Compatibilità dei danni punitivi con l’ordine pubblico italiano: un falso problema?

Andrea Penta
10 Luglio 2017

I danni punitivi possano ritenersi ancora contrari al nostro ordinamento, stante l'evoluzione del concetto di “funzione del rimedio risarcitorio” e della stessa nozione di “ordine pubblico”, anche alla luce degli sviluppi nelle fonti internazionali?
Massima

Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è, quindi, ontologicamente incompatibile con l'ordinamento italiano l'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve, però, corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico.

Il caso sottoposto all'esame della Prima Sezione civile

A seguito di un incidente occorso durante una competizione motociclistica, un centauro statunitense riportava gravi danni fisici. Ritenendo che la causa del danno fosse da attribuirsi alla difettosa fabbricazione del casco indossato, citava in giudizio innanzi ad un giudice nordamericano la società italiana produttrice (AXO), la società importatrice e distributrice dello stesso (Helmet) e la società americana rivenditrice (NOSA).

Nel corso del giudizio, quest'ultima raggiungeva un accordo transattivo con la vittima, accettando di versare a quest'ultima un'ingente somma di denaro, calcolata tenendo in considerazione il probabile danno derivabile dalla potenziale soccombenza.

Successivamente, la società rivenditrice agiva, a sua volta, in giudizio dinanzi al giudice americano per sentir condannare la società produttrice a manlevarla della somma pagata al danneggiato a titolo transattivo.

Il procedimento si concludeva con l'accoglimento della domanda, atteso che il giudice della Florida condannava la convenuta a rimborsare integralmente l'attrice dell'importo versato.

Non ottenendo il pagamento da parte della soccombente, la rivenditrice chiedeva alla Corte d'appello di Venezia il riconoscimento (recte, la declaratoria di esecutività) della sentenza americana (in realtà, si trattava di tre sentenze passate in giudicato), in conformità all'art. 64 della legge 218/1995 di riforma del diritto internazionale privato, onde poter poi agire in via esecutiva contro l'azienda italiana.

L'appellata fondava la propria tesi di contrarietà delle sentenze all'ordine pubblico su tre argomenti, poi pedissequamente reiterati in sede di legittimità:

1) la violazione del primo comma dell'art. 1304 c.c., deducendo di non aver dichiarato di voler profittare della transazione raggiunta dalla coobbligata in via solidale;

2) il mancato accertamento della sua effettiva responsabilità nella causazione del danno al motociclista, unitamente alla omessa verifica circa il plausibile fondamento della domanda di garanzia proposta nei suoi confronti;

3) l'avvenuta comminatoria di danni punitivi (cc.dd. punitive damages).

In particolare, per quanto in questa sede rileva, la produttrice evidenziava che il danno punitivo è incompatibile con l'ordine pubblico, stante la funzione sanzionatoria e non meramente risarcitoria dell'istituto, e che la sentenza americana si era limitata a condannarla a manlevare la controparte dalla somma versata al danneggiato in sede di transazione, senza, però, a suo dire, motivare adeguatamente in ordine ai criteri seguiti per la determinazione del danno.

La questione sollevata dinanzi alla Corte di cassazione

La Corte d'appello di Venezia non ha condiviso gli assunti dell'appellata, ponendo in evidenza che alla produttrice era stata data la possibilità di costituirsi nell'interesse della rivenditrice (e, quindi, di assumere la sua difesa) e di difendersi nel giudizio contro il danneggiato (anche contestando la propria responsabilità), ma che la stessa non lo aveva fatto e mai aveva sollevato obiezioni alla proposta transattiva della vittima, che pur le era stata comunicata.

Inoltre, con valenza assorbente, la corte territoriale ha rilevato che non risultava l'intervenuto risarcimento di danni punitivi.

