Limiti alla risarcibilità dei danni endofamiliari e residua specialità del diritto di famiglia

13 Gennaio 2017

La famiglia è la prima formazione sociale in cui si forma e si esprime la personalità degli individui. Essa è (o dovrebbe essere) caratterizzata da vincoli biologici e soprattutto affettivi; in essa il singolo soddisfa il suo naturale bisogno di completarsi con l'altro e di trasmettere il suo patrimonio non solo (e non necessariamente, nel caso di adozione) genetico ai figli.
Premessa

La famiglia è la prima formazione sociale in cui si forma e si esprime la personalità degli individui. Essa è (o dovrebbe essere) caratterizzata da vincoli biologici e soprattutto affettivi; in essa il singolo soddisfa il suo naturale bisogno di completarsi con l'altro e di trasmettere il suo patrimonio non solo (e non necessariamente, nel caso di adozione) genetico ai figli.

Da sempre gli ordinamenti giuridici hanno riconosciuto la rilevanza che il gruppo familiare aveva per la collettività in cui si inseriva, in passato come autonomo centro di attività economica, oggi per diverse funzioni sociali, quali l'espressione della personalità dei singoli componenti, ma anche l'assistenza dei più deboli (anziani e minori), l'educazione e lo sviluppo della personalità dei minori, la garanzia di autonomia e libertà nella scelta dei valori dei giovani. Per questa riconosciuta rilevanza sociale i rapporti tra familiari, da un lato, non sono rimessi alla sola disciplina di regole extragiuridiche, dall'altro lato, sono sottoposti a norme giuridiche speciali, diverse da quelle rivolte ad altri rapporti tra privati e spesso connotate da rilevanza anche pubblicistica. La sintesi di questa complessità delle fonti di disciplina dei rapporti familiari è espressa nella famosa immagine di A.C. Jemolo la famiglia è un'isola lambita dal diritto.

Da queste osservazioni deriva, a mio parere, la tradizionale specialità del diritto di famiglia, che oggi è in fase di progressivo superamento. Manifestazione di questa tendenza è anche la pretesa risarcibilità del c.d. danno endofamiliare.

Il danno endofamiliare

È necessario delimitare rigorosamente l'ambito dell'indagine. In altri termini, occorre precisare che cosa si intenda per danno endofamiliare.

Sono, infatti, ormai numerose le decisioni dei giudici (in particolare Cass. civ., 10 maggio 2005, n. 9801) e le opinioni della dottrina che, in caso di comportamenti dannosi all'interno di un gruppo familiare o parafamiliare, alle tutele previste dalla disciplina speciale del diritto di famiglia, affiancano le tutele ritenute più forti ed imprescindibili del diritto generale ed in specie del risarcimento previsto dagli artt. 2043 e 2059 c.c.

A mio avviso, però, occorre distinguere quei comportamenti che sarebbero considerati illeciti e fonte di obblighi risarcitori anche se commessi da persone non legate da vincoli familiari, da quei comportamenti che acquistano rilevanza solo perché intervengono tra persone già prima legate da rapporti significativi per l'ordinamento giuridico.

Con riguardo ai primi è indubbio che le relazioni di convivenza, quando i rapporti sono deteriorati, possono accentuare le possibilità d tensioni e di conflitti, che possono poi sfociare in comportamenti lesivi dei valori fondamentali dell'integrità fisica e morale delle persone. In questi casi, però, ritengo che non sia corretto parlare di danni endofamiliari; queste lesioni, a prescindere dalle agevolazioni derivanti dalla vicinanza tra danneggiante e danneggiato, sarebbero qualificabili come danni ingiusti anche se interessassero soggetti non legati da vincoli familiari. È certo, infatti, che questi legami non giustificano una sorta di immunità rispetto alle ordinarie sanzioni per comportamenti illeciti; al contrario, essi dovrebbero assicurare una più marcata attenzione e rispetto reciproci.

Per essi conseguentemente non si può neppure dubitare dell'applicabilità della normativa generale ed in particolare della responsabilità regolata dall'art. 2043 e ss. c.c. A queste norme potranno applicarsi anche le esimenti, quali l'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere; in tal senso potrebbero non considerarsi comportamenti illeciti il controllo della corrispondenza di un minore, un rimprovero o anche un mezzo fisico di correzione, che non degenerasse nell'abuso.

