La responsabilità della struttura sanitaria e del medico nell'art. 7 della legge Gelli-Bianco: non è tutto come sembra

12 Maggio 2017

La legge Gelli-Bianco ha rivoluzionato, seppur solo in parte, la materia della responsabilità sanitaria. Alcune novità, ed alcune conferme, sono state inserite nell'art. 7; il presente lavoro si propone l'intento di analizzare al microscopio la norma in commento e tutte le disposizioni in essa contenute al fine di renderne un'interpretazione in linea con l'intero ordinamento.
La lettura distratta della norma

Un giurista distratto o un “leguleio”, leggendo l'art. 7 l. 8 marzo 2017 n. 24, non avrebbe alcun dubbio interpretativo.

Il legislatore riformatore, con il richiamo degli artt. 1218 e 1228 c.c., ha sostanzialmente ratificato l'orientamento pietrificato della giurisprudenza di legittimità e di merito ed ha qualificato esclusivamente come contrattuale la responsabilità (in generale) della struttura sanitaria e sociosanitaria, pubblica e privata (da qui in poi, per brevità, struttura) che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa e, quindi, anche semplici collaboratori (comma 1).

Lo stesso legislatore ha qualificato sempre esclusivamente come contrattuale la responsabilità (in particolare) della stessa struttura anche per cinque tipiche prestazioni sanitarie svolte:

- in regime di libera professione intramuraria;

- nell'ambito di attività di sperimentazione clinica;

- nell'ambito di attività di ricerca clinica;

- in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale;

- attraverso la telemedicina (comma 2).

Il legislatore, invece, con il richiamo dell'art. 2043 c.c., ha bocciato l'orientamento pietrificato della giurisprudenza di legittimità e di merito consolidatosi fin dalla fine del secolo scorso in tema di responsabilità da “contatto sociale” ed ha qualificato esclusivamente come extracontrattuale la responsabilità dell'esercente la professione sanitaria (da qui in poi, per brevità, esercente) in presenza di due presupposti:

- che non abbia assunto alcuna obbligazione contrattuale con il paziente;

- che abbia prestato la propria attività quale dipendente o collaboratore della struttura sanitaria e sociosanitaria, pubblica e privata (comma 3, prima parte).

Il legislatore, infine, ha espressamente qualificato come imperative ai sensi del codice civile e, quindi, come inderogabili, tutte le disposizioni della norma in commento.

Il giudice, pertanto, non ne potrà prescindere e non potrà disapplicarle.

Ma è veramente questa l'interpretazione corretta della norma in commento?

Il presente lavoro, pertanto, si propone l'intento di analizzare al microscopio la norma in commento e tutte le disposizioni in essa contenute al fine di renderne un'interpretazione in linea con l'intero ordinamento.

La responsabilità della struttura

Il legislatore riformatore, effettivamente, nel comma 1 della norma in commento, mediante quel riferimento espresso agli artt. 1218 e 1228 c.c., norme dettate in tema di inadempimento delle obbligazioni, ha qualificato espressamente e per la prima volta come contrattuale la responsabilità della struttura per le obbligazioni assunte.

È pur vero che il legislatore ha solo richiamato le norme in tema di inadempimento delle obbligazioni (artt. 1218 e 1228 c.c.) ma ciò non inficia la ritenuta qualificazione espressa della responsabilità della struttura come contrattuale.

Il codice civile, infatti, non contiene un'espressa nozione di obbligazione - tanto che ancor oggi si suole far riferimento alla definizione presente nelle Istituzioni di Giustiniano, 3.13, secondo cui «Obligatio est iuris vinculum, quo necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura» - sicché il richiamo alle norme in tema inadempimento delle obbligazioni è sufficiente per tale qualificazione della responsabilità della struttura come contrattuale.

Il legislatore, con tale previsione, ha ratificato l'orientamento pietrificato della giurisprudenza di legittimità che ha costantemente affermato, e senza incertezze, che il rapporto tra paziente e struttura sanitaria, sia pubblica che privata, è «un autonomo ed atipico contratto a prestazioni corrispettive (da taluni definito contratto di spedalità, da altri contratto di assistenza sanitaria) al quale si applicano le regole ordinarie sull'inadempimento fissate dall'art. 1218 c.c.» (Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 577 e succ. conformi; conf. Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008 n. 26972 e succ. conformi; Cass. civ., Sez. Un., 1 luglio 2002 n. 9556; conf., in tempi non recenti, che ha qualificato come contrattuale la responsabilità della struttura per i danni causati ad un paziente dalle prestazioni mediche dei sanitari dipendenti, Cass. civ., 12 dicembre 1978 n. 6141).