Il ricorso per cassazione, basato su tre motivi, denuncia, soprattutto, la violazione dell'art. 64, lettere b) e g), della l. 31 maggio 1995, n. 218, concentrando l'attenzione sulla totale omissione dei criteri seguiti per la determinazione del danno e, comunque, il quantum abnorme rispetto ai parametri italiani, circostanze, queste, che, secondo il suo assunto, avrebbero denotato la natura punitiva del risarcimento posto a suo carico.

La Prima Sezione, competente ratione materia, dopo aver evidenziato, quasi a voler anticipare la decisione, che nelle sentenze straniere era percepibile una mancanza di motivazione e che, ai fini dell'accoglimento del ricorso, sarebbe stato sufficiente il dubbio circa l'esistenza di una condanna ai punitive damages, ha, con ordinanza interlocutoria n. 9978/2016, sollecitato un ripensamento da parte delle Sezioni Unite sul tema della riconoscibilità delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi (recte, della compatibilità dell'istituto dei punitive damages punitive damages con l'ordine pubblico italiano.

La questione in punto di diritto sottesa alla sollecitata decisione è quella della possibilità di riconoscere la natura sanzionatoria (o punitiva) al rimedio risarcitorio, in un contesto sociale, normativo e giurisprudenziale in cui finora è stato allo stesso attribuita una funzione solo compensativa (o reintegratoria o riparatoria).

Il quesito cui dare una risposta può sintetizzarsi nei seguenti termini: i danni punitivi possano ritenersi ancora contrari al nostro ordinamento, stante l'evoluzione del concetto di “funzione del rimedio risarcitorio” e della stessa nozione di “ordine pubblico”, anche alla luce degli sviluppi nelle fonti internazionali?

L'impianto motivazionale della decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite

La Suprema Corte enuncia alcuni importanti principi avuto riguardo alla dedotta violazione dell'ordine pubblico:

1) in tema di riconoscimento di sentenze straniere, il concetto di ordine pubblico processuale va, alla stregua della statuizioni della Corte di Giustizia, riferito non già alle modalità con cui il diritto di agire e quello di resistere in giudizio sono regolamentati, ma ai principi inviolabili posti a garanzia dei detti diritti;

2) non è ravvisabile una violazione del diritto di difesa in ogni inosservanza di una disposizione di legge processuale straniera a tutela della partecipazione della parte al giudizio, ma soltanto quando essa, per la sua rilevante incidenza, abbia determinato una lesione del diritto di difesa rispetto all'intero processo (cfr. pg. 5 della sentenza);

3) per l'effetto, il diritto di difesa può subire una moderata limitazione nel caso in cui il provvedimento sia stato emesso nei confronti di un soggetto che, come nel caso di specie, abbia avuto comunque la possibilità di partecipare attivamente al processo;

4) ciò comporta altresì che le lesioni, perché contrastino con l'ordine pubblico processuale, devono essere tali da intaccare in concreto ed in modo sproporzionato la sostanza stessa delle facoltà difensive (cfr. pg. 6);

5) qualora, pertanto, il soggetto che si duole abbia omesso di valersi delle opportunità difensive al sistema a quo (in particolare, rifiutando di assumere direttamente la difesa del rivenditore), non gli è consentito nel giudizio di riconoscimento di far valere le differenze dei sistemi processuali, che non si siano risolte in compromissione irragionevole e sproporzionata del suo diritto di difesa (cfr. pgg. 9 e 11).

Con specifico riferimento al tema oggetto del presente commento, i giudici di legittimità, pur avendo reputato inammissibile il motivo (il terzo) ad esso dedicato (per la insussistenza e l'apodittica enunciazione dei presupposti – la configurabilità, nella condanna addebitata alla produttrice, di una liquidazione di “danni punitivi” in favore della vittima del sinistro e l'abnormità del risarcimento accordato al danneggiato – su cui era imperniato), hanno, ai sensi del terzo comma dell'art. 363 c.p.c., pronunciato il principio di diritto, ritenendo la questione decisa di particolare importanza.

