Da risarcire il paziente (o gli eredi) in caso di ritardo diagnostico

Redazione Scientifica
10 Settembre 2015

Una volta accertata la presenza di un carcinoma, è onere del medico professionista, utilizzando la dovuta diligenza, approfondire il quadro clinico del paziente, predisporre esami specifici e effettuare interventi c.d. palliativi. Così facendo, il medico, anche se la malattia è terminale, potrebbe dare al paziente la chance di vivere per un (seppur breve) periodo di tempo in più. Al contrario, un ritardo diagnostico può comportare un danno risarcibile a favore del paziente o dei suoi eredi, quando la condotta sanitaria omissiva sia la causa di tutti i pregiudizi sofferti dal paziente o del decesso dello stesso.

La vicenda. Per la sofferenza patita a causa della tardiva diagnosi di un carcinoma all'utero, una donna chiedeva il risarcimento dei danni nei confronti del ginecologo che l'aveva curata. Mentre il Tribunale di primo grado accoglieva parzialmente la domanda attorea, la Corte d'appello respingeva il gravame interposto dagli eredi dell'attrice, morta in corso di causa.

Gli eredi ricorrevano allora in Cassazione; nel dettaglio lamentavano:

  • l'erronea e immotivata esclusione della sussistenza del nesso causale tra il ritardo diagnostico della malattia e la morte della donna;
  • la contraddittoria negazione del nesso causale tra la condotta omissiva del sanitario e la sussistenza di tutti i pregiudizi sofferti dalla paziente e della loro diretta derivazione della condotta colpevole del medesimo;
  • l'inidoneità delle valutazioni tecniche rese dai consulenti nominati (i quali avevano escluso che la tardività della diagnosi avesse inciso sulla possibilità della paziente di godere di una maggiore durata di sopravvivenza).

La Cassazione nell'affrontare la questione in esame ricorda i principi ormai affermati in sede di legittimità, a cui il giudice di merito non si è attenuto.

La diligenza del professionista. Primo fra tutti il principio in base al quale «il debitore è di regola tenuto ad una normale perizia, commisurata alla natura dell'attività esercitata (secondo una misura obiettiva che prescinde dalle concrete capacità del soggetto, sicché deve escludersi che ove privo delle necessarie cognizioni tecniche il debitore rimanga esentato dall'adempiere l'obbligazione con la perizia adeguata alla natura dell'attività esercitata); mentre una diversa misura di perizia è dovuta in relazione alla qualifica professionale del debitore, in relazione ai diversi gradi di specializzazione propri dello specifico settore di attività (Cass., 20 ottobre 2014, n. 22222). Il Supremo collegio ricorda anche che il professionista «deve impiegare la perizia ed i mezzi tecnici adeguati allo standard professionale o lavorativo della sua categoria» e che tale standard «in conformità alla regola generale» determina «il contenuto della perizia dovuta e la corrispondente misura dello sforzo diligente adeguato per conseguirlo, nonché del relativo grado di responsabilità» (Cass., 20 ottobre 2014, n. 22222; Cass., 9 ottobre 2012, n. 17143). Il professionista è quindi tenuto – come specificato dalla Cassazione – ad obblighi di buona fede oggettiva o correttezza quali principi di solidarietà sociale la cui violazione comporta l'insorgenza di responsabilità.

La perdita di chance. Altro principio cardine, ius receptum in sede di legittimità, in tema di danno alla persa conseguente a responsabilità medica, è che «l'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in relazione al quale si manifesti la possibilità di effettuare solo un intervento c.d. palliativo, determinando un ritardo della relativa esecuzione cagiona al paziente un danno già in ragione della circostanza che nelle more egli non ha potuto fruirne, dovendo conseguentemente sopportare tutte le conseguenze di quel processo morboso, e in particolare il dolore che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto alleviargli, sia pure senza la risoluzione del processo morboso» (Cass., 18 settembre 2008, n. 23846; Cass., 23 maggio 2014, n. 11522). In aggiunta «il danno risarcibile alla persona in conseguenza dell'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale» è ravvisabile – spiega la Suprema Corte – «anche in conseguenza della mera perdita per il paziente della chance di vivere per un (anche breve) periodo di tempo in più rispetto a quello poi effettivamente vissuto, ovvero anche solo della chance di conservare, durante quel decorso, una migliore qualità di vita» (Cass., 18 settembre 2008, n. 23846; Cass., 8 luglio 2009, n. 16014; Cass., 27 marzo 2014, n. 7195).

La Cassazione accoglie il ricorso.Nel caso di specie, lo specialista non aveva utilizzato la dovuta diligenza, dal momento che il carcinoma con certezza era già presente all'atto delle visite del professionista; l'approccio diagnostico dello stesso era risultato del tutto insufficiente; e il quadro patologico andava approfondito tramite esami specifici. Pertanto, erroneamente i giudici di merito avevano escluso la rilevanza causale tra l'aggravamento della malattia e il comportamento omissivo del sanitario e la conseguente responsabilità del ginecologo, avendo gli stessi basato la decisione sul rilievo dei consulenti, secondo i quali poco o nulla sarebbe cambiato circa il decorso clinico, essendo la forma tumorale particolarmente maligna e aggressiva.

Inoltre, in modo del tutto apodittico ed erroneo la Corte territoriale aveva escluso il risarcimento del danno da perdita di chance: anche se la malattia progrediva rapidamente, un intervento palliativo avrebbe potuto, non certo risolvere il processo morboso, quantomeno, da un lato, alleviare le sofferenze, dall'altro, dare una chance, seppur breve, di vita ulteriore alla malata.

La Cassazione ha quindi accolto il ricorso, rinviando l'impugnata sentenza alla Corte d'appello che dovrà attenersi ai principi suindicati.

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