In alcuni casi i legami di familiarità o di convivenza costituiscono elementi per una qualificazione speciale di reati altrimenti puniti diversamente. Nel caso di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, l'art. 571 c.p. prevede pene inferiori rispetto a quanto disposto dagli artt. 582 e 583 c.p. Viceversa, per il caso di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.) le pene sono aggravate rispetto ad analoghe lesioni procurate ad estranei. Tuttavia, si tratta sempre di comportamenti giudicati illeciti a prescindere dai vincoli che possono legare danneggiante e danneggiato.

La qualifica di danno endofamiliare, a mio avviso dovrebbe invece essere riservata a quei comportamenti che divengono rilevanti solo in presenza di rapporti familiari.

In un rapporto matrimoniale, alle regole extragiuridiche, religiose, etiche e poste dai sentimenti, si affiancano norme giuridiche che impongono obblighi reciproci di lealtà, di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione e di coabitazione (art. 143 c.c.). Oggi questi obblighi, con esclusione dell'obbligo di fedeltà, sono stati estesi alle unioni civili (art. 1, comma 11, della l. n. 76/2016).

Per le violazioni di questi obblighi l'ordinamento giuridico prevede, con norme apposite, specifiche sanzioni. A mero titolo di esempio, si ricordano l'indennità a carico del coniuge cui sia imputabile la nullità del matrimonio (art. 129-bis c.c.; questo era il caso deciso dalla Suprema Corte del 2005 per la mancata informazione prima del matrimonio di un'infermità impeditiva dello svolgimento della vita coniugale), l'addebito nella separazione giudiziale tra coniugi, gli ordini di protezione previsti dagli artt. artt. 342-bis e 342-ter c.c.(resi applicabili alle unioni civili dall'art. 1, comma 11, della l. n. 76/2016), le sanzioni previste dall'art. 709-ter c.p.c. ed i reati di cui all'art. 570 c.p. e dall'art. 12-sexies della l. n. 898/1970.

I rimedi contro gli illeciti endofamiliari

Con riguardo a queste violazioni si pone il dubbio se queste sanzioni possano considerarsi sufficienti o se, viceversa, la loro efficacia punitiva e preventiva necessiti di essere affiancata e supportata dalle regole ordinarie in tema di responsabilità.

Con argomentazioni basate sul progressivo affermarsi della privatizzazione della famiglia e sulla tendenza ad ampliare i casi di risarcibilità dei danni non patrimoniali, si sono spesso giudicate deboli ed insufficienti le specifiche sanzioni sopra menzionate.

Le leggi, che hanno introdotto i ricordati artt. 342-bis e 342-ter c.c. e 709-ter c.p.c., costituiscono espressione di tale percezione anche da parte del legislatore. Peraltro, proprio questi interventi legislativi possono essere interpretati anche come una conferma della specialità ed autosufficienza del diritto di famiglia. Pur condividendo il giudizio di debolezza delle sanzioni preesistenti, il legislatore, sul presupposto dell'inapplicabilità del sistema generale di sanzione degli illeciti, ha ritenuto necessari interventi ad hoc per rinforzare il valore degli obblighi in questione o anche per adeguarli alle peculiarità degli illeciti, giudicati differenti da quelli analoghi posti in essere da estranei. Ovviamente e come già accennato, il problema della adeguatezza delle sanzioni specifiche riguarda i casi in cui le violazioni degli obblighi tra familiari (e soggetti legati in unione civile) non pregiudichino anche interessi costituzionalmente protetti quali l'integrità fisica e morale ed ogni espressione della personalità rilevante ai sensi dell'art. 2 Cost. In questi casi, infatti il danno non si qualifica più come endofamiliare ed è soggetto alla disciplina generale.