Tre sembrano i punti cardine su cui si fonda la pronuncia annotata:

a) negli ultimi decenni l'istituto della responsabilità civile, pur conservando la primaria e preponderante funzione compensativo-riparatoria, ha altresì assunto altre funzioni proiettate verso più aree, tra cui le principali sono sicuramente quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva;

b) ogni imposizione di prestazioni connotate da una finalità deterrente o sanzionatoria esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all'art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25 Cost. e, in ambito sovranazionale, all'art. 7, comma 2, della CEDU), che pone una riserva di legge;

c) nel recepimento di norme o sentenze straniere, premesso che la nozione di “ordine pubblico”, che ne costituisce un limite, ha subìto negli ultimi tempi una profonda evoluzione, se da un lato non vi può essere (soprattutto nell'ambito dell'ordine pubblico sostanziale ed in materie cc.dd. sensibili – quale, per es., quella del lavoro -) un arretramento del controllo sui principi essenziali della lex fori, da un altro lato non ci si potrà attestare dietro la ricerca di una piena corrispondenza tra istituti stranieri ed istituti italiani.

In sede di riconoscimento occorrerà quindi, in primo luogo, valutare se l'istituto che vuole trovare ingresso nel nostro sistema sia o meno in aperta contraddizione con l'intreccio di lavori e di norme che inverano l'ordinamento costituzionale.

Il passaggio chiave della decisione

Il passaggio, a mio avviso, nevralgico dell'intera struttura logica della sentenza è quello sviluppato a pagina 23, a mente del quale «Schematicamente si può dire che, superato l'ostacolo connesso alla natura della condanna risarcitoria, l'esame va portato sui presupposti che questa condanna deve avere per poter essere importata nel nostro ordinamento senza confliggere con i valori che presiedono la materia, valori riconducibili agli artt. da 23 a 25 della Costituzione».

Orbene, ritengo che al primo inciso dell'affermazione non possa riconoscersi il significato della irrilevanza dello scrutinio avente ad oggetto la natura (indennitaria, deterrente o sanzionatoria) della condanna risarcitoria, dovendosi interpretare il passaggio nel senso della necessità, anzi, di far precedere la valutazione della compatibilità dell'istituto straniero con il nostro diritto interno da quella sul carattere della condanna.

Sembra, del resto, andare in questa direzione il successivo passaggio, secondo cui «ogni prestazione patrimoniale di carattere sanzionatorio o deterrente non può essere imposta dal giudice italiano senza espressa previsione normativa». Se, infatti, fosse ininfluente ormai il detto inquadramento, sarebbe del pari inutile individuare quale sia il fondamento (normativo) di legittimità della condanna. Logico corollario delle riportate premesse è, infine, l'affermazione a mente della quale nell'ordinamento straniero, all'interno del quale è sorto l'istituto che si intende esportare, deve esservi (alla stessa stregua di quanto verrebbe preteso nel contesto italiano) un «ancoraggio normativo per una ipotesi di condanna a risarcimenti punitivi».

D'altra parte, la distinzione, anche dogmatica, delle pronunce condannatorie a seconda della loro natura ha dei risvolti pratici, in quanto il riconoscimento del connotato indennitario renderebbe di per sé irrilevante il vaglio, sul piano logico successivo, della compatibilità dell'istituto con l'ordinamento italiano.

Eppure non risulta conseguenziale a tale approccio la considerazione per cui resterebbe poi nella singolarità di ogni ordinamento (a seconda dell'attenzione prestata alla figura dell'autore dell'illecito o a quella del danneggiato) la declinazione dei risarcimenti punitivi ed il loro ancoraggio a profili sanzionatori o più strettamente compensatori (cfr. pgg. 23-24).

La, almeno apparente, commistione di piani ritorna nel preambolo che precede l'ultimo paragrafo, nella parte in cui si sostiene che l'applicazione dell'art. 49 della CEDU comporta che il controllo demandato alle corti d'appello sia diretto a verificare la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo e tra quest'ultimo e la condotta censurata, il tutto «per rendere riconoscibile la natura della sanzione/punizione» (cfr. pg. 24). Il rilievo, per quanto sia operato indifferentemente avuto riguardo ai due tipi di risarcimento, appare, invero, nuovamente riconducibile al primo cerchio concentrico.

A meno che, nel ribadire l'impostazione alternativa della irrilevanza di individuare la natura della condanna risarcitoria, non si ritenga che il parametro rappresenti il criterio sulla cui base operare, in sede di delibazione, la valutazione di compatibilità della stessa con il sistema interno che la recepirebbe. Tuttavia, ancorare quest'ultima ad un termine di paragone di tal fatta porterebbe con sé alcuni problemi pratici:

1) anche a voler prescindere dalla inutilità della verifica concernente la proporzionalità tra risarcimento riparatorio-compensativo e risarcimento punitivo, non è detto che la sproporzione rispetto alla condotta censurata implichi di per sé la incompatibilità con l'ordinamento nazionale;

2) si introdurrebbe un concetto che, data la sua genericità e flessibilità, favorirebbe un giudizio discrezionale e, comunque, non adeguatamente confinato, con inevitabili ripercussioni sulla certezza delle decisioni;

3) si appiattirebbe, di fatto, “il portato della Costituzione e di quelle leggi che […] inverano l'ordinamento costituzionale” su di un principio comunitario che, per quanto di ampio dominio, è comunque settoriale.

Il parametro della esorbitanza della condanna risarcitoria

Il pericolo indicato al n. 2) non è, peraltro, sconosciuto, sia pure sotto un altro profilo, proprio nel sistema statunitense cui è riconducibile l'istituto dei punitive damages. Invero, dalla metà degli anni Ottanta l'estensione applicativa nella prassi giudiziaria americana ha comportato l'intervento, a più riprese, della Corte suprema federale in funzione di controllo di costituzionalità dell'istituto, con particolare riferimento all'eccessiva portata delle condanne punitive (excessive fines clause), di matrice marcatamente equitativa, e al rapporto di ragionevole proporzionalità di queste rispetto alla distinta liquidazione a titolo propriamente compensativo (compensatory damages). La Corte suprema, nell'intento di ridimensionare l'entità massima dei danni punitivi, ha pertanto indicato, quali criteri generali di legittimità della liquidazione, il grado di riprovevolezza della condotta del danneggiante (degree of reprehensibility), la proporzionalità tra danni punitivi e danni strettamente risarcitori entro un determinato multiplo (ratio), il raffronto alla misura delle sanzioni civili o penali applicabili alle condotte equivalenti (sanctions for comparable misconduct).

Su questa stessa lunghezza d'onda si muove la Francia, la cui Corte di cassazione ritiene i danni punitivi contrari all'ordine pubblico solo se liquidati in misura eccessiva (Cour de cassation, 7 novembre 2012, n. 11-23871 e 1 dicembre 2010, n. 09-13303, segnalate da L. FRATA, Art. 2059 c.c. e art. 96, 3° comma, c.p.c.: riflessioni sulle funzioni della r.c., in Danno e responsabilità, 2013, 544). Parimenti, al Considerando 32 del REG. 864/07/CE dell'11 luglio 2007 sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali («Roma II») si osserva, in tema di eccezione di ordine pubblico di cui all'art. 26, che, ai fini dell'applicazione delle norme di diritto internazionale privato, il rifiuto di condannare ai danni punitivi può giustificarsi in via di principio, ma solo quando essi siano eccessivi. In quest'ottica, potrebbe privilegiarsi una soluzione intermedia, quale quella accolta in Germania, in Spagna ed in Francia, in cui si è già ritenuto che la valutazione debba essere fatta caso per caso, limitando l'ingresso (rectius, la riconoscibilità) delle sentenze straniere di danno punitivo solo alle ipotesi in cui la misura della sanzione sia eccessiva (di questo avviso è S. CORONGIU, I danni punitivi sono ancora contrari all'ordine pubblico? Questione rimessa alle SS.UU., su Ilquotidianogiuridico.it, 20 maggio 2016).