Un'interpretazione sia letterale che sistematica di detta norma, però, porta a ritenere che il legislatore non abbia qualificato tale responsabilità “esclusivamente” come contrattuale.

Da un punto di vista letterale, infatti, la norma prevede che la struttura «risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 del codice civile» e non anche che la struttura «risponde esclusivamente ai sensi degli artt. 1218 e 1228 del codice civile».

Da un punto di vista sistematico la norma, seppur è speciale (perché regolamenta la responsabilità non di tutti i debitori, ma solo delle strutture), non ha abrogato - né esplicitamente, né tacitamente, né implicitamente, come previsto dall'art. 15 disp. prel. c.c. - l'altra norma generale, valida per tutti i consociati, relativa alle fonti delle obbligazioni, di cui all'art. 1173 c.c., secondo cui l'obbligazione deriva:

  • da contratto;
  • da fatto illecito;
  • da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico.

Il principio di legalità della decisione giudiziaria, di cui all'art. 113, comma 1, c.p.c. - che è espressione di quello più generale, sancito dall'art. 101, comma 2, Cost. di soggezione esclusiva del giudice alla legge - impone al giudice di individuare le fonti e, cioè, le norme di diritto applicabili ai fini della decisione e, quindi, consente di selezionare le fattispecie alle quali l'ordinamento giuridico collega il sorgere delle obbligazioni e di tracciare il contenuto particolare di ognuna di esse (CANNATA, L'adempimento delle obbligazioni, in Tr. Res., Torino, 1999, 21).

Solo che un determinato bene può trovare protezione sia in norme rivolte alla generalità dei consociati i quali debbono comportarsi in modo tale da non recare pregiudizio a tale bene, sia in norme concernenti uno specifico soggetto che sia tenuto, in forza di un particolare vincolo giuridico, ad adottare una determinata condotta negativa o positiva (Cass. civ., Sez. Un., 14 maggio 1987 n. 4441).

Non v'è alcun dubbio che il giudice, nell'esaminare la fattispecie relativa alla responsabilità civile della struttura, debba oggi applicare in ogni caso la norma speciale di cui all'art. 7 l. 8 marzo 2017 n. 24 (per i fatti avvenuti successivamente alla sua entrata in vigore), ma ciò non preclude allo stesso giudice di applicare, ove ne ricorrano i presupposti, anche altre norme dell'ordinamento rivolte alla generalità dei consociati, ove non incompatibili con la prima.

Deve ritenersi, pertanto, che in caso di danno al paziente la (pur espressamente prevista) responsabilità contrattuale della struttura, di cui all'art. 7, comma 1 e 2, l. 8 marzo 2017 n. 24 che richiama gli artt. 1218 e 1228 c.c., può concorrere, ove ne ricorrano i presupposti, con:

1. la responsabilità del professionista nei confronti dell'utente-consumatore, di cui al d.lgs. 29 luglio 2005 n. 206, nel caso in cui il contratto sia stato stipulato:

- tra paziente e struttura non convenzionata con il S.S.N. ovvero con struttura pubblica o convenzionata con il S.S.N. ove siano poste a carico dell'utente l'erogazione di prestazioni aggiuntive, in quanto trattasi di contratto di spedalità o di assistenza sanitaria misto, in parte pubblico ed in parte privatistico, con conseguente applicazione del foro dell'utente-consumatore (Cass. civ., 24 dicembre 2014 n. 27391; Cass. civ., 2 aprile 2009 n. 8093);

- tra paziente e struttura pubblica o convenzionata con il S.S.N., in quanto seppur trattasi di contratto di spedalità o di assistenza sanitaria pubblico, la natura pubblica dell'attività del professionista è irrilevante atteso che l'art. 2, lett. c), dir. 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, riguarda qualsiasi attività professionale “sia essa pubblica o privata” e, come enunciato dal suo quattordicesimo considerando, tale direttiva riguarda “anche le attività professionali di carattere pubblico” (C. Giust. UE, Sez. IX, sent., 15 gennaio 2015, causa C-537/13; contra Cass. civ, 24 dicembre 2014 n. 27391; Cass. civ., 2 aprile 2009 n. 8093);

2. la responsabilità extracontrattuale, di cui all'art. 2043 c.c., nel caso in cui il fatto dannoso violi al contempo sia diritti nascenti dal rapporto obbligatorio, sia diritti soggettivi assoluti (come la salute, la vita e l'integrità familiare) o altri interessi giuridicamente apprezzabili e meritevole di tutela da parte dell'ordinamento a prescindere dall'esistenza di detto rapporto;

3. la responsabilità extracontrattuale per attività pericolosa, di cui all'art. 2050 c.c., nel caso in cui il danno sia cagionato da:

- trasfusioni di sangue ed emoderivati infetti (Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 584; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 582; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 576; conf. Cass. civ., 27 aprile 2012 n. 6562);

- interventi chirurgici (Cass. civ., 18 aprile 1966, in Temi 1967, 298; conf. T.A.R. Roma, (Lazio), sez. III, 21 luglio 2014 n. 7784; Trib. Napoli 18 novembre 2011 n. 12606; App. Napoli 3 settembre 2007 n. 2683; Trib. Napoli 2 aprile 2002; conf., in dottrina, G. VANACORE e B. MANTILE, Ancora sulla responsabilità della struttura sanitaria da malpractice, in www.dannoepersona.it del 10 luglio 2009; conf., per quanto concerne l'estetista che utilizza apparecchi elettromeccanici per uso estetico e prodotti cosmetici, Cass. pen. 12 maggio 2015 n. 22835);

4. la responsabilità extracontrattuale da cose in custodia, di cui all'art. 2051 c.c., nel caso in cui il danno sia cagionato dall'utilizzo di apparecchiature o protesi difettose (Cass. civ., 18 aprile 1966, in Temi 1967, 298; conf. App. Napoli 14 settembre 1979, in Foro Pad. 1979, 202; conf., in dottrina, G. VANACORE e B. MANTILE, Ancora sulla responsabilità della struttura sanitaria da malpractice, in www.dannoepersona.it del 10 luglio 2009; conf., per quanto concerne l'estetista che utilizza apparecchi elettromeccanici per uso estetico e prodotti cosmetici, Cass. pen., 12 maggio 2015 n. 22835).

Il concorso di responsabilità della struttura su evidenziata è rilevante in quanto il nostro ordinamento riconosce fin dai tempi del diritto romano classico la facoltà del concorso o cumulo di azioni, contrattuale ed extracontrattuale, nel caso in cui una condotta dolosa o colposa si presenti, al contempo, lesiva dei diritti derivanti da un rapporto contrattuale e violativa del precetto di neminem laedere posto a fondamento della responsabilità extracontrattuale.

Di tale facoltà v'è traccia nei Digesta, 9.2.7.8. (Ulpianus XVIII ad Edictum): «Proculus ait, si medicus servum imperite secuerit, vel ex locato vel ex lege Aquilia competere actionem».

Tale cumulo garantisce certamente una maggiore e più efficace tutela al danneggiato il quale potrà invocare, in relazione alle circostanze del caso concreto, la disposizione che reputa più favorevole ovvero potrà richiedere la tutela che residua dopo avere speso, senza esito, l'altra forma di tutela che gli compete, con il limite, in quest'ultimo caso, costituito dal principio di infrazionabilità del credito ove tale sua condotta sia contraria a buona fede oggettiva.

La perdurante applicabilità, alla pur espressamente prevista responsabilità contrattuale, anche di quella extracontrattuale della struttura e la possibilità prevista dall'ordinamento del concorso o cumulo delle azioni, garantisce anche in questo caso una maggiore e più efficace tutela al danneggiato da trattamento sanitario in tema di liquidazione del danno.

In ambito extracontrattuale, infatti, vige il principio di integrale risarcibilità dei danni e non vige il limite presente in ambito contrattuale costituito dalla prevedibilità del danno al tempo in cui è sorta l'obbligazione, salva l'ipotesi di condotta dolosa, di cui all'art. 1225 c.c., in quanto non richiamato dall'art. 2056 c.c. (Cass. civ., 16 ottobre 2015 n. 20932; Cass. civ., 30 marzo 2005 n. 6725; Cass. civ., 28 aprile 1979 n. 2488).

Trattasi di tutela rafforzata (e tutt'altro che trascurabile) del danneggiato in tema di liquidazione del danno in ambito extracontrattuale visto che nel diverso ambito contrattuale:

- l'onere della prova della prevedibilità del danno incombe sul creditore (Cass. civ., 11 marzo 1992 n. 2910; Cass. civ., 26 maggio 1989 n. 2555);

- la prevedibilità del danno, secondo un'autorevole dottrina, riguarda anche il quantum (BIANCA, Comm. Scialoja-Branca, 1988, 385);

- il relativo apprezzamento di fatto non è sindacabile in sede di legittimità (BIANCA, Comm. Scialoja-Branca, 1988, 386).

La responsabilità dell'esercente che svolge la sua attività nella struttura

Il legislatore riformatore, effettivamente, nel comma 3, prima parte, della norma in commento, mediante quel riferimento espresso all'art. 2043 c.c., norma dettata in tema di risarcimento per fatto illecito, ha qualificato espressamente e per la prima volta come extracontrattuale la responsabilità dell'esercente che svolge la sua attività nella struttura e/o esegue le cinque tipiche prestazioni sanitarie previste dal comma 2 in presenza di due presupposti:

- che non abbia assunto alcuna obbligazione contrattuale con il paziente;

- che abbia prestato la propria attività quale dipendente o collaboratore della struttura sanitaria e sociosanitaria, pubblica e privata.

Il legislatore, per la verità, un tentativo goffo e maldestro lo aveva fatto già con l'art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (decreto Balduzzi), oggi abrogato dall'art. 6, comma 2, l. 8 marzo 2017 n. 24, ove in sede di conversione (l. 8 novembre 2012, n. 189) aveva inserito la disposizione che prevedeva che carico dell'esercente «resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.».

Il tentativo, però, non è riuscito sia la dottrina prevalente che la giurisprudenza di legittimità hanno concordemente ritenuto che la norma nulla aveva mutato circa la natura della responsabilità della struttura e dell'esercente anche dipendente della struttura: responsabilità contrattuale o soggetta alle norme contrattuali era prima e responsabilità contrattuale o soggetta alle norme contrattuali era rimasta (si veda sul punto: M. LIGUORI, La natura della responsabilità medica e sanitaria dopo il decreto Balduzzi, in www.ridare.it).

Riprova della bontà di tale tesi è l'odierna riformulazione, più accorta e precisa, da parte del legislatore consapevole, che presuppone un Parlamento attento alle norme che emana, che stavolta ha indicato espressamente la norma applicabile (art. 2043 c.c.) in tema di risarcimento per fatto illecito commesso dall'esercente che svolge la sua attività nella struttura e/o esegue le cinque tipiche prestazioni sanitarie previste dal comma 2.

Il legislatore, con tale nuova espressa previsione, sembrerebbe aver bocciato l'orientamento pietrificato della giurisprudenza di legittimità e di merito consolidatosi fin dalla fine del secolo scorso in tema di responsabilità da “contatto sociale” (Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 577 e succ. conformi; conf. Cass. civ., Sez. Un. 11 novembre 2008 n. 26972 e succ. conformi; il leading case è Cass. civ., 22 gennaio 1999 n. 589) atteso che ha qualificato come extracontrattuale la responsabilità dell'esercente.

Anche in questo caso la norma, però, seppur è speciale, non ha abrogato l'altra norma generale relativa alle fonti delle obbligazioni, di cui all'art. 1173 c.c., secondo cui l'obbligazione deriva (oltre che da contratto e da fatto illecito, anche) da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell'ordinamento giuridico.

Tale elencazione delle fonti delle obbligazioni ha carattere elastico e non tassativo e, quindi, è rimessa all'ordinamento la formulazione del giudizio in ordine all'idoneità in concreto del singolo atto o fatto a costituire fonte produttiva di un'obbligazione.

Il rinvio operato dall'art. 1173 c.c. all'ordinamento giuridico impone, infatti, l'inserimento tra le fonti anche:

- di principi, specie di rango costituzionale, che trascendono le singole proposizioni legislative, come il dovere di solidarietà, il principio di uguaglianza sostanziale, ecc. (RESCIGNO, voce Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir., Milano 1979, 151);

- del "diritto vivente", che fa vivere la norma nella realtà giuridica nel significato normativo che ad essa attribuisce la giurisprudenza e con il quale è applicata (BOCCHINI e QUADRI, Diritto privato, Torino, III ed., 2008, 44 e segg.).

Una lettura costituzionalmente orientata della norma di cui all'art. 7, comma 3, prima parte, l. 8 marzo 2017 n. 24, alla luce dei principi di uguaglianza e non discriminazione (art. 3 Cost.) e di effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), deve portare a ritenere ancora applicabile al rapporto paziente-esercente non solo il principio del contatto sociale, come inteