Il punto in tema di colpa per il danno da esposizione all'amianto

Angelo Valerio Lanna
09 Maggio 2017

La responsabilità per colpa in tema di esposizione all'amianto si risolve – nella maggioranza dei casi – in una violazione della normativa antinfortunistica, posta a protezione di lavoratori particolarmente esposti all'inalazione delle fibre di asbesto. Le incolpazioni che vengono formulate nella pratica giudiziaria muovono quindi dal rilievo della condotta omissiva ascrivibile al datore di lavoro ...
Il quadro normativo

La legge quadro nel settore è da individuare nella l. 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), come modificata dall'art. 16 l. 24 aprile 1998, n. 128 e dall'art. 4 l. 9 dicembre 1998. È qui prevista l'istituzione di una commissione di valutazione, oltre ad essere poi indicate successive norme di attuazione; si prevedono misure di sostegno per i lavoratori e per le imprese, nonché sanzioni anche di carattere penale (art. 15), in caso di inadempimento rispetto agli obblighi di legge. Ricordiamo poi il d.lgs. 25 luglio 2006, n. 257 (Attuazione della direttiva 2003/18/Ce relativa alla protezione dei lavoratori dai rischi derivanti dall'esposizione all'amianto durante il lavoro).

L'inquadramento tecnico-giuridico della questione

Sotto il profilo tecnico-giuridico il tema si inquadra in quello – di carattere più ampio – della responsabilità colposa, cosa che impone di orientare l'analisi degli accadimenti concreti secondo un criterio ipotetico e valutativo. Giudicare cioè se si sia o meno concretizzata un'inosservanza di regole doverose di comportamento, cui il soggetto agente sarebbe stato tenuto e la cui osservanza avrebbe evitato il verificarsi dell'evento. L'individuazione della responsabilità per colpa, infatti, si risolve nel rilievo che un determinato soggetto abbia realizzato un fatto-reato, involontariamente, ma pur sempre mediante violazione di regole doverose di condotta, siano esse tipizzate dal legislatore, ovvero scaturenti dall'indifferenza rispetto a modelli di comportamento socialmente accettati. Occorre, però, che tale fatto-reato egli potesse evitare mediante l'osservanza, da lui esigibile, di tali precise regole di condotta. Infatti, l'inutilità del comportamento alternativo corretto esclude la colpa stessa e ciò si verifica allorquando sussista la prova che l'evento si sarebbe verificato anche tenendo la corretta condotta o, quantomeno, nel caso in cui non si raggiunga la prova dell'utilità, dell'idoneità del comportamento corretto a scongiurare l'evento. In materia di reato omissivo improprio, è peraltro ben noto il dictum del Supremo Collegio (il richiamo è alla notissima sentenza Franzese, Cass. pen., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30328). La Corte segue qui anzitutto la direttrice di sottolineare la piena validità, tanto della teoria condizionalistica, quanto dell'esperimento del c.d. giudizio controfattuale. La valutazione dell'eziogenesi dell'evento, secondo la Corte, è pertanto da ricercare o nella valenza universale da attribuire a spiegazioni derivanti dal senso comune, ovvero dalla sussunzione dell'evento – come concretizzatosi nella realtà fenomenica – sotto l'impero di leggi scientifiche, tali da contenere già in astratto l'antecedente, quale causa dell'evento alla stregua delle c.d. leggi di copertura (su tale aspetto ci si soffermerà in seguito). Per ciò che attiene alla ricostruzione del nesso di causalità materiale, nell'ambito del reato omissivo improprio, occorrerà infatti esaltare il c.d. giudizio controfattuale, mediante l'ideale eliminazione dell'omissione imputata; nell'ambito poi di una ricostruzione evidentemente ipotetico-deduttiva, si dovrà ricorrere alla ideale sostituzione della condotta doverosa alla omissione stessa. Ciò consentirà di congetturare che il comportamento omesso – ove invece fosse stato adottato dall'agente – avrebbe potuto comportare la mancata realizzazione del singolo evento. Il canone interpretativo corretto è allora quello costituito dalla concreta accertabilità processuale; questo rappresenta il risultato dell'inserimento di tutti gli elementi probatori disponibili, in un binario concettuale di tipo logico-induttivo, in grado di portare ad un giudizio di attribuzione della responsabilità che sia fondato sull'esistenza di un alto grado di credibilità razionale. Più nello specifico, la responsabilità per colpa in tema di esposizione all'amianto si risolve – nella maggioranza dei casi – in una violazione della normativa antinfortunistica, posta a protezione di lavoratori particolarmente esposti all'inalazione delle fibre di asbesto. Le incolpazioni che vengono formulate nella pratica giudiziaria muovono quindi dal rilievo della condotta omissiva ascrivibile al datore di lavoro – o comunque ai soggetti preposti alla tutela della salute dei lavoratori – in relazione alla mancata adozione di cautele tecniche, organizzative, strutturali, logistiche, atte ad inibire l'esposizione dei lavoratori stessi a tale dannosissimo materiale. Il riferimento è in particolare alla necessità di limitazione dei tempi di esposizione alle fibre, alla necessità di continua ed efficace aereazione degli opifici, all'adozione di determinate procedure di lavorazione, che siano in grado di evitare la volatilizzazione del materiale e di inibirne la manipolazione non protetta, oltre che alla fornitura di strumenti idonei ad assicurare la salvaguardia dei soggetti esposti alle fibre ma viene spesso anche imputata – più a monte, nello snodarsi delle responsabilità eventualmente concausali – anche la carenza di programmi di controllo, di manutenzione o di bonifica (secondo l'estensione dell'impiego e del relativo deterioramento). Non mancano – nella vasta letteratura giurisprudenziale in materia – le imputazioni inerenti alla mancata informazione dei lavoratori circa rischi e possibili rimedi, oltre che inerenti alla omessa sottrazione dei lavoratori alle ulteriori esposizioni, a fronte degli esordi sintomatici della patologia. Nella letteratura scientifica, la elevata pericolosità intrinseca dell'amianto e lo stretto legame riscontrabile fra l'esposizione a tale sostanza e l'insorgere di alcune patologie di natura tumorale sono studiate e conosciute, fin dagli anni sessanta dello scorso secolo. Situazione oggettiva che esplica naturalmente sempre una efficacia dirimente, in punto di prova in ordine alla prevedibilità ed evitabilità dell'evento.

Le leggi di copertura scientifica

I più accreditati studi medici hanno posto in risalto come i processi patogenetici, che ricevono innesto da una iniziale inalazione di polveri d'amianto, vengano poi inevitabilmente rafforzati e potenziati dalla successiva esposizione, magari prolungata nel corso degli anni. Trattasi di sintomi inequivocabili di moltiplicazione cellulare connotata da una illimitata potenzialità diffusiva, di insensibilità dell'organismo rispetto agli interventi antiproliferativi e – al contrario - di aumento dei processi di deterioramento dello sviluppo cellulare. Tali processi sono ormai comunemente ritenuti dipendenti dalla dose e dalla durata dell'assunzione di fibre, visto che – con il trascorrere di un maggior tempo di inalazione – l'accumulo nell'organismo delle fibre d'amianto non può che aumentare. Si è anche scientificamente accertato come la tendenza a tale accumulo tenda a diminuire – fino anche a dimezzarsi – una volta trascorso un periodo di tempo pari a circa dieci o dodici anni dall'interruzione dell'esposizione. Gli studi – condotti in Italia su una platea molto vasta di ammalati, a seguito anche di notissimi e tragici casi dei quali si sono occupate le cronache – dimostrano come ogni esposizione precedente al momento della diagnosi possa rivestire una rilevanza carcinogenetica, accelerando i tempi di insorgenza della patologia. Tale innesto lento e graduale rende naturalmente difficile indicare sia una soglia quantitativa minima di assunzione (pure contenuta nella vigente legislazione!), sia il tempo massimo d'induzione. In particolare il mesotelioma, che rappresenta una forma di tumore alquanto rara e dipendente in maniera praticamente esclusiva dall'esposizione alle fibre d'amianto, è universalmente considerato nella comunità scientifica una patologia dipendente proprio dalla dose di assunzione, stando alle leggi probabilistiche di tipo statistico. E pertanto. L'omissione di idonee forme di protezione, che sia tale da comportare la prolungata esposizione di soggetti alle polveri d'amianto, riveste efficienza causale in ordine all'eziogenesi della malattia; e ciò, pur quando non sia possibile individuare con esattezza il tempo di insorgenza della stessa. Ciò in quanto la condotta antidoverosa incide quantomeno sul tempo di latenza, accelerando il rischio di innesto del processo tumorale (si veda Cass. pen., Sez. IV, n. 22165/2008).

La più recente giurisprudenza di legittimità

Tra le pronunce della Corte in materia, riteniamo opportuno estrapolarne anzitutto due, le quali affrontano i temi forse più scottanti che – nella comune esperienza processuale - si pongono in tema di responsabilità da esposizione all'amianto. Nella prima (Cass. pen., sez. IV, n. 33311/2012), il supremo Collegio approfondisce il tema della relazione esistente fra condotta antidoverosa di tipo omissivo ed incidenza di tale omissione, sul tempo di latenza o sul decorso della malattia. La seconda (Cass. pen., sez. IV, n. 30206/2013) detta invece importanti insegnamenti ermeneutici in punto di riconducibilità al singolo soggetto – pur se pacificamente collocato in una posizione di garanzia – della responsabilità derivante dall'insorgere di una patologia tumorale, in danno di soggetto esposto ad inalazione di fibre di asbesto. Si tratta di pronunce che meritano dunque un esame, sebbene necessariamente rapido.

  • Cass. pen., sez. IV, n. 33311/2012. I giudici di legittimità affrontano qui il tema dell'irrilevanza della c.d. differenziazione del grado di rischio. Laddove cioè siano accertati tanto la promiscuità lavorativa – sarebbe a dire, l'inesistenza di una rigida settorializzazione dei diversi luoghi di svolgimento dell'attività, all'interno di un medesimo sito produttivo – quanto l'insorgere del processo patogenetico dal contatto del lavoratore con le polveri d'amianto, non possono poi porsi linee di discrimine, che siano attinenti alla maggiore o minore esposizione del singolo. Afferma inoltre il Supremo Collegio che, pur laddove si collochi l'inizio dell'esposizione ad epoca molto risalente, comunque il contatto successivo con le polveri d'amianto esplica una efficacia concausale, rispetto all'insorgere della malattia oncologica polmonare (la non decisività dell'esatta individuazione della nascita della patologia costituisce affermazione ormai risalente, nella giurisprudenza della Corte, sin da Cass. pen., sez. IV, n. 22165/2008). E infatti, poco rileva l'esame circa il profilo strettamente quantitativo dell'esposizione alle fibre d'amianto, posto che l'origine delle affezioni tumorali (il mesotelioma ed il carcinoma polmonare) è pacificamente dipendente dall'inalazione delle fibre stesse. Né è scientificamente possibile stabilire una soglia minima di esposizione (rectius, di tollerabilità), sotto la quale vi sia una totale esclusione del rischio; la teoria della trigger dose o dose killer (insorgere della patologia da una sola dose in concentrazione elevatissima ed ininfluenza causale delle successive esposizioni) è infatti ormai unanimemente ritenuta scarsamente convincente. Esistono in effetti studi scientifici che sottolineano la caratteristica prettamente epidemiologica degli approfondimenti in tema di esposizione a fibre d'amianto; studi che sarebbero dunque tali da non consentire di risolvere il problema inerente alla efficacia causale delle dosi assunte in epoca successiva a quella ritenuta killer. È allora agevolmente comprensibile come la difficoltà nella certa individuazione del tempo dell'assunzione della trigger dose comporterebbe, in campo penalistico, l'impossibilità di affermare la colpevolezza del soggetto responsabile al momento del fatto (si veda, sul punto, Cass. pen., sez. IV, n. 11197/2012). È invece ormai sostanzialmente pacifico – negli orientamenti recentemente espressi dal Supremo Collegio – che la durata della latenza della patologia sia correlata ad una maggiore inalazione di fibre tossiche e che sia configurabile il delitto di omicidio colposo anche nel caso di sola accelerazione dell'exitus. L'insegnamento è del resto largamente consolidato, sin da Cass. pen., sez. IV, n. 38991/2010. Già tale pronuncia aveva infatti statuito come – pur laddove rimanga carente l'accertamento circa l'epoca di insorgenza della patologia (che nella concreta fattispecie era l'asbestosi) - la penale responsabilità, correlata agli eventi dannosi conseguenti all'assunzione per via aerea di polveri di amianto, debba essere causalmente ricondotta alla condotta omissiva dei soggetti succedutisi nella gestione aziendale. Pur laddove questi siano stati magari responsabili dell'esposizione dei lavoratori alle fibre d'amianto soltanto per un circoscritto lasso temporale, infatti, trattasi di condotta comunque atta a ridurre i tempi di latenza di patologie già nate, ovvero in grado di accelerare – pur se in minima parte – i tempi di insorgenza delle stesse.

  • Cass. pen., sez. IV, n. 30206/2013. La Corte richiama qui in primo luogo l'ormai consolidato principio di diritto in tema di reati colposi di evento, a mente del quale la pur acclarata inosservanza di regole cautelari specifiche non comporta l'automatica configurabilità di un nesso causale, fra la condotta antidoverosa e l'evento dannoso; nesso che è infatti da escludere nel caso in cui sia raggiunta la prova che l'evento sarebbe comunque giunto a realizzazione, pur in assenza della condotta antigiuridica contestata (si veda anche Cass. pen., sez. IV, n. 40802/2008). La Corte rammenta poi come – in materia di patologie collegate all'inalazione di fibre d'amianto – sussista la penale responsabilità del soggetto che ricopra una posizione di garanzia, anche allorquando la sua condotta non sia riconducibile al momento patogenetico, bensì abbia semplicemente provocato l'aggravamento della malattia, ovvero un rilevante restringimento del periodo di latenza della stessa (si veda anche Cass. pen., sez. IV, n. 24997/2012). Si potrà poi anche leggere la più recente Cass. pen., sez. IV, n. 18933/2014. Qui è ben spiegato come l'individuazione della legge scientifica di copertura, in ordine al nesso causale esistente fra condotta ed evento, non possa che fondarsi su una documentata e approfondita analisi della letteratura universale in tema e non possa che esser condotta mediante l'apporto tecnico, fornito da soggetti particolarmente qualificati ed esperti della materia. Ciò premesso, il Supremo Collegio evidenzia però anche la necessità di non bloccare l'analisi al campo della cd. causalità generale (sussunzione dell'elemento valutato quale generatore del rischio, all'interno di una ideale e astratta relazione causalistica rispetto all'evento), così affermando che l'inalazione delle polveri d'amianto costituisca – secondo leggi scientifiche universali o probabilistiche universalmente accettate – la causa scatenante dell'asbestosi, così come del tumore del polmone, ovvero del mesotelioma pleurico, o anche delle placche pleuriche. È infatti indispensabile, secondo i sopra riassunti principi enucleati dalla nota e sopra citata sentenza Franzese, far trasmigrare l'esame al più ristretto campo della cd. causalità singolare; verificando in tal modo in concreto, se la patologia insorta nel singolo lavoratore esposto a rischio possa esser stata causata – ovvero si sia aggravata – in relazione all'esposizione allo specifico fattore di rischio. La Corte riprende e riassume insomma qui i principi già esposti nella importante pronuncia del 2010 (Cass. pen., Sez. IV, n. 43786/2010), secondo la quale: "l'affermazione del rapporto di causalità tra le violazioni delle norme antinfortunistiche ascrivibili ai datori di lavoro e l'evento-morte (dovuta a mesotelioma pleurico) di un lavoratore reiteratamente esposto, nel corso della sua esperienza lavorativa (esplicata in ambito ferroviario), all'amianto, sostanza oggettivamente nociva, è condizionata all'accertamento: a) se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide e obiettive basi, una legge scientifica in ordine all'effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione dopo l'iniziazione del processo carcinogenetico; b) in caso affermativo, se si sia in presenza di una legge universale o solo probabilistica in senso statistico; c) nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica, se l'effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali; d) infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all'iniziazione e che hanno avuto durata inferiore all'arco di tempo compreso tra inizio dell'attività dannosa e l'iniziazione della stessa, se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all'innesco del processo carcinogenetico. Del tutto legittimo, in conclusione, è il riconoscimento di efficienza causale al comportamento omissivo di persone che siano state responsabili della gestione dell'azienda per periodi pur limitati (ed alle quali possa ricondursi l'esposizione dei lavoratori al fattore di rischio solo per tale periodo), laddove resti accertata la riduzione almeno dei tempi di latenza della patologia pur già insorta. Ciò che dunque davvero assume rilievo è l'accertamento in ordine all'attitudine ad influire sulla malattia della inalazione di polveri d'amianto, in relazione al pur circoscritto periodo nel quale ad un singolo imputato sia stata riferibile una posizione di garanzia.

  • Merita infine un veloce esame anche Cass. pen., sez. IV, n. 11197/2011. Tale pronuncia contiene infatti un forte richiamo all'importanza della ricerca – ad opera del magistrato – di un legame eziologico che poggi non sulla sola base della concausalità di tipo medico; di un legame che costituisca invece l'approdo della riconduzione del fatto entro l'ambito della necessaria causalità condizionalistica. La concreta vicenda concerneva qui le sorti di uno sfortunato lavoratore che, oltre ad essere un forte fumatore, era stato anche esposto – nel corso dell'attività lavorativa ed in ragione dell'omissione di cautele antinfortunistiche, imputabili al datore di lavoro – all'inalazione di fibre di amianto; aveva così sviluppato un adenocarcinoma, che ne aveva provocato il decesso. Il Supremo Collegio ha allora rammentato il connotato multifattoriale di tale patologia; ha poi chiarito come l'affermazione di responsabilità per condotta omissiva a carico del datore di lavoro non potesse che muovere da un accertamento di tipo fattuale: che la patologia tumorale non avesse trovato scaturigine nel prolungato utilizzo del tabacco, ma che l'inalazione di polveri d'amianto si fosse posta quale condizione necessaria per l'insorgenza della patologia, o almeno quale fattore acceleratore del decorso della stessa. Nella medesima direttrice interpretativa ricordiamo anche Cass. pen., sez. IV, n. 37762/2013. Qui è nuovamente premesso il connotato multifattoriale di alcune patologie neoplastiche; per affermare poi come non sia consentita l'esclusione del nesso causale, tra l'insorgenza di queste e l'esposizione a fibre d'amianto, sulla sola base di un percorso concettuale astratto di natura induttiva, che si fermi alla considerazione dell'esistenza di un elemento causale alternativo pure atto all'innesco della malattia, quale appunto l'essere il soggetto un accanito fumatore (qui la Corte ha peraltro raccomandato la necessità di una verifica fattuale di tipo puntuale, attinente alla peculiarità del singolo accadimento, in ordine all'efficacia causale dell'esposizione del lavoratore al rischio-amianto).
In conclusione

Dopo un lungo periodo di indiscriminata e vastissima applicazione in numerosi campi di utilizzo industriale e civile, la pericolosità dell'amianto rappresenta una nozione ormai comunemente accettata ed universalmente conosciuta, in quanto fondata su inconfutabili leggi scientifiche e purtroppo suffragata da dati statistici di tragica significazione. Lasciando ad altri – esperti della materia - il compito delle valutazioni di tipo medico, si dirà come le diverse pronunce della giurisprudenza di legittimità abbiano consentito di individuare alcuni ancoraggi sicuri, sul versante tecnico-giuridico del tema. La enorme potenzialità lesiva del materiale e la letale offensività, determinata dalla estesissima durata dei tempi di latenza, avrebbero potuto inevitabilmente comportare incertezze applicative, in tema soprattutto di riferibilità soggettiva. La teoria ormai comunemente accettata è quella della non riconducibilità carcinogenetica ad una sola dose killer; consequenzialmente, si ritiene ormai pacifica la configurabilità del fatto omicidiario colposo – derivante dall'omissione di cautele doverose - a carico anche del soggetto che, assunta la relativa posizione di garanzia, si renda responsabile di una esposizione all'amianto che sia circoscritta nel tempo e che si collochi in epoca successiva, rispetto all'insorgenza della malattia. Ciò in ragione della ritenuta equipollenza – ai fini della configurabilità del reato colposo – fra il momento genetico della patologia (momento che risulta spesso non identificabile e magari risalente ad epoca oltremodo remota) e la successiva esposizione (in grado quantomeno di accelerare il processo degenerativo e di ridurre i tempi di latenza della malattia). Sembra così risolta la questione che - in molti processi concernenti la responsabilità colposa da esposizione all'amianto - ne ha rappresentato in qualche modo il nervo scoperto. Incoraggiando anche una certa (disdicevole) tendenza allo scarico delle responsabilità. Sottolineiamo infine l'importanza che la Corte riconnette – in tema di individuazione delle leggi scientifiche di copertura – alle analisi condotte dalla più moderna e accorta letteratura scientifica, nonché all'apporto tecnico ricavabile esclusivamente da soggetti qualificati ed esperti della materia. Richiamo che vale a scoraggiare pericolosi intuizionismi, inevitabilmente atecnici e infondati, ai quali possa esser tentato di indulgere il giudice.

(FONTE: www.ilpenalista.it)

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