Il danno iure hereditatis: i presupposti ed i criteri per la determinazione e quantificazione

Ludovico Berti
12 Marzo 2016

La Sezioni Unite della Cassazione (Cass., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350) hanno definitivamente negato la risarcibilità del danno cd. da morte istantanea che il soggetto patisce per la perdita della vita. Ne consegue che gli eredi sono legittimati a richiedere il risarcimento del danno iure hereditatis solo se tra evento ed exitus sia trascorso un lasso di tempo durante il quale la vittima abbia coscientemente avvertito l'approssimarsi del decesso. Si tratta di un danno non patrimoniale biologico di natura temporanea e morale, per la cui determinazione un primo orientamento giurisprudenziale si riferiva al criterio meramente temporale e cioè dando rilevanza alla durata del periodo di sofferenza, mentre successive pronunce danno maggior rilevanza all'intensità della sofferenza patita, per il cui accertamento sono stati elaborati nuovi criteri, tra i quali quello serietà del danno e dell'odiosità della condotta tenuta dal responsabile.
I presupposti per la risarcibilità del danno

La giurisprudenza, con un orientamento risalente e costante, riconosce la risarcibilità dei danni derivanti dalla morte che segua dopo un apprezzabile lasso di tempo dalle lesioni.

Si tratta del danno direttamente subito dalla vittima nel periodo fra la lesione ed il decesso che si trasferisce agli eredi a condizione che sia intercorso un lasso di tempo sufficiente affinché si concretizzi quella perdita di utilità fonte dell'obbligazione risarcitoria, atteso che solo in tal caso nasce nel patrimonio del defunto il diritto di credito trasferibile agli eredi.

Perché il danno sia degno della tutela minima risarcitoria, è necessario che il periodo di sopravvivenza si protragga per una durata tale da consentire al danneggiato di “apprezzare” la perdita delle utilità perdute a causa dell'inesorabile approssimarsi della morte (Cass. civ., sez. Lav. n. 8204/2003).

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza a Sezioni Unite dell'agosto n. 15350/2015, ponendosi in linea con il constante orientamento addirittura risalente al 1925 (Cass., Sez. Un., 22 dicembre 1925, n. 3475 e più di recente Cass. civ., n. 1704/1997; Cass. civ., n. 491/1999; Cass. civ., 13336/1999; Cass. civ., n. 887/2002; Cass. civ., n. 517/2006), confermato anche dalle stesse Sezioni Unite con le sentenze gemelle di San Martino (Cass., Sez.Un., 11 novembre 2008, n. 26973), ha – definitivamente - negato la risarcibilità del danno non patrimoniale per la morte immediata o che segua dopo un brevissimo lasso di tempo dalla lesione subita, di recente invece ammesso dalla sentenza della Cass. civ. n. 1361/2014, sulla base della doppia considerazione che tale diritto sarebbe adespota perché non avrebbe, al momento del verificarsi del danno, un titolare e perché si tratterebbe di un danno-evento, assolutamente incompatibile con il nostro sistema risarcitorio che tutela solo i danni-conseguenza (C. Cost. 372/1994; Cass. civ., n. 8827/2003 e 8828/2003; Cass. civ., n. 16004/2003). La risarcibilità del danno in caso di morte sopraggiunta dopo un brevissimo lasso di tempo viene inoltre negata sulla base della irrilevanza delle perdita di utilità nello spazio di vita brevissimo intercorso tra lesione e decesso.

Le richiamate Sezioni Unite di San Martino, trattando uno dei quattro casi oggetto di rinvio che riguardava un giovane che era sopravvissuto 10 ore alle gravissime lesioni patendo indicibili sofferenze, con specifico riguardo al danno cd. terminale, hanno precisato, avvallando un costante orientamento (Cass. civ., n. 5136/1998; Cass. civ., n. 1633/2000; Cass. civ., n. 7632/2003; Cass. civ., n. 12253/2007), che la risarcibilità del danno patito nel periodo di sopravvivenza è ulteriormente condizionata dalla lucida e cosciente percezione da parte della vittima dell'approssimarsi della morte, negando, conseguentemente, il relativo ristoro a chi, invece, abbia trascorso tale periodo in uno stato di incoscienza tale da non fargli comprendere e, quindi, patire, l'irreversibile scemare della propria esistenza (Cass., Sez. Un. 26973/2008).

Si deve quindi ritenere che costituisca un principio del tutto pacifico, perché costantemente ribadito dalla Cassazione e più volte anche a Sezioni Unite, che, ai fini della risarcibilità iure hereditatis del danno derivante dal decesso di un soggetto, sia necessario:

  • che tra le lesioni e l'exitus sia intercorso un determinato lasso di tempo; e
  • che, in tale pur breve periodo, la vittima abbia percepito lucidamente la tragicità dell'inesorabile avvicinarsi della morte.
Qualificazione del danno

Nonostante l'assenza di qualsivoglia contrasto giurisprudenziale circa il diritto iure hereditatis dei prossimi congiunti al risarcimento dei danni patiti dal de cuius nel periodo di sopravvivenza, si registrano decisioni che divergono sulla qualificazione giuridica del danno da risarcire.

La Sezioni Unite del 2008 (Cass., Sez. Un., n. 26972/2008) lo definiscono quale «danno biologico terminale» di natura temporanea poichè il limitato intervallo di tempo non consente alla lesione di degenerare in patologia permanente, da liquidarsi «come danno morale nella sua nuova più ampia accezione» sia utilizzando il criterio equitativo puro che le apposite tabelle, ma con il massimo della personalizzazione in considerazione della entità ed intensità del danno. Tale definizione è stata altresì utilizzata da Cass. civ., 11169/1994; Cass. civ., n. 12299/1995; Cass. civ., n. 4991/2006; Cass. civ., 1704/1997; Cass. civ., n. 24/2002; Cass. civ., 37287/2002; Cass. civ., n. 7632/2003; Cass. civ., n. 9620/2003; Cass. civ., n. 1103/2003; Cass. civ., n. 18305/2003; Cass. civ., n. 4754/2004; Cass. civ., n. 3549/2004; Cass. civ., n. 1877/2006; Cass. civ., n. 9959/2006; Cass. civ., n. 18163/2007; Cass. civ., n. 21976/2007; Cass. civ., n. 1072/2011.

Un altro orientamento lo definisce quale danno “catastrofale” in considerazione della sofferenza provata dalla vittima nella cosciente attesa della morte che, per alcune decisioni ha natura di «danno morale soggettivo» da liquidarsi, quindi, attraverso il criterio equitativo puro (Cass. civ., n.28423/2008; Cass. civ., n. 3357/2010; Cass. civ., n. 8630/2010; Cass. civ., n. 13672/2010; Cass. civ., n. 6754/2011; Cass. civ., n.19133/2011; Cass. civ., n. 7127/2013; Cass. civ., n. 13537/2014) mentre, per altre decisioni, ha natura di «danno biologico psichico» per la cui liquidazione è possibile riferirsi alle note tabelle (Cass. civ., n. 4783/2001; Cass. civ., n. 3260/2007; Cass. civ., n. 1072/2011).

Un precedente orientamento, invece, ha definito «esistenziale» la sofferenza psichica patita lucidamente dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali era seguita dopo breve tempo la morte (Cass. civ., n. 4783/2001).

Le Sezioni Unite del 2015 hanno precisato che comunque lo si voglia definire, si tratta di mere incertezze terminologiche che non influiscono sul piano concreto della liquidazione del danno dal momento che, dovendosi procedere alla massima personalizzazione per adeguare il risarcimento alle peculiarità del caso concreto, i risultati che si raggiungono attraverso l'applicazione del criterio della temporanea o quello delle tabella del danno psichico o la pura equità, sono sostanzialmente simili.

Quantificazione del danno

La più costante giurisprudenza esalta, in tali fattispecie, la necessità di procedere ad una adeguata, se non addirittura massima, personalizzazione dovendosi pur sempre considerare il caso concreto la cui peculiarità consiste nel fatto che la lesione alla salute non solo è stata massima ma anche così intensa da esitare nella morte(Cass. Civ. n. 3549/2004).

Difatti la SC ha espressamente affermato che il danno morale subito dalla vittima nel periodo di sopravvivenza«non può essere liquidato con somme irrisorie» poiché il giudice di meritoal cui prudente criterio equitativo è rimessa la liquidazione, «deve rispettare l'esistenza di una razionale correlazione tra l'entità oggettiva del danno e l'equivalente pecuniario, in modo che questo mantenga la sua connessione con l'entità e la natura del danno da risarcire, così che non rappresenti un mero simulacro o una parvenza di risarcimento» (Cass. civ., n. 3766/2005).

Al fine di poter procedere ad un adeguata personalizzazione che consenta di risarcire interamente il danno, la giurisprudenza ha elaborato dei criteri cui l'interprete deve riferirsi per procedere alla liquidazione.

Un orientamento risalente della Cassazione commisurava l'entità del risarcimento al tempo in cui la vittima aveva sofferto la cosciente percezione dell'approssimarsi della morte (Cass. civ. n. 6404/1998; Cass. civ. n. 9620/2003; Cass. civ. n. 4754/2004; Cass. civ. n. 15404/2004).

Le Sezioni Unite del 2008, ponendosi in linea con tale orientamento, hanno affermato che il pregiudizio sia costituito «dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in se considerato, sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno ma solo della quantificazione del risarcimento»dando così rilevanza, ai fini della quantificazione del danno, sia all'intensità della sofferenza che alla sua durata, facendo intendere che ove la sofferenza si sia protratta per più tempo, più elevato debba essere l'importo risarcitorio.

Successive pronunce hanno fatto riferimento al mero criterio temporale, affermando che in tali casi il danno, che sarebbe biologico, è di natura prettamente temporale sicché il giudice nella liquidazione non può far riferimento alle tabelle per l'invalidità permanente poiché queste ultime sono formate sulla base della vita media futura presunta, mentre in tali casi, essendo nota la durata effettiva della vita, «il risarcimento va commisurato al numero dei giorni di sopravvivenza della persona tenendo conto che le lesioni ne hanno provocato la morte»(Cass. civ., n. 21497/2009).

Più recenti decisioni, invece, hanno ritenuto che per la valutazione della intensa sofferenza psichica subita dal danneggiato perla consapevolezza dell'esito letale della patologia,si debba far riferimento «non già (e non solo) alla durata dell'intervallo tra lesione e morte, ma all'intensità della sofferenza provata» (Cass. civ., n. 2251/2012; Cass. civ., n. 3260/2007) e, quindi, alle condizioni personali e soggettive della vittima, alla gravità della lesione, alle particolarità del caso concreto ed alla reale entità del danno(Cass. civ., n. 9238/2011) e non (solo) all'arido criterio temporale che si traduce nel riconoscimento di una mera diaria giornaliera che non consente di considerarel'insieme dei pregiudizi sofferti, ivi compresi quelli esistenziali e, quindi, di provvedere all'integrale riparazione secondo il criterio di personalizzazione del danno.

Un'altra decisione invece, si è totalmente discostata dal criterio temporale affermando testualmente che l'entità del danno subito da chi abbia lucidamente percepito l'approssimarsi della morte «non dipende dalla durata dell'intervallo tra lesione e morte, bensì dall'intensità della sofferenza provata dalla vittima» definendolo quale danno catastrofico causato dallo shock che si prova di fronte allo spegnersi della propria vita che, quindi, prescinde dalla durata della sopravvivenza. (Cass. civ., sez. Lav., 18 gennaio 2011, n. 1072).

La Suprema Corte, con la sentenza appena citata, ha confermato la decisione di merito che trattando il caso di un ex lavoratore deceduto per colpa del datore di lavoro dopo 5 giorni dall'evento lesivo, aveva liquidato iure hereditatis un risarcimento pari al 100% del danno biologico (€ 693.000,00), come se il lavoratore fosse sopravvissuto alle lesioni per il tempo corrispondente alla sua originaria speranza di vita, ponendo l'accento sulla intensità della indicibile sofferenza patita dalla vittima in cosciente e lucida attesa della inevitabile morte. La S.C. ha quindi ritenuto che il lavoratore avesse subito un danno psichico totale a causa della sofferenza e disperazione esistenziale di intensità tale da determinare, nella percezione dell'infortunato, un danno catastrofico in una situazione di attesa, lucida e disperata, della fine della vita.

Da ultimo la Cassazione, in una recentissima sentenza dell'agosto 2015, si è definitivamente discostata dal criterio temporale affermando che per la configurabilità del danno da lucida agonia assume rilievo il criterio dell'intensità della sofferenza provata «a prescindere dall'apprezzabile intervallo di tempo tra le lesioni e decesso della vittima» (Cass. civ., n. 16993/2015).

Alla luce delle decisioni sopra riportate si può quindi ritenere che l'evoluzione giurisprudenziale che si è sviluppata negli ultimi anni, ha condotto a ritenere che il danno subito da un soggetto nel periodo intercorrente tra la lesione ed il decesso, non possa essere ancorato ad un criterio meramente temporale che conduce a risarcire il danno sulla base di parametri fissi o prestabiliti che si fondano sull'aritmetica applicazione di una diaria giornaliera poiché in tal modo il risarcimento non sarebbe commisurato alle peculiarità del caso concreto e, quindi, alle condizioni soggettive – fisiche e psichiche - della vittima ma ad un criterio standardizzato la cui pedissequa applicazione rappresenterebbe una chiara violazione del principio della personalizzazione necessario per adeguare l'importo risarcitorio alla specificità del singolo caso.

Viene quindi preferito il criterio dell'intensità della sofferenza provata nel periodo di sopravvivenza che consente al giudice di procedere ad una liquidazione equitativa pura che non sia ancorata a parametri prefissati ed uguali per ogni fattispecie, permettendo un'adeguata considerazione di tutti gli elementi soggettivi ed oggettivi del caso concreto.

Criteri di accertamento dell'intensità della sofferenza provata ed onere della prova

Per accertare quanta sia stata la sofferenza in concreto patita da un soggetto e, quindi, procedere ad un equa riparazione del danno, il criterio probatorio da adottare è sicuramente quello delle presunzioni.

Le citate Sezioni Unite del 2008 hanno infatti precisato che«attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilevo e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri. Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto» (Cass., Sez. Un., n. 26972/2008 § 4.10).

L'intensità della sofferenza, riguardando un aspetto profondamente intimo dell'esistenza, non è misurabile e non può essere quantificato secondo dei parametri precostituiti ma il giudice ne può presumere l'entità partendo da elementi noti e conosciuti che gli consentano di risalire, secondo l'id quod plerunque accidit a quelli ignorati, ex art. 2727 c.c..

È presumibile e, quindi, notorio che chi sappia di dover morire a breve ma ignori quando la sorte lo colpirà, attivi un processo di sofferenza psichica e fisica di intensità massima che giorno dopo giorno aumenta per la consapevolezza dell'inesorabile avvicinarsi della fine, ma è pur sempre vero, a livello giuridico, che è necessario fornire ed allegare tutti quegli elementi noti, anche semplicemente indiziari, che rappresentino quel presupposto che consenta di ricorrere al regime presuntivo.

In tali fattispecie gli elementi noti che la parte interessata ha l'onere di allegare e provare sono anzitutto rappresentati dalla presenza di un lasso di tempo non brevissimo e, soprattutto, lo stato di lucidità della vittima che, come sopra detto, deve essere in grado di comprendere coscientemente il sopraggiungere della morte.

Inoltre, la valutazione della sofferenza si può fondare su elementi oggettivi e soggettivi che è sempre onere della parte interessata allegare e dimostrare.

Per elementi oggettivi si intendono, ad esempio, le condizioni cliniche del soggetto e quindi tutte quelle terapie e cure che il soggetto ha eventualmente subito nel periodo interessato nell'inutile tentativo di sfuggire al suo destino che, indubbiamente, possono fornire elementi certi e, quindi, idonei a costituire la base per presumere quale sia stata la sofferenza patita.

Ulteriori indizi di carattere soggettivo, che possono incidere sulla valutazione equitativa del danno, possono essere quelli relativi alle specifiche condizioni del leso quali, ad esempio, la situazione familiare, l'esistenza di progetti futuri, la personalità del soggetto, ecc. poiché, in un sistema risarcitorio in cui ciò che conta è la perdita subita, è rilevante dimostrare lo status del soggetto nel periodo anteriore alla lesione che fungerà da parametro nella valutazione della perdita e, quindi, della sofferenza patita, in conseguenza delle rinunce fatte.

Un recente orientamento giurisprudenziale e dottrinario, peraltro apparentemente avvallato anche dal legislatore, ha introdotto un ulteriore criterio di valutazione nell'accertamento dell'intensità della sofferenza patita rappresentato dalla gravità della condotta tenuta dal responsabile dell'evento giacché «la gravità dell'offesa è requisito di indubbia rilevanza ai fini della quantificazione del danno ex art. 2059 c.c., proprio nell'ipotesi in cui l'offesa attenga alla lesione di un diritto costituzionale inviolabile» (Cass. civ., n. 1126/2015).

Numerose pronunce della Suprema Corte fanno riferimento al criterio dell'odiosità/gravità della condotta ritenendo maggiore la sofferenza se l'evento lesivo, invece che ad una causa naturale o ad una condotta meramente colposa, sia imputabile ad una condotta dolosa o gravemente colposa, perché è più facile “accettare” una sorte infausta imputabile alla sfortuna o ad una leggerezza piuttosto che, ad esempio, ad una grave condotta colposa o, addirittura, ad una precisa volontà delittuosa (Cass. civ.,n. 1361/2014; Cass. civ.n. 4427/2011; si veda inoltre Cass. civ., 10035/2004; Cass. civ. 12318/2010; Cass. civ. 18804/2009).

Anche una parte della dottrina (M. Bona, Come liquidare e personalizzare il danno morale aggravato dalla condotta, in Ri.Da.Re.) ritiene legittimo personalizzare il danno tenendo conto della gravità della condotta giungendo addirittura a delineare due distinti livelli di liquidazione e personalizzazione. In un primo momento il danno non patrimoniale di base viene individuato e personalizzato in considerazione dei pregiudizi subiti dalla persona lesa alla sua sfera biologica, esistenziale, relazione e morale e, in un secondo momento, si deve personalizzare ulteriormente la componente del danno morale in considerazione delle peculiarità della gravità della condotta subita dal danneggiato.

Tale impostazione viene giustificata in quanto:

  1. per certo l'offesa è maggiore per il danneggiato che sia stato vittima di una condotta intenzionale o, comunque, di una situazione di rischio tollerata ed accettata dal responsabile civile, magari in vista di un maggior profitto, per ragioni di risparmio o per altri abietti motivi;
  2. sarebbe discriminatorio ed insensato ai fini della responsabilità, sia penale che civile, trattare allo stesso modo, sul piano della sanzione risarcitoria, un soggetto che abbia cagionato un danno per mera sventura (uno sciagurato momento di disattenzione o di imprudenza, od ancora un errore umano in ambiti delicati e sempre a rischio, come di attività mediche) ed un soggetto il quale abbia agito con dolo oppure messo in bilancio di cagionare un danno.

Si sostiene ulteriormente, che una totale chiusura a scenari di questo tipo finirebbe per sminuire il ruolo della responsabilità civile, perchè:

  1. sarebbe svilita la sua funzione compensativo-satisfattoria, giacché si negherebbe rilevanza ad una componente importante del danno morale e la vittima non troverebbe soddisfazione;
  2. la prospettiva della sanzione civile del risarcimento non incuterebbe alcun particolare timore in chi possa permettersi di far rientrare i risarcimenti tra i costi della propria attività;
  3. si perverrebbe a far pagare il responsabile, che abbia posto in essere condotte particolarmente riprovevoli, allo stesso modo di chi sia incorso in una colpa lieve; non pare equo un modello risarcitorio che non sappia distinguere, attraverso liquidazioni differenti, fra chi agisce con dolo o per profitto od in spregio ad i diritti fondamentali altrui e chi, invece, sia incorso in un momento assolutamente disgraziato della sua esistenza (ancorché, comunque, illecito).

Ancor più recentemente altra autorevole dottrina ha ribadito che la condotta tenuta dal danneggiante può provocare nella vittima conseguenze in termini di “immensità del dolore”, poiché corrisponde all'id quod plerumque accidit e cioè alla normalità delle cose, soffrire maggiormente laddove il male sia imputabile all'odiosa e gravemente colposa condotta di qualcuno piuttosto che ad una condotta lievemente colposa o, addirittura, al caso fortuito: non si tratta di punire ma di risarcire integralmente il leso di tutto ciò che ha patito (P.G. Monateri, I danni aggravati dalla condotta e le circostanze del caso concreto di cui all'art. 2056 c.c., in Danno e Responsabilità, n. 7/2015).

D'altra parte anche il Legislatore, nello specifico ambito della responsabilità medico-sanitaria, di recente ha ritenuto che il giudice, nel liquidare il risarcimento del danno conseguente ad una condotta illecita, debba tener conto se sia stata caratterizzata da colpa lieve o colpa grave, legittimando, di fatto, una graduazione del risarcimento sulla base della condotta tenuta dal responsabile (Decreto Balduzzi n. 158/2012).

La ratio sottesa è che il riferimento alla gravità della condotta tenuta dal danneggiante per determinare l'importo del risarcimento, non ha il fine di punire l'autore dell'evento, operazione che non sarebbe neanche ammessa dal nostro ordinamento che non riconosce il danno punitivo, bensì quello di considerare aspetti che, inevitabilmente, incidono sull'intensità della sofferenza patita dal danneggiato e che, quindi, devono essere valutati all'unico fine di risarcire il leso di tutti i patimenti.

Diverse pronunce di merito hanno fatto riferimento a tale criterio nella determinazione del risarcimento del danno. In alcune di esse non si trattava di ricompensare il danno da lucida agonia ma, ad esempio, quello da perdita di congiunto, ma con delle motivazioni e considerazioni del tutto sovrapponibili a tutte le fattispecie relative a macrodanni.

Si fa riferimento al noto caso della Thyssenkrupp (App. Torino, sent., 14 novembre 2011) che ha commisurato il danno non patrimoniale non solo al dolore, al turbamento e all'afflizione ma anche alla concreta sensazione di insicurezza e mancanza di tutela da parte del datore di lavoro, quali lesioni causalmente connesse ai reati, ma senza alcun riferimento ad una finalità punitiva o deterrente.

Anche il Tribunale di Torino (Trib. Torino, sez. IV, 3 giugno 2015, n. 4007, in Danno e Responsabilità, 7/2015, p. 723), trattando il tragico caso del decesso dello studente diciassettenne per il crollo del tetto nella scuola Darwin di Rivoli, tenuto conto della gravità della condotta tenuta da chi doveva “proteggere” gli scolari e delle circostanze del caso concreto, ha riconosciuto ai prossimi congiunti del minore un risarcimento superiore del 50% al massimo della forbice prevista dalle tabelle di Milano, sottolineando che «la gravità del fatto non è priva di rilievo per le modalità e il contesto in cui si è verificato, nella misura in cui le peculiarità dell'evento lesivo si riverberano sul danno effettivamente subito, e dunque sempre in un'ottica riparatoria o compensativa e non sanzionatoria. A tal riguardo si è anche in dottrina osservato, a livello esemplificativo, che altro è, per i superstiti, la morte del proprio congiunto in un sinistro stradale, altro è la morte violenta subita a seguito di sevizie: la graduazione della liquidazione non ha lo scopo di punire il colpevole, ma di compensare un maggior danno subito dal superstite in relazione alla causa della morte».

Ugualmente il Tribunale di Trento (Trib. Trento, sent., 4 aprile 2011, n. 277) nel decidere il caso di una ragazza investita sulle strisce e trascinata dalla vettura per quasi un chilometro, si è riferito al criterio della gravità della condotta per determinare l'ammontare del risarcimento del danno non patrimoniale.

La Corte di Appello di Ancona, nella sentenza n. 450/14 (v. Risarcimento per strage da amianto: la morte è componente essenziale del danno, in Ri.Da.Re.), che aveva ad oggetto la richiesta di risarcimento del danno da lucida agonia subito da ex lavoratori deceduti a causa di malattie asbesto correlate, ha liquidato l'importo di €. 775.000,00 per ognuno di essi, ponendo l'accento non solo sulla grave malattia terminale che affliggeva i lavoratori assimilando la loro condizione a quella di «detenzione nel braccio della morte, in attesa di esecuzione, che sopraggiunga a definizione totale della vicenda» ma facendo altresì riferimento all'odiosità della condotta lesiva, «perché ben diversamente può rassegnarsi, ed accettare la sua sorte, chi si sappia tributario di un fatto avverso, senza che ad alcuno possa essere rimproverato di averlo ingannato, sfruttato ed ucciso. Poiché anche chi sia conscio di avere sfidato la sorte, per volontaria sua scelta, ben può pentirsi dell'errore commesso, ma sempre può consolarsi per non essere stato lo zimbello non solo della sorte, ma anche dell'altrui, delittuosa avidità».

In coclusione

Consegue da queste considerazioni, che comunque valgono a porre in rilievo l'importanza che il bene della vita ha per il nostro ordinamento giuridico, che il danno da sofferenza psichica, ancorché temporaneamente patito nel periodo intercorso tra l'evento lesivo e il decesso, deve essere risarcito non solo come malattia temporanea ma anche e soprattutto come danno morale da sofferenza psichica massimamente subita per la tragica percezione della perdita della propria salute e dell'inesorabile avvicinarsi della morte per la cui liquidazione si deve far altresì riferimento al criterio della gravità della condotta tenuta e dell'offesa subita, non con l'intento di punire il responsabile per la condotta tenuta bensì con quello di risarcire integralmente il danneggiato personalizzando il risarcimento tenendo conto di tutti gli aspetti che concretamente incidono sulla sofferenza.

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