Senza tralasciare che, al di là della proporzionalità tra danni punitivi e danni patrimoniali in senso stretto, almeno altri due principi dovrebbero presidiare la condanna dell'autore dell'illecito ai danni punitivi: (i) il grado di riprovevolezza della condotta del responsabile (quanto maggiore è la riprovevolezza, tanto più elevata dovrebbe essere la somma); (ii) il raffronto con sanzioni previste per condotte comparabili (A. NERVI, Danni punitivi e controllo sulla circolazione della ricchezza, in Responsabilità civile e previdenza, 2016, 323).

Una convinzione non esplicitata nella sentenza

Tra le righe traspare una, sia pur non esplicitata, convinzione emersa all'esito della camera di consiglio. La S.C., per quanto si sia diffusa, alle pagine 18 e 19, nella elencazione analitica delle fattispecie connotate dalla finalità sanzionatoria nell'ambito del nostro panorama normativo (se ne contano ben venti, nei più disparati ambiti), evidentemente ha escluso l'esistenza di un file rouge accomunante le varie ipotesi, tale da determinare un comune minimo denominatore e da consentire una reductio ad unum delle stesse.

Ciò avrebbe reso estremamente più semplice il controllo demandato alle corti d'appello in sede di exequatur. Invero, pur ritenendo un determinato istituto contraddistinto dalla veste sanzionatoria, lo stesso avrebbe trovato ingresso nel sistema italiano, in quanto non in contrasto con i principi basilari al medesimo sottesi. D'altra parte, si comprende la difficoltà incontrata dal Collegio, se solo si considera che i tipi o modelli, per i quali oggi è ammesso il risarcimento, sono fra loro spesso differenti, perché rispondono a funzioni diverse che giustificano variamente il diritto al ristoro. Nel senso che «non è possibile e non ha senso tentare di individuare una ragione unitaria di tutti gli obblighi "ex lege"», A. GORASSINI, Art. 23 Cost. e responsabilità civile, in Responsabilità civile e assicurazione obbligatoria, a cura di M. Comporti e G. Scalfi, Milano, 1988, 262-263.

D'altra parte, una disposizione legislativa che si limitasse a prevedere il potere del giudice di irrogare risarcimenti punitivi contrasterebbe con il principio di legalità che presiede alla pena, da almeno due punti di vista: il primo e più importante, costituito dall'assenza di una previsione normativa che un tale potere preveda; il secondo, rappresentato dall'incertezza essenziale circa l'entità della pena stessa: ambedue questi profili contrasterebbero con l'art. 25, comma 2, Cost. (C. CASTRONOVO, Del non risarcibile aquiliano: danno meramente patrimoniale, c.d. perdita di chance, danni punitivi, danno c.d. esistenziale, in Europa e diritto privato, 2008, 315).

I temi di indagine non esplorati nella pronuncia

Non risulta affrontato uno dei principali argomenti a sostegno della tesi che si oppone all'introduzione dei punitive damages, vale a dire quello, prospettato sia in dottrina (C. CASTRONOVO, op. cit., 7) che in giurisprudenza (Cass. civ., sez. I, 8 febbraio 2012, n. 1781- relativa proprio al tema della delibazione delle sentenze statunitensi recanti “risarcimenti punitivi” – e Cass. civ., sez. II, 12 giugno 2008, n. 15814, secondo cui «il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione d'un diritto soggettivo non è riconosciuto dall'ordinamento con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso», visto che «lo stesso ordinamento non consente l'arricchimento ove non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro»), alla cui stregua «la natura puramente compensativa del risarcimento del danno non è il frutto casuale di una scelta storica del legislatore, ma è invece corollario di un principio trascendentale del diritto privato, secondo cui ogni attribuzione patrimoniale deve avere una causa in grado di giustificarla, mentre così non è per il risarcimento punitivo, al quale per definizione non corrisponde una perdita del danneggiato».

In questo senso, anche chi (A. NERVI, op. cit., 9) muove dal presupposto che «il nostro ordinamento non è insensibile a declinare la responsabilità civile in chiave sanzionatoria», si chiede «se possa ritenersi compatibile con i principi del nostro ordinamento un trasferimento di ricchezza – dal danneggiante al danneggiato – che non risulti sorretto da una causa riconosciuta e/o riconoscibile, e dunque verificabile da parte dell'autorità giudiziaria».

Affermare che la stessa misura dell'obbligo è determinata dall'ammontare del danno in concreto verificatosi (o che, comunque, non può superarlo) significa, per certi versi, reiterare la ragione sostanziale per la quale si tende a favorire la compensatio lucri cum damno. In senso analogo M. BARCELLONA, Funzione compensativa della responsabilità civile e private enforcement della disciplina antitrust, in Contratto e impresa, 2008, 120, in part. 128, secondo cui, riferita al risarcimento, «la funzione compensativa sta ad indicare che il danno non solo condiziona l'insorgere dell'obbligo di ripararlo ma ne delimita anche il contenuto, ossia che la stessa misura dell'obbligo è determinata dall'ammontare del danno in concreto verificatosi (o che, comunque non può superarlo). Essa, dunque, sta a significare che la misura dell'effetto giuridico proprio della responsabilità è subordinata all'entità del fatto che lo produce».

Così come non è stata sottoposta a vaglio critico la posizione di Cass. civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183, la quale, nell'affermare che l'apprezzamento del giudice italiano, in sede di delibazione di una sentenza straniera, sull'eccessività dell'importo liquidato per danni dal giudice estero, con finalità punitive, consiste e si risolve in un giudizio di fatto riservato al giudice della delibazione, ed insindacabile, se congruamente e logicamente motivato, in sede di legittimità, aveva altresì sostenuto che l'istituto nordamericano, incompatibile con l'ordinamento italiano, dei cc.dd. danni punitivi, non sarebbe riferibile, fra l'altro, alla risarcibilità dei danni non patrimoniali e morali. Resta, dunque, un ulteriore “nervo scoperto”, dal momento che, almeno prima della sentenze cc.dd. di San Martino del 2008, il danno morale veniva riconosciuto quasi automaticamente come conseguenza del riscontrato (e medicamente accertabile) danno alla integrità psico-fisica e, quindi, si procedeva di fatto al riconoscimento di un danno punitivo. Tanto è vero che la Suprema Corte si era vista costretta, al fine di arginare il fenomeno, a sostenere che gravava sul danneggiato l'onere di provare l'esistenza stessa del danno, ivi compreso quello morale, mediante l'allegazione di concrete circostanze di fatto da cui presumerlo, restando escluso che tale prova potesse considerarsi in re ipsa, atteso che al risarcimento di detto tipo di danno non potevano in alcun modo riconoscersi finalità meramente punitive (cfr., fra le tante, Cass. civ., 21 dicembre 1998, n. 12767).

Un elemento di novità

All'esito di una disamina più approfondita della pronuncia, emerge un significativo elemento di novità che si annida tra le righe della stessa: l'adeguata copertura normativa, pur permanendo quale elemento indefettibile per l'ammissibilità di una condanna risarcitoria per danni punitivi, non deve necessariamente rinvenirsi all'interno dello Stato che deve valutarne la compatibilità con i propri valori costituzionali, ma può trovare il suo fondamento all'interno dell'ordinamento straniero che vuole “esportarla”. Il concetto, nonostante la sua notevole portata innovativa, è contenuto in un inciso tra parentesi a pagina 23, a tal punto che sembra che la Corte sia inavvertita delle eventuali ricadute sul piano applicativo.

Nitido è, invece, il successivo richiamo agli elementi che devono essere compresenti affinché l'ancoraggio normativo possa dirsi presente:

a) che il giudice a quo abbia pronunciato sulla scorta di basi normative adeguate, che rispondano ai principi di tipicità e prevedibilità (e che, quindi, si sia al cospetto di una condanna straniera a “risarcimenti punitivi” proveniente, nel rispetto del principio di legalità, da una fonte normativa riconoscibile);

b) che la legge, o simile fonte, abbia regolato la materia “secondo principi e soluzioni” di quel paese, con effetti che risultino non contrastanti con l'ordinamento italiano.

Molto rumore per nulla?

Allora, a ben vedere, per sbarrare l'ingresso delle sentenze straniere comminatorie di danni punitivi, ora come allora, occorrerebbe dimostrare che la funzione del rimedio risarcitorio, attualmente configurato in termini esclusivamente compensatori, assurga al rango di un valore costituzionale essenziale e imprescindibile del nostro ordinamento.

Ma, se così fosse, nulla nella sostanza sarebbe cambiato rispetto al passato. Invero, si è da sempre ritenuto che, al fine di consentire il ricevimento di una condanna sanzionatoria, sia necessario un preciso aggancio normativo per connotare l'obbligazione risarcitoria in senso anche punitivo, ovvero per attribuirvi (anche) una funzione deterrente. Il fondamento di tale presupposto va identificato nell'art. 23 Cost., nella parte in cui si riferisce alla “prestazione patrimoniale”, alla quale – si è osservato – “dal combinato disposto degli artt. 1173 e 1174 c.c. è riportabile la obbligazione risarcitoria” (A. GORASSINI, cit., 259).

Così come, in dottrina, si era già da tempo propugnato il principio per cui, allorché la fattispecie dell'illecito e dell'offesa da esso arrecata sia tale da manifestare una «rilevanza giuridica» del danno che vada al di là delle «conseguenze» di esso, specie in termini patrimoniali, sarebbe non solo possibile, ma addirittura auspicabile, il ricorso ad una interpretazione «costituzionalmente orientata» (dell'istituto) della responsabilità civile, specie alla stregua del principio di «effettività» della tutela dei diritti e valori menzionati all'art. 2 Cost. (A. DI MAJO, Riparazione e punizione nella responsabilità civile, in Giurisprudenza italiana, 2016, 1860; C. SCOGNAMIGLIO, I danni punitivi e le funzioni della responsabilità civile, ne Il Corriere giuridico, 2016, 918-919).

Si tratta, in definitiva, di individuare nel vigente codice civile un fondamento normativo alla possibilità, se non di “legittimare” – su di un piano generale – la figura dei “danni punitivi”, quantomeno di “assecondare” la funzione sanzionatoria del risarcimento (soprattutto in caso di illeciti dolosi).

Considerazioni conclusive

Nell'ipotesi di riconoscimento dell'autorità del giudicato straniero, la clausola dell'ordine pubblico dovrebbe – a differenza del filtro sulle norme di diritto straniero applicabili in Italia – operare in maniera meno rigorosa, atteso che riconoscere l'efficacia di una sentenza straniera di condanna a punitive damages non comporta l'automatica introduzione nell'ordinamento italiano dei danni punitivi: la concessione dell'exequatur non muta, cioè, il fatto che l'efficacia della sentenza è rimasta all'interno del rapporto privatistico limitato alle parti nell'ambito di una controversia internazionale, con effetti solo incidentali nell'ordinamento italiano.

Il tutto tenendo altresì presente l'evoluzione del principio di ordine pubblico nel nostro contesto, originariamente inteso in senso nazionale (Cass. civ., n. 818/1962 e Cass. civ., n. 3881/1969) e via via concepito sempre di più in senso internazionale (Cass. civ., n. 2788/1995; Cass. civ., n. 17349/2002; Cass. civ., n. 22332/2004; Cass. civ., n. 27592/2006; Cass. civ., n. 1302/2013; Cass. civ., n. 19405/2013). In questo percorso occorrerebbe trarre spunto dall'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, a tenore della quale è necessario guardare agli “effetti” dei provvedimenti giudiziari e degli atti stranieri sul nucleo essenziale dei valori del nostro ordinamento, non essendo all'uopo rilevanti le mere norme imperative o inderogabili (Cass. civ., n. 2215/1984; Cass. civ., n. 13928/1999 e Cass. civ., n. 4040/2006) ed entrando in gioco solo le norme fondamentali, vale a dire i valori costituzionali essenziali del diritto interno (Cass. civ., n. 543/1980; Cass. civ., n. 2215/1984; C. cost. n. 214/1983).

Mi sia consentita una considerazione finale. In tema di danno cd. tanatologico, come è noto, Cassazione civile (Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350), è stata chiara: «… la vita è bene meritevole di tutela nell'interesse della intera collettività, ma tale rilievo giustifica e anzi impone, come è ovvio, che sia prevista la sanzione penale, la cui funzione peculiare è appunto quella di soddisfare esigenze punitive e di prevenzione generale della collettività nel suo complesso, … ma non impone necessariamente anche il riconoscimento della tutela risarcitoria di un interesse che forse sarebbe più appropriato definire generale o pubblico, piuttosto che collettivo, …» (per un approfondimento, mi permetto di rinviare a A. PENTA, Il riconoscimento dei danni punitivi è contrario all'ordine pubblico?, su questa Rivista).

Ma allora mi domando: se al cospetto di quello che può essere considerato come il primo tra i diritti inviolabili della persona (il diritto alla vita) non viene riconosciuto alcun ristoro, onde non incorrere nel rischio di un intervento punitivo, è possibile ricorrere al rimedio risarcitorio con valenza sanzionatoria allorquando ad essere lesi siano diritti di minore valenza, almeno nelle ipotesi in cui l'illecito non integri gli estremi di un reato?

Guida all'approfondimento

F.BENATTI, Correggere e punire. Dalla Law of Torts all'inadempimento del contratto, Giuffrè, Milano, 2008;

F.BENATTI, La circolazione dei danni punitivi: due modelli a confronto, in Corr. giur., 2012, pp. 263 ss.;

V.M.BIANCO, In tema di c.d. danni punitivi nell'ordinamento italiano, in Riv. Corte dei Conti, 2009, pp. 6 ss.;

A.BOGLIONE, “Punitive damages”: passato, presente (e futuro?) in diritto assicurativo nordamericano e inglese, con qualche riflessione suggerita dal diritto italiano, in Ass., 2011, pp. 3 ss.;

F.D.BUSNELLI-E.D'ALESSANDRO, L'enigmatico ultimo comma dell'art. 96 c.p.c.: responsabilità aggravata o “condanna punitiva”?, in Danno e resp., 2012, pp. 585 ss.;

F.D.BUSNELLI, Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito, danni punitivi, in Eur. e dir. priv., 2009, pp. 909 ss.;

V.D'ACRI, I danni punitivi, Roma, EPC Libri, 2005;

D'AMRAM, Il rifiuto dei punitive damages nell'attuale sistema italiano (commento a Cass. Civ., sez. III, 19 gennaio 2007, n. 1183), in Dir. e form., 2007, pp. 515 ss.;

P.FAVA, Funzione sanzionatoria dell'illecito civile? Una decisione costituzionalmente orientata sul principio compensativo conferma il contrasto tra danni punitivi e ordine pubblico, in Corr. giur., 2009, IV, pp. 525 ss.;

L.FRATA, L'art. 96, comma 3, cod. proc. civ. tra danni punitivi e deterrenza, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, pp. 271 ss.;

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