Frazionamento della domanda di adempimento o di risarcimento e abuso del processo

Antonino Barletta
09 Febbraio 2016

Gli ingiustificati frazionamenti delle domande di adempimento o di risarcimento del danno costituiscono le ipotesi di abuso del processo. La giurisprudenza di legittimità ha più volte affrontato tali questioni, avanzando in tema di parcellizzazione dei crediti pecuniari soluzioni inedite, preordinate a reprimere in modo inflessibile le possibilità di abuso in via preventiva o successiva, ma sollevando non poche perplessità sul piano sistematico. Non mancano però indirizzi volti, in modo assai più rassicurante, a ricondurre il tema nell'ambito dell'applicazione di principi da tempo conosciuti (disponibilità dell'oggetto del processo, limiti oggettivi del giudicato, incontrovertibilità estesa al dedotto e al deducibile, disciplina delle spese processuali,...), che possono essere rivitalizzati proprio nella prospettiva di arginare (e il più possibile eliminare) i pericoli di abuso del processo.
Inammissibilità della domanda di adempimento parziale (il c.d. divieto di frazionamento del credito)

Come noto, il c.d. divieto di frazionamento del credito è stato sancito da Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726 (in Corr. giur., 2008, 745 ss., con nota di P. Rescigno), in quanto contrario ai doveri di correttezza e solidarietà di cui all'art. 2 Cost. (G. Morlini, Abuso del processo da frazionamento della domanda giudiziale e del credito unitario, in Ri.Da.Re.). Difatti, tali fondamentali canoni di comportamento devono essere applicati anche nei confronti di chi sia (affermato quale) responsabile del mancato soddisfacimento dell'interesse creditorio, al fine d'impedire che la parcellizzazione del credito in sede giudiziale abbia a comportare un ingiustificato aggravamento delle conseguenze dell'inadempimento. In proposito le Sezioni Unite nel 2007 hanno sottolineato che il creditore ha la facoltà di accettare l'adempimento parziale in relazione alle obbligazioni divisibili ai sensi dell'art. 1181 c.c., mentre non ha il diritto di richiedere una frazione del dovuto, con riserva di agire in seguito per il residuo, prendendo le distanze da quanto in precedenza affermato in senso contrario poco più di un lustro prima da Cass., Sez. Un., 10 aprile 2000, n. 108. Tale comportamento si sostanzierebbe, perciò, in un frazionamento (non tanto del diritto di credito, quanto) della domanda di adempimento, che si ritiene vietato in relazione al canone dell'art. 111, comma 1, Cost., poiché darebbe luogo ad un processo non «giusto» in quanto «frutto di abuso (…) per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi, giacché «la disarticolazione, da parte del creditore, dell'unità sostanziale del rapporto (sia pure nella fase patologica della coazione all'adempimento), in quanto attuata nel processo e tramite il processo di risolve automaticamente anche in abuso dello stesso» (entrambe le citazioni sono riferibili a Cass., Sez. Un., 15. novembre 2007, n. 23726, cit.; nello stesso senso Cass., sez. III, 20 novembre 2009, n. 24539; Cass., sez. III, 11 giugno 2008, n. 15476).

D'altra parte, la pronuncia delle Sezioni Unite non può essere intesa nel senso che la domanda di adempimento parziale sia sempre ingiustificata. Alla base di tale rilievo – come abbiamo visto – vi è la considerazione secondo cui la domanda giudiziale di condanna all'adempimento parziale di un'obbligazione determina un aggravamento immotivato della posizione del debitore inadempiente. La dottrina, però, evidenzia come il creditore possa essere portatore di un interesse all'adempimento parziale, soprattutto per ciò che concerne le obbligazioni di natura non pecuniaria (C. Tranquillo, L'esecuzione parziale del rapporto obbligatorio, Giuffrè, 2006, 86 ss.).

Inoltre, nel caso scrutinato nel 2007 la conseguenza processuale di tale “abuso” dello strumento processuale è identificata nell'inammissibilità delle domande di condanna relative ad obbligazioni contrattuali, volte appunto a determinare il frazionamento del credito unitario sul piano sostanziale in più giudizi aventi ad oggetto l'adempimento in modo parcellizzato (cfr. Cass., Sez. Un., 15 novembre 2007, n. 23726, cit.). Tuttavia, non mancano – come si vedrà più diffusamente in seguito – gli istituti processuali volti a contrastare l'abuso del processo in modo più proporzionato rispetto a quanto possa dirsi in relazione al diniego tout court dell'accesso alla tutela giurisdizionale.

Qualche chiarimento sull'abuso del processo e sulle sue conseguenze in relazione alla formazione del giudicato

Nello stabilire l'inammissibilità della domanda di adempimento parziale che comporti “abuso del processo”, le Sezioni Unite nel 2007 hanno escluso la possibilità di decidere nel merito la controversia su una “frazione” del credito unitario da un punto di vista sostanziale, anche al fine di evitare a monte la formazione di più giudicati su parti diverse dello stesso credito. In particolare, il divieto di frazionamento della richiesta di tutela del creditore è stato messo in relazione al fine di prevenire «la formazione di giudicati (praticamente) contraddittori cui potrebbe dar luogo la pluralità di iniziative giudiziarie collegate allo stesso rapporto».

Per altro verso, le Sezioni Unite non hanno affrontato l'ulteriore questione sull'eventualità che si formi comunque un giudicato sulla domanda parziale, ove cioè l'inammissibilità sulla tutela del credito relativo ad una sola frazione non venga rilevata dal giudice, decidendo comunque nel merito su una parte del credito.

Su tale questione si è espressa Cass., sez. lav., 11 aprile 2008, n. 9545 in presenza di una sentenza di condanna al pagamento del trattamento di fine rapporto ottenuta dal lavoratore contro il datore di lavoro dopo la cessazione del rapporto, osservando come resti «preclusa una nuova domanda di riliquidazione dello stesso trattamento, ancorché fondata su ragioni non dedotte – ma tuttavia deducibili – nel precedente giudizio e ciò in base all'ulteriore principio – da intendersi in maniera rigorosa – secondo cui la cosa giudicata copre non solo il dedotto, ma anche il deducibile (ex plurimis, Cass., 18 marzo 2004 n. 5514). La rinnovata prospettiva del concetto di “deducibile”, imposta dai canoni di correttezza e buona fede e del giusto processo, comporta l'inaccettabilità delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata in adesione all'assunto della difesa del P., alla cui stregua la pronuncia con la quale è stato riconosciuto il diritto agli accessori per il tardivo pagamento del trattamento di fine rapporto non precluderebbe la pretesa relativa all'incidenza del premio di anzianità sul TFR, non essendosi formato alcun giudicato su di un precedente logico, essenziale e necessario della pronuncia». In altri termini, la formazione del giudicato sul diritto di credito fatto valere dall'attore in un precedente processo preclude la possibilità di richiedere una diversa quantificazione dello stesso diritto, in forza dell'efficacia preclusiva che promana dal precedente giudicato (analogamente, Trib. Milano, 10 luglio 2015).

Una diversa applicazione del divieto di frazionamento ha trovato luogo a fronte della proposizione di una domanda parziale di risarcimento del danno, successiva alla formazione del giudicato nell'ambito di un diverso processo avente ad oggetto alcune voci soltanto del danno derivante da un unico fatto illecito, con riserva di far valere in un separato e successivo processo le restanti voci di danno. In tal caso si è ritenuto che al danneggiante non sia consentito far valere in diversi processi i danni alle cose e alla persona riferibili al medesimo evento lesivo, frazionando la richiesta di tutela giurisdizionale in relazione alle competenze per valore, rispettivamente, del giudice di pace e del tribunale (Cass., sez. III, 22 dicembre 2011, n. 28286). In caso contrario, tale frazionamento realizzerebbe un abuso dello strumento processuale, comportando la “disarticolazione” in sede giudiziale dell'unitario diritto sostanziale. In base a tale principio la S.C. ha ritenuto improponibile la domanda di risarcimento dei danni alla persona subiti dall'attore in occasione di un sinistro stradale, successivamente alla conclusione del primo processo con sentenza passata in giudicato relativamente ai danni alle cose. Pertanto, l'abuso del processo viene qui sanzionato con una pronuncia in rito “ex post rispetto alla conclusione del processo introdotto alla domanda frazionata, anziché “ex ante in base alla ricostruzione delle Sezioni Unite con la sentenza Cass., n. 23726/2007.

L'applicazione della sanzione processuale dell'improponibilità sembra fondarsi secondo Cass. n. 28286/2011 esclusivamente nel rilievo della non meritevolezza della domanda parcellizzata, in quanto contrastante con i valori costituzionali di solidarietà sanciti all'art. 2 Cost., almeno quando tutte le voci di danno riferite al medesimo evento lesivo si siano già manifestate al momento della proposizione della domanda di condanna.

Secondo un diverso indirizzo di legittimità (cfr., da ultimo, Cass., sez. III, 19 marzo 2015, n. 5491) l'abuso del processo non si presta a dar luogo alla declinatoria in rito della domanda frazionata: «ferma restando la natura abusiva della parcellizzazione giudiziale del credito – la "sanzione" di tale comportamento non può consistere nella inammissibilità delle domande giudiziali, "essendo illegittimo non lo strumento adottato, ma la modalità della sua utilizzazione". Sicché il rimedio agli effetti distorsivi del fenomeno della fittizia proliferazione delle cause autonomamente introdotte deve individuarsi – in applicazione di istituti processuali ordinari – vuoi nella riunione delle medesime, vuoi sul piano della liquidazione delle spese di lite; da riguardarsi ‘come se il procedimento fosse stato unico fin dall'origine» (così Cass., sez. III, 19 marzo 2015, n. 5491, cit.). Ed in effetti l'enunciazione dell'inammissibilità della domanda relativa a una frazione del credito per non meritevolezza presta il fianco al rilievi difficilmente superabili. Difatti, in tal modo si finisce per introdurre un vaglio preventivo di natura discrezionale rispetto all'accesso alla tutela di merito in contrasto con la natura doverosa della potestà giurisdizionale, rendendo incerto l'esercizio del diritto di azione, (A. Barletta, Extra e ultra petizione. Studio sui limiti del dovere decisiorio del giudice civile, Giuffrè, 2012, 26 ss.).

Sembra perciò preferibile ricercare un contrasto all'utilizzo abusivo del processo sul piano della ricostruzione dell'efficacia di giudicato che si forma nel primo giudizio, rispetto a quelli proposti successivamente, anche ove l'attore abbia ingiustificatamente inteso delimitare l'oggetto del processo attraverso l'apposizione di una “riserva” (in tal senso Cass., sez. III, 18 marzo 2010, n. 6597, secondo cui «in tema di interpretazione del giudicato, il decreto ingiuntivo divenuto definitivo che, pronunciando sulla richiesta di pagamento degli acconti sul corrispettivo di un contratto di appalto di opera pubblica – disciplinati, ‘ratione temporis', dall'art. 35, d.P.R. 16 luglio 1962, n. 1063, nel testo modificato dall'art. 4, l. 10 dicembre 1981, n. 741 – e dei ‘relativi interessi maturati e maturandi, con riserva di proporre in via autonoma azione per interessi convenzionali', ordini il pagamento degli acconti e degli ‘interessi come richiesti', deve intendersi riferito a tutti gli interessi da ritardo e non ai soli interessi legali: l'art. 35. cit. delinea invero un sistema, compiuto e speciale rispetto al codice civile, comprensivo di tutti gli interessi da ritardo, ed inoltre la riserva di agire separatamente per gli interessi convenzionali, pur se contenuta nella domanda di ingiunzione, non rileva laddove, come nella specie, il creditore disponga, fin dal momento della sua proposizione, di tutti gli elementi di fatto e di diritto per far valere contestualmente i crediti dovutigli sia per il capitale, che per tutti gli interessi, stante il divieto di frazionamento del credito, nascente da unico rapporto obbligatorio, in plurime richieste giudiziali»). In questo caso l'efficacia di giudicato dovrebbe estendersi all'intero diritto di credito dedotto nel precedente giudizio, a nulla rilevando – oltre alla riserva in thesi inefficace – il fatto che il credito sia stato parzialmente allegato, essendo l'efficacia di giudicato estesa al dedotto e al deducibile.

Per contro, ove la riserva, posta nel primo giudizio al fine di limitare la res in iudicium deducta ad una sola frazione del credito, sia giustificata – e, quindi, efficaceper la definizione dell'oggetto del giudizio – è evidente come ciò consenta di definire parimenti anche i limiti oggettivi dell'efficacia d'incontrovertibilità che è destinata a prodursi con il passaggio in giudicato della sentenza che conclude il processo. Si tratta perciò di stabilire come ed entro quali limiti riconoscere effetti a tale “riserva”.

Il primo aspetto che occorre considerare riguarda la definizione del giudice che ha il compito di adottare la decisione sull'efficacia della “riserva” in funzione limitativa dell'oggetto del giudizio, stabilendo cioè se tale decisione spetti al giudice avanti al quale è proposta la domanda frazionata, ovvero se la suddetta potestà possa essere riconosciuta ex post rispetto alla formazione del giudicato.

La questione in discorso è stata affrontata dal Trib. Milano, 10 luglio 2015, cit., in relazione all'ipotesi in cui il giudice viene adito successivamente alla condanna al pagamento del danno patrimoniale e alla condanna generica rispetto al danno non patrimoniale, da quantificarsi in un separato processo. È dunque proprio nel giudizio instaurato per la liquidazione del danno non patrimoniale, il Tribunale ha affermato il proprio convincimento «che a questa domanda debba rispondere, con efficacia di giudicato, il giudice dell'‘an' del risarcimento al quale compete, nel momento genetico di disarticolazione del credito, di intervenire per sanzionare il frazionamento o, invece, legittimarlo». In altre parole, al giudice adito per primo spetta stabilire se annettere o meno efficacia alla limitazione che l'attore intende apporre con la propria richiesta di tutela: sul presupposto che in presenza di certe condizioni sia ben possibile riconoscere efficacia limitatrice alla “riserva” attorea, in vista di un futuro accesso ripartito alla tutela “conseguente», in un autonomo processo. Là dove il giudice del primo processo non ritenga di annettere tale efficacia alla “riserva” dell'attore – come anticipato – non potrebbe far altro che decidere sopra l'intero diritto fatto valere, tenendo in non cale la limitazione (riconosciuta come inoperante) in relazione ai propri poteri decisori. Cosicché alla definizione del giudizio instaurato per primo non potrebbe che conseguire la formazione di un giudicato sull'intero credito fatto valere e il promanare di un'efficacia di ne bis in idem, tale da escludere la possibilità di un ulteriore (ancorché frazionato) accesso alla tutela giurisdizionale (precisamente in tale senso Trib. Milano, 10 luglio 2015, cit.). Nel caso contrario, il giudice successivamente adito non potrebbe che decidere nel merito, ponendo il giudicato parziale a fondamento della propria decisione. Difatti, i rilievi impedienti in rito non possono essere duplicati nel seguente giudizio instaurato dopo la formazione del giudicato parziale, in quanto coperti dall'efficacia di giudicato nel merito già formatosi.

I casi in cui può formarsi un giudicato limitato all'an debeatur o ad alcune voci di danno

Occorre perciò stabilire quando sia possibile o meno riconoscere efficacia alla limitazione frapposta sul piano della richiesta di tutela giurisdizionale rispetto alla conformazione sostanziale del diritto fatto valere in giudizio. Riportati ai giusti termini del discorso, siamo tornati al cospetto di un tema oramai “classico” negli studi del processo civile. Ed è infatti proprio a tali approfondimenti che fa richiamo anche la giurisprudenza più recente ed attenta del Trib. Milano, sent., 10 luglio 2015, cit., allorché fa rinvio, da una parte, alla fortunata nozione di “unità minima strutturale” dell'oggetto del giudizio (G. Verde, Sulla “minima unità strutturale” azionabile nel processo (a proposito del giudicato e di emergenti dottrine), in Riv. dir. proc., 1989, 573 ss.), dall'altra, alla riflessione secondo cui il principio dispositivo non può essere inteso estensivamente al punto di ritenere che l'attore possa disporre a piacimento dell'estensione dell'oggetto del processo (S. Menchini, A. Proto Pisani, Oggetto del processo e limiti oggettivi del giudicato in materia di crediti pecuniari, in Foro it., 1989, I, 2946 ss.).

Per altro verso, la giurisprudenza ha da tempo individuato i limiti in cui è possibile definire l'ambito della tutela risarcitoria rispetto all'an debeatur, ovvero in relazione soltanto a talune “voci” di danno.

L'ammissibilità in linea generale di un'azione autonoma di condanna generica è da lungo tempo affermata dalla giurisprudenza, ancor prima dell'entrata in vigore del codice di rito del '40 (e del riconoscimento dell'espresso riconoscimento di tale tipologia di condanna all'art. 278 c.p.c.): cfr., tra le più recenti Cass., Sez. III, 9 aprile 2015, n. 7090; Cass., Sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3366; Cass., sez. lav., 26 febbraio 2014, n. 4587; in dottrina, per tutti A. Carratta, Condanna generica, in Enc. giur. Treccani, VII, 1997, 16 ss.; E. Merlin, Condanna generica e opposizione del convenuto alla liquidazione del “quantum” in separato processo, in Riv. dir. proc., 1986, 207 ss.; C. Cavallini, L'oggetto della sentenza di condanna generica, in Riv. dir. proc., 2002, 523 ss.

Del resto, una diversa soluzione non può essere imposta in base al principio di unitarietà del danno ribadito dalle Sezioni Unite nelle c.d. sentenze di San Martino del 2008 (Cass., nn. 26972-26975). Tale principio tende ad escludere duplicazioni di tutele con specifico riferimento alle domande risarcitorie, evitando proliferazioni “nominalistiche” nell'individuazione delle voci danno. Allo stesso tempo, il principio dell'unitarietà del risarcimento favorisce sul piano processuale l'accertamento in un unico contesto processuale dell'evento lesivo e di tutte le conseguenze dannose a quest'ultimo riferibili. Anche se ciò non esclude in sé la possibilità, in talune ipotesi, di accertare l'an debeatur in un separato processo rispetto alla liquidazione del danno, ovvero di ripartire in modo autonomo l'accertamento di diverse “voci” di danno, almeno in presenza di una riserva efficace.

Una parte della giurisprudenza, in ispecie, riconosce un limite all'ammissibilità dell'autonoma domanda di condanna generica nella c.d. opposizione da parte del convenuto, ove cioè quest'ultimo manifesti un interesse alla celere definizione del thema decidendum anche in ordine all'accertamento del quantum. La giurisprudenza, però, limita in genere la possibilità di opposizione del convenuto alla sola ipotesi in cui l'attore non abbia agito originariamente per ottenere in via autonoma la condanna generica: Cass., 16 dicembre 2010, n. 25510; Cass., sez. lav., 13 febbraio 1992, n. 1807.

Secondo un diverso orientamento si può ammettere l'autonomo accertamento dell'an del diritto al risarcimento anche senza il consenso del convenuto alla riserva operata dall'attore: Cass.,sez. III, 20 febbraio 2015, n. 3366, ove si precisa che «in caso di azione per il risarcimento dei danni, l'attore, ove abbia chiesto, alternativamente, la condanna generica o quella integrale, può limitare la propria pretesa alla sola pronuncia sull'‘an debeatur', senza necessità del consenso del convenuto, il quale, peraltro, può chiedere, in via riconvenzionale, che l'accertamento della responsabilità si estenda al ‘quantum debeatur', onde verificare l'insussistenza del danno». Sulla sussistenza delle condizioni per la pronuncia autonoma della condanna generica cfr., inoltre, Cass., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21255; Cass., sez. III, 22 settembre 2007, 17873 secondo cui «non è ammissibile che taluno agisca in giudizio per il risarcimento del danno esponendo all'uopo determinate voci e, poi, definito il giudizio con il giudicato, agisca ex novo per il risarcimento di altri danni derivanti dallo stesso fatto ma in relazione a nuove voci, diverse da quelle prima esposte. Perché tale principio non trovi applicazione è necessario che sia esclusa ‘a priori' la potenzialità della domanda a coprire tutte le possibili voci di danno, la qual cosa può accadere solo quando tale esclusione sia adeguatamente e nei modi opportuni manifestata dall'attore, o ‘ab initio' o nel corso del processo. Infatti il principio dell'infrazionabilità della richiesta di risarcimento del danno va coordinato con il principio dispositivo della domanda (artt. 99 e 112 c.p.c.)», Cass., sez. III, 26 febbraio 2003, n. 2869.

Mentre, in base alla posizione intermedia espressa da Cass., Sez. Un., 23 novembre 1995, n. 12103 l'opposizione del convenuto non precluderebbe l'ammissibilità di un'autonoma pronuncia sull'an in sede di condanna generica, richiedendo comunque l'accertamento dell'effettiva sussistenza del danno, non essendo possibile in questo caso limitare l'accertamento meramente alla probabilità o verosimiglianza del danno.

Occorre aggiungere qualche ulteriore rilievo con riferimento alla richiesta di separato accertamento di alcune “voci di danno”, al fine di ottenere in via autonoma una condanna provvisionale, riservando ad un separato giudizio l'accertamento delle rimanenti “voci”.

L'ammissibilità di tale riserva deve senz'altro riconosciuta, là dove il danneggiato nel richiedere tutela risarcitoria non faccia altro che definire il thema decidendum in relazione a un diritto risarcitorio autonomo e quindi in sé suscettibile di dar luogo ad un compiuto oggetto del giudizio, senza determinare alcun frazionamento dell'oggetto e una parcellizzazione del giudicato.

In particolare, ove il danneggiato agisca in giudizio per il risarcimento del (le voci di) danno patrimoniale, riservando di far valere in un separato giudizio le voci di danno non patrimoniale (o viceversa) non si dà affatto luogo ad alcun frazionamento della richiesta di tutela, anche ove tali voci si riferiscano al medesimo evento lesivo; giacché in base alla caratteristica bipolare del danno nei due casi considerati si è in presenza di due distinte domande di risarcimento (cfr. A. Barletta, La domanda di risarcimento del danno non patrimoniale e le preclusioni processuali applicabili in tema di allegazione e prova, in Ri.Da.Re.).

Analogo rilievo potrebbe essere compiuto persino in relazione a ciascuna voce di danno, almeno ove si acceda al recente indirizzo di legittimità secondo cui «in tema di risarcimento del danno da fatto illecito o da inadempimento contrattuale la ‘cosa' oggetto della domanda è il pregiudizio di cui si invochi il ristoro, e gli ‘elementi di fatto' costitutivi della pretesa sono rappresentati dalla descrizione della perdita che l'attore lamenti di avere patito” (così Cass., 30 giugno 2015, n. 13328, che pertanto osserva: «chi domanda in giudizio il risarcimento del danno ha l'onere di descrivere in modo concreto i pregiudizi dei quali chiede il ristoro, senza limitarsi a formule vuote o stereotipe come la richiesta di risarcimento dei danni ‘subiti e subendi'. Domande di questo tipo, quando non ne sia dichiarata la nullità ex art. 164 c.p.c., non fanno sorgere in capo al giudice alcun obbligo di provvedere in merito al risarcimento del danno che fossero descritti concretamente solo in corso di causa»). Tuttavia, alla stregua dell'orientamento maggioritario in giurisprudenza – condiviso da chi scrive – ai fini dell'individuazione del diritto fatto valere è sufficiente l'indicazione dell'evento lesivo (c.d. danno-evento) e della natura del danno patrimoniale o non patrimoniale di cui si chiede il risarcimento, non i fatti riferibili alle conseguenze pregiudizievoli (cc.dd. danni-conseguenza), la cui allegazione (e prova) è richiesta solo ai fini della trattazione della causa e della pronuncia sulla fondatezza o meno del diritto risarcitorio fatto valere (cfr. ancora A. Barletta , La domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, cit.). Pertanto, ove il danneggiato chieda tutela solo in relazione ad alcune conseguenze dannose riservandosi di far valere le rimanenti voci di danno in un separato giudizio, ciò dovrebbe essere consentito ove consti una potenzialità lesiva riferita alle voci di danno ulteriore rispetto a quelle già accertate. Mentre in mancanza di una riserva efficace l'oggetto del giudizio sarebbe esteso a tutte le “voci di danno” riferibili al medesimo evento lesivo. Sul punto cfr. spec. Cass., sez. III, 22 settembre 2007, n. 17873; Cass., sez. III, 26 febbraio 2003, n. 2869: «osserva questa Corte che la giurisprudenza di legittimità ritiene costantemente che la richiesta risarcitoria di tutti i danni (patrimoniali e non patrimoniali) comprende necessariamente quella del danno biologico, anche se dovesse mancare una specifica domanda in proposito, in quanto la richiesta, per la sua omnicomprensività, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno... Il principio è certamente da condividere non solo sulla base dell'elemento volontaristico della domanda, ma anche per il principio dell'unità del diritto al risarcimento del danno. Invero il principio dell'unità, dal punto di vista sostanziale, del diritto al risarcimento del danno (sia da inadempimento contrattuale sia da illecito extracontrattuale) ha come logico corollario, sul piano processuale, il principio, condiviso da dottrina e giurisprudenza (Cass. n. 10702/1998), della c.d. infrazionabilità o inscindibilità del giudizio di liquidazione del danno, il quale esige che alla liquidazione, di regola, si faccia luogo in un unico, complessivo contesto e quindi in un solo processo… Perché tale principio non trovi applicazione è necessario che sia esclusa ‘a priori' la potenzialità della domanda a coprire tutte le possibili voci di danno, la qual cosa può accadere solo quando tale esclusione sia adeguatamente e nei modi opportuni manifestata dall'attore, o ‘ab initio' o nel corso del processo. Infatti il principio dell'infrazionabilità della richiesta di risarcimento del danno va coordinato con il principio dispositivo della domanda (art. 99 e 112 c.p.c.)».

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