giudice la liquidazione in via equitativa.

È comunque onere del danneggiato fornire gli elementi di liquidazione specifici e concreti, in assenza dei quali il Giudice non può supplire all'inerzia della parte (in via generale, Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 2016, n. 127; nella specifica materia Trib. Milano, sent. n 9590/2015 cit.).

Pertanto, occorre ribadire la distinzione tra due piani, quello dell'onere probatorio del danno e quello della liquidazione.

Guida all'approfondimento

Per l'analisi delle questioni sotto la vigenza del Codice del 1865, si veda almeno:

P. BONFANTE, Criterio fondamentale dei rapporti di vicinanza, in Riv. dir. civ., 1911, 517

T. BRUNO, voce Costruzioni, scavamenti, piantagioni, in Dig. it., vol. 8, parte IV, Torino, 1926

E. PACIFICI-MAZZONI, Istituzioni di diritto civile italiano, vol. III, p. I, V ed., Torino, 1927, 344 e ss.

G. PIOLA, voce Proprietà, in Dig. it., vol. 19, parte II, Torino, 1925

Nell'attuale sistema normativo:

L. G. CONTURSI LISI, voce Distanze legali (dir. vig.), in Enc. dir., XIII; Giuffrè, 1964

G. GROSSO – G. DEIANA, Le servitù prediali, vol. I, in Tratt. dir. civ., diretto da F. Vassalli, Torino, 1955

F. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, vol. II, Giuffrè, 1965

G. PASCUZZI – BONA, I rapporti di vicinato, Modena, 2010

G. TAMBURRINO, Le servitù, in Giur. sist. civ. e comm., diretta da W. Bigiavi, Torino, 1968

G. TERZAGO – P. TERZAGO, I rapporti di buon vicinato, Giuffrè, 1996

R. TRIOLA, voce Vicinato, in Enc. dir., XLVI, Giuffrè, 1993

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