Manifestazione della rilevanza dei vincoli familiari, ai fini dell'eventuale responsabilità per comportamenti dannosi, sia pure in senso inverso, si ricava dalle scriminanti previste in caso di reati commessi in danno di un familiare convivente invece che di un estraneo. L'art. 649 c.p. prevede la non punibilità dei reati contro il patrimonio commessi in danno del coniuge non separato e di altri congiunti stretti. La giustificazione prevalentemente è individuata nell'opportunità di evitare un intervento punitivo che potrebbe turbare rapporti familiari normalmente caratterizzati da una comunanza di interessi non solo patrimoniali. Anche in questo caso il legislatore ha affermato una specialità dei rapporti familiari, con deroga al sistema di diritto comune.

Occorre, dunque, valutare l'opportunità e la correttezza dei menzionati orientamenti che tendono a superare la specialità del diritto di famiglia e ad applicare le regole comuni di responsabilità anche nei casi in cui possano operare dette regole speciali, con specifica attenzione ai casi in cui i comportamenti dannosi si esauriscano in violazioni degli obblighi vigenti tra soggetti legati da rapporti rilevanti anche per l'ordinamento giuridico.

Critiche alla risarcibilità

Si deve sottolineare come quegli orientamenti, che ammettono la risarcibilità dei danni endofamiliari, limitano, poi, l'operatività di queste affermazioni ai casi in cui le lesioni derivino da

«condotte illecite dotate di una certa gravità ed offensività» (così Trib. Venezia, 3 luglio 2006).

La gravità delle condotte deve essere valutata in relazione agli interessi che si vogliono proteggere. Se si considerano gravi quelle condotte che pregiudicano quei valori tutelati anche a livello costituzionale, indipendentemente dalla presenza di rilevanti vincoli familiari, allora si fuoriesce dall'ambito dei danni endofamiliari in senso stretto. Se, viceversa, si vogliono tutelare i valori specifici del vincolo familiare, le norme speciali, che individuano quei valori, indicano anche i rimedi più adatti alla loro tutela. A titolo di esempio, una infedeltà coniugale è giudicata grave e può essere rilevante, ai fini dell'addebito della separazione, solo se importa la lesione della esclusività del legame tra due coniugi e della reciproca lealtà, che costituisce l'essenza del legame matrimoniale, e se, come afferma costantemente la giurisprudenza, è all'origine della rottura della comunione spirituale e materiale tra i coniugi. Per la tutela di questi specifici valori pare adeguata e sufficiente la sanzione dell'addebito della separazione.

Dunque, il criterio della gravità delle condotte e delle lesioni conseguenti, non pare essere idoneo a discriminare l'applicabilità o meno dei rimedi risarcitori.

Escludere, però, ogni limitazione ed applicare i rimedi aquiliani ad ogni illecito in danno di familiari sarebbe espressione del processo di privatizzazione del diritto di famiglia e del progressivo superamento della relativa specialità e costituirebbe un passo ulteriore verso la perdita di rilevanza giuridica della famiglia, in contrasto con il riconoscimento ad essa ancora attribuito dall'art. 29 Cost. Significativo in tal senso mi pare il frequente richiamo, non più a questa norma, che costituiva la base per la specialità della famiglia come formazione sociale, ma al più generico art. 2 Cost. Questa norma, infatti, tutela la personalità dell'uomo come individuo e le formazioni sociali, in cui egli è inserito, sono considerate come strumentali alla sua personalità individuale e non come portatrici di un interesse del gruppo di per sé. Così, invece, l'art. 29 Cost., che considera l'unità della famiglia come interesse distinto e potenzialmente prevalente sugli interessi dei singoli componenti della stessa.

Altra manifestazione di questa progressiva perdita di rilevanza giuridica della famiglia è costituita, a mio avviso, dall'estensione, disposta dalla l. n. 76/2016, della relativa disciplina a situazioni assimilabili, ma non ancora del tutto identificabili con la famiglia come tradizionalmente concepita e come considerata dall'art. 29 Cost. Mi pare difficilmente contestabile che ampliare l'ambito di applicazione di una disciplina comporti l'attenuazione della specificità della fattispecie. La famiglia, o, come oggi spesso si dice, «le famiglie», tende sempre di più a ridursi ad una di quelle formazioni sociali previste dall'art. 2 Cost. come luoghi di espressione della personalità dell'individuo.

Residua specialità del diritto di famiglia

Se, nonostante la sopra ricordata progressiva privatizzazione del diritto di famiglia, non si vuole considerare come già completata questa perdita di specialità, allora mi pare necessario conservare altrettanta specialità per la relativa disciplina e, nei casi di lesioni tra soggetti legati da vincoli familiari e assimilabili, limitare i rimedi a quelli previsti nelle apposite norme. Ad esempio si applicheranno in modo esclusivo quelle norme che descrivono specifiche ipotesi di reato (art. 570 e ss. c.p.) con le ulteriori conseguenze civilistiche in tema di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, ai sensi dell'art. 185 c.p., e quelle di più recente approvazione quali l'art. 709-ter c.p.c. Al di fuori di queste, che sono norme speciali (nel senso che presuppongono un legame di tipo familiare tra danneggiante e danneggiato), resta dubbia l'applicabilità delle norme ordinarie in tema di responsabilità.

La preesistenza, rispetto alla lesione, di vincoli giuridicamente rilevanti tra danneggiante e danneggiato ha indotto un'autorevole dottrina (PARADISO, Famiglia e responsabilità endofamiiare, in Fam. Pers. Succ., 2011, 1 ed in Studi in onore di Antonino Cataudella) ad ammettere, in aggiunta ai rimedi specifici previsti dal diritto di famiglia ed al di fuori dei casi di responsabilità penale, anche i rimedi della responsabilità contrattuale.

Infatti se, da un lato, si condivide l'esigenza di assicurare una tutela più efficace alle vittime di lesioni endofamiliari, dall'altro lato, pare corretto ricondurre i rimedi aggiuntivi nell'ambito di quelli relativi alla violazione di specifici (dei coniugi o dei genitori) obblighi inerenti a rapporti giuridici preesistenti. Pertanto, la suddetta esigenza è meglio assicurata in un quadro «contrattuale», come testimonia l'evoluzione registratasi in tema di responsabilità medica.

Tuttavia, le ragioni che giustificano la sospensione della prescrizione nel caso di rapporti familiari tra creditore e debitore (art. 2941 c.c.) e la presumibile e frequente tolleranza di inesattezze nell'adempimento degli obblighi familiari, anche per la citata dottrina, mostrano come l'invocazione degli artt. 1218 e ss. c.c. da parte del creditore-familiare insoddisfatto possa considerarsi remota e residuale.

Anche a prescindere da questa osservazione, a me pare difficilmente applicabile alla violazione degli obblighi tra familiari la disciplina dettata dagli artt. 1172 e ss, c.c. L'art. 1174 c.c., infatti dispone che «la prestazione che forma oggetto dell'obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere a un interesse anche non patrimoniale del creditore». La fedeltà reciproca, l'assistenza morale e materiale, la collaborazione e la coabitazione, non sono, a mio giudizio, prestazioni suscettibili di valutazione economica. Quindi, a prescindere dalla indiscussa rilevanza dell'interesse non patrimoniale del “creditore”, la relativa lesione non può essere assimilata al mancato adempimento di un'obbligazione (in senso proprio) di una prestazione suscettibile di valutazione economica.

Inoltre, considero adeguati e sufficienti i rimedi appositi previsti dal diritto di famiglia.

Se le violazioni degli obblighi coniugali e familiari appaiono soggettivamente di modesta rilevanza la vittima preferirà tollerarle e non reagire; se, viceversa, essa le giudicherà intollerabili, invocherà la tutela speciale prevista dal diritto di famiglia (addebito della separazione, sanzioni di cui all'art. 709-ter c.p.c., provvedimenti di cui agli artt. 342-ter c.c. e ss. fino alla decadenza dalla responsabilità genitoriale). Queste sanzioni, al di fuori dei casi in cui i comportamenti lesivi integrino ipotesi di reato, appaiono meglio adattabili alla natura degli interessi protetti rispetto ad un teorico risarcimento del danno da inadempimento.

Per quanto concerne gli obblighi reciproci dei coniugi, essi non sono diretti a soddisfare l'interesse alla tutela della personalità e/o della dignità personale, già considerati da altre norme, ma a soddisfare il naturale bisogno di legarsi ad un'altra persona per condividere il cammino dell'esistenza, per costituire, secondo le parole della legge (art. 1 l. n. 898/1970), una comunione spirituale e materiale, per ricevere cioè quella assistenza morale e materiale, di cui gli altri bisogni ed anche la fedeltà, a mio avviso, sono specificazioni. La possibilità di fare cessare una convivenza, ormai privata del suo scopo per la violazione degli obblighi in esame, costituisce, secondo me, tutela adeguata e sufficiente. Le ulteriori sanzioni conseguenti all'addebito della separazione (perdita del diritto al mantenimento e perdita dei diritti ereditari), che generalmente sono considerate necessarie per assicurare la giuridicità dei doveri coniugali, svolgono quella funzione di deterrenza, che, in aggiunta a quella risarcitoria, costituisce una delle funzioni della responsabilità da atto illecito. Non voglio mettere in dubbio che il bisogno di costituire legami familiari costituisca un valore meritevole di tutela costituzionale e come tale sia rilevante ai fini del risarcimento anche dei danni non patrimoniali, secondo l'insegnamento della corte di cassazione (Cass. civ., Sez. Un. n. 29672/2008), ma ritengo che i rimedi della separazione e, poi, del divorzio siano adeguati e coerenti con gli interessi stessi. Il risarcimento del danno non patrimoniale ha una funzione essenzialmente consolatoria; nel caso in esame a me pare che, viceversa, avrebbe una funzione sanzionatoria, se non addirittura punitiva, in contrasto con lo spirito della riforma della separazione, che dal 1975 si vuole considerare come rimedio e non come sanzione.

In conclusione, la peculiarità degli interessi tutelati dagli obblighi tra coniugi giustifica, a mio parere, la peculiarità dei rimedi previsti dall'ordinamento.

Considerazioni analoghe si possono svolgere anche con riguardo ad altri obblighi tra familiari ed alle loro violazioni.

Il già ricordato art. 709-ter c.p.c. dispone che, in caso di gravi inadempienze, rispetto a quanto disposto nei provvedimenti giudiziari relativi all'affidamento dei figli minori, da parte di un genitore, oltre alla modifica dei provvedimenti stessi, il giudice può ammonire il genitore inadempiente, condannare al risarcimento dei danni nei confronti del minore, condannare al risarcimento dei danni nei confronti dell'altro genitore e condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrative pecuniaria.

È opinione diffusa in dottrina e giurisprudenza che le pronunce di condanna di cui all'art. 709-ter, nn. 1 e 2, c.p.c., non costituiscano rimedi risarcitori in senso proprio, ma debbano essere considerate come forme di sanzione civile, assimilabili alla pronuncia di responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c. o alla condanna, equitativamente determinata. Talora sono state qualificate come punitive damages o più semplicemente come misure coercitive preordinate all'esecuzione indiretta di obblighi infungibili, quali sono quelli relativi all'affidamento della prole. Gli stessi presupposti, infatti, giustificano l'applicazione delle altre misure previste nella norma citata, quali l'ammonimento e la sanzione amministrativa pecuniaria, che hanno sicuramente natura sanzionatoria e non risarcitoria.

A differenza dal risarcimento dei danni, sia extracontrattuali che contrattuali, le condanne in esame sembrano dipendere dalla gravità delle violazioni e non dalla esistenza o dalla misura del pregiudizio arrecato e sono disposte in seguito ad un giudizio a cognizione sommaria; parrebbe, infatti, gravemente anomala la possibilità di introdurre un giudizio a cognizione piena in grado di appello, come invece è consentito per questi particolari illeciti, che sono definiti endoprocessuali, in quanto limitati alle sole violazioni di preesistenti provvedimenti giudiziari. Ulteriore elemento di diversità, rispetto ad una condanna al risarcimento danni in senso proprio, deriva dall'impossibilità di azione in un giudizio autonomo, analogamente a quanto previsto dall'art. 96 c.p.c.

Anche se, in contrasto con queste ed altre considerazioni, si qualificassero i rimedi previsti dai nn. 2 e 3 dell'art. 709-ter c.p.c. come veri e propri risarcimenti di danni, la specialità della disposizione costituirebbe argomento sufficiente per escludere l'applicabilità anche delle norme generali, sia di quelle relative agli illeciti aquiliani, sia di quelle relative al risarcimento per inadempimento. Il legislatore, in altri termini, ha ritenuto che le peculiarità degli interessi da tutelare giustificassero rimedi altrettanto peculiari, che fossero caratterizzati da ampio margine di discrezionalità e di adattabilità alle esigenze dei casi concreti. In conclusione, anche per le violazioni dei provvedimenti relativi all'esercizio della responsabilità genitoriale o delle modalità di affidamento, i rimedi speciali previsti dal legislatore appaiono adeguati e sufficienti, senza necessità di aggiungere ad essi quanto previsto dalle norme ordinarie.

La non ancora superata specialità del diritto di famiglia non è smentita neppure dall'art. 342-ter c.c. Gli ordini di protezione ivi previsti contro gli abusi familiari, con funzione essenzialmente preventiva, integrano, con rimedi specifici per i legami particolari tra vittima e responsabile, la disciplina del codice penale, che a sua volta, con l'art. 185 c.p., rinvia per il risarcimento dei danni alle norme civilistiche.

Pertanto, al di fuori delle ipotesi in cui siano pregiudicati valori tutelati indipendentemente da vincoli familiari, quali l'integrità fisica e morale e la libertà personale, neppure questi rimedi speciali giustificano un'applicazione delle norme ordinarie di cui agli artt. 2043 e ss. c.c., né agli artt. 1218 e ss. c.c.

Recentemente (PARADISO, Navigando nell'arcipelago familiare. Itaca non c'é. in Riv. dir. civ. 2016, 1306) si è messa in evidenza un'inversione del rapporto tra gli istituti della famiglia e quello della filiazione. In passato l'esistenza di una famiglia costituiva presupposto imprescindibile per il sorgere dello status di figlio, quanto meno nella sua qualificazione privilegiata come legittimo, e della conseguente disciplina dei rapporti conseguenti. Ora profonde riforme, da un lato, hanno esteso l'applicabilità della disciplina dei rapporti coniugali a rapporti un tempo non rilevanti per l'ordinamento giuridico o addirittura giudicati negativamente ed hanno così ridotto la specialità della stessa; dall'altro lato, hanno separato drasticamente il rapporto di filiazione dal presupposto di un legame tra i genitori. In tal modo la filiazione, un tempo derivata e dipendente dalla famiglia, ha acquisito piena autonomia, mentre la famiglia basata sul matrimonio tra persone di sesso diverso ha perso la rilevanza di gruppo di persone, che sia espressione di un interesse diverso e prevalente rispetto a quello dei singoli componenti, come attestato, nel testo dell'art. 29 Cost., dall'esigenza di garantire l'unità familiare. Si parla di progressiva privatizzazione del diritto di famiglia, perché questa non è più considerata come centro di espressione di interessi, con rilevanza anche pubblicistica, trascendenti quelli dei suoi componenti. Essa, come le altre forme di unione tra persone di sesso diverso o dello stesso sesso, tende ad essere ricondotta a quelle formazioni sociali ove si svolge la personalità dei singoli, previste dall'art. 2 Cost. La famiglia è riconosciuta solo in funzione strumentale all'interesse degli individui che la compongono. Pare conseguenza quasi inevitabile di questo fenomeno la perdita di giustificazione di una disciplina speciale per il cosiddetto diritto di famiglia.

Benché la constatazione di questo fenomeno sia difficilmente smentibile, l'ancora vigente diritto positivo prevede, come sopra ricordato, norme speciali per regolare i rapporti tra coniugi e tra conviventi e, finché il legislatore riterrà che queste abbiano una giustificazione ed un'utilità, queste si dovranno applicare e la dimostrata loro autosufficienza comporta l'inapplicabilità della normativa generale; in particolare, nel caso in esame di violazione degli obblighi previsti dalla legge per coniugi e conviventi non si dovranno cioè integrare i rimedi speciali, né con le norme di responsabilità extracontrattuale e neppure con le regole relative al risarcimento dei danni per inadempimento di obbligazioni contrattuali.

Responsabilità del genitore che non abbia riconosciuto il figlio

Un problema specifico che, a mio avviso, merita qualche ulteriore considerazione concerne la responsabilità del genitore che non abbia riconosciuto il figlio per i danni patrimoniali e principalmente per quelli non patrimoniali del figlio stesso e, secondo una recente decisione di merito (Trib. Roma, 29 febbraio 2016 , in Foro it. 2016, 2952), anche dell'altro genitore.

Mentre il rapporto tra coniugi e conviventi, come visto, tende progressivamente a perdere di rilevanza specifica nella disciplina giuridica, il rapporto di filiazione, oggi senza distinzioni e quindi a prescindere da eventuali legami tra i genitori, conserva la sua autonoma rilevanza ribadita solennemente anche in numerose convenzioni internazionali, oltre che nelle norme di diritto interno. Le espressioni più esplicite si rinvengono, a mio parere, nella Convenzione sui diritti del fanciullo fatta a New York il 20 novembre 1989 e ratificata in Italia con l. n. 176/1991 che, all'art 7, afferma che «il fanciullo è registrato immediatamente al momento della sua nascita e da allora ha un diritto … a conoscere i suoi genitori e ad essere allevato da essi». Nel nostro ordinamento interno, in corrispondenza del «dovere e diritto dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori del matrimonio», sanciti dall'art. 30 Cost., l'art. 315-bis c.c. afferma che «il figlio ha diritto ad essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori …».

Non si può, quindi, dubitare dell'esistenza del diritto di un figlio, per il fatto stesso di essere nato e dal momento della sua nascita, di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori. Da questa affermazione la giurisprudenza (oltre a numerose pronunce di merito, Cass. civ., 22 luglio 2014, n. 16657) ha, con apparente semplicità, inferito che la lesione di questo diritto comporti necessariamente una responsabilità, anche sul piano del risarcimento, a carico del genitore inadempiente all'obbligo relativo.

Le sentenze in questione, nei casi in cui un padre non aveva riconosciuto il figlio e si era disinteressato di lui, hanno, non solo riconosciuto all'altro genitore il rimborso delle spese sostenute per il mantenimento del figlio comune, ma anche un diritto al risarcimento in favore di quest'ultimo per il danno non patrimoniale subito a causa della privazione dell'essenziale rapporto non solo materiale, ma anche e soprattutto morale con entrambi i genitori.

La privazione di un diritto costituisce sicuramente un danno ingiusto ai fini e per gli effetti dell'art. 2043 c.c. (o anche lesione di un credito per gli effetti di cui all'art. 1218 e ss. c.c.); perché sorga un obbligo di risarcimento di questo danno, però, è anche necessario che questo derivi da un comportamento giudicato illecito dall'ordinamento giuridico.

Se, come visto, il diritto al mantenimento, all'educazione, all'istruzione ed all'assistenza sorge con la nascita stessa, l'obbligo correlativo è condizionato all'accertamento nelle forme di legge del rapporto di filiazione. Nel nostro ordinamento, perché sorga lo status di figlio, non è sufficiente il fatto naturale della nascita, ma occorre che il rapporto naturale di filiazione sia formalmente accertato con atti o comportamenti che richiedono la volontà manifestata, presunta o tacita dei genitori. Dall'art. 30 del d.P.R n. 396/2000 (dello stato civile) risulta che anche l'indicazione della maternità nell'atto di nascita dipende dalla volontà della donna che ha partorito, in quanto la stessa può chiedere di non essere nominata. Questa possibilità esclude l'operare della presunzione di paternità con riguardo ai figli nati nel matrimonio. Per i figli nati fuori dal matrimonio, la necessità della volontà del genitore, formalmente manifestata, è ancora più sicura; il riconoscimento, infatti, non è mera dichiarazione di scienza, come dimostra la possibilità di impugnazione sia per violenza (art. 265 c.c.) che per l'incapacità che deriva da interdizione giudiziale (art. 266 c.c.). La volontà della madre di non essere nominata, se non revocata, preclude anche l'esercizio del diritto, ora riconosciuto ai figli dichiarati adottabili, di conoscere le loro origini biologiche (V. C. Cost. 22 novembre 2013 n. 278). Fuori da questo caso estremo (per il quale si è affermato da Trib. Milano, 14 ottobre 2015, in Famiglia e Diritto, 2016, 2,198, che non possa essere accolta la domanda di riconoscimento della maternità), la possibilità per il figlio di ottenere la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità rassicura che l'accertamento del rapporto di filiazione non è lasciato al mero arbitrio del genitore; resta, tuttavia, certo che il genitore, che non riconosca subito dopo la nascita un figlio, non viola nessun obbligo, ma si avvale di una libertà che l'ordinamento, per ragioni di opportunità, gli ha riconosciuto. D'altro canto, lo stesso figlio, a tutela di quei valori personali che la giurisprudenza vuole tutelare con il risarcimento, potrebbe preferire non agire per la dichiarazione di un rapporto di filiazione sgradito in considerazione proprio di quella scelta del genitore di non riconoscerlo.

Se il mancato o tardivo riconoscimento di un figlio costituisce esercizio di una libertà ammessa dall'ordinamento, sarebbe contraddittorio giudicare illecito l'esercizio di questa libertà e sanzionarlo con un risarcimento del danno non patrimoniale subito dal figlio per essere stato privato del mantenimento e dell'assistenza morale cui aveva diritto. Si tratta, in altri termini, di applicare la regola di carattere generale, posta dall'art. 51 c.p., che esclude la punibilità nel caso di esercizio di un diritto.

La qui sostenuta esclusione del diritto al risarcimento del danno per mancato o tardivo riconoscimento, ovviamente non contraddice e non esclude il diritto al rimborso delle spese sostenute per il mantenimento in favore dell'altro genitore, come è pacifico in giurisprudenza. Questo diritto, infatti, potrà essere esercitato solo successivamente all'accertamento formale del rapporto di filiazione, ma era già sorto al momento della nascita e, per questo, potrà farsi valere retroattivamente, perché prescinde da una valutazione di illiceità del comportamento del genitore obbligato.

In conclusione

Ritengo che il danno endofamiliare in senso stretto, che non integri lesioni rilevanti anche a prescindere dai legami familiari, non debba essere oggetto di risarcimento ai sensi dell'art. 2043 c.c. (né dell'art. 1218 c.c.) in alcuni casi, perché i rimedi specifici previsti (anche da recenti disposizioni di legge) sono sufficienti e meglio adatti alla peculiarità delle lesioni, mentre nel caso del mancato o tardivo riconoscimento di un figlio, perché non si può considerare illecito un comportamento che sia esercizio di una libertà ammessa dall'ordinamento.

In primo luogo, mi pare necessario rimarcare che l'ordinamento positivo di una collettività non deve, pena la realizzazione di un regime totalitario, disciplinare ogni aspetto della vita dei membri della collettività. Esso deve coesistere con altre importanti o meno importanti fonti di regole di comportamento nei rapporti intersoggettivi. In particolare i sentimenti, che costituiscono una motivazione rilevante nelle scelte dei comportamenti umani, devono operare all'interno dei limiti posti dall'ordinamento giuridico, ma devono conservare spazi ampi di influenza sulle decisioni dei singoli. Egoismo ed altruismo, affetto ed ostilità, religiosità e agnosticismo, amicizia e inimicizia, buona e cattiva educazione costituiscono i primi originari impulsi dell'agire umano. Anche le scelte economiche, ispirate a principi di razionalità e di efficienza, sono fortemente influenzate da questi sentimenti. L'ordinamento giuridico pone regole dirette a favorire la razionalità e la massima efficienza delle operazioni economiche dei membri della sua collettività, ma non può e non deve interferire con le motivazioni soggettive che restano nel campo extragiuridico.

In particolare i rapporti tra i membri della famiglia, intesa come gruppo di persone tendenzialmente stabile, sono soggetti in primo luogo a quei sentimenti che spingono a costituire e mantenere il vincolo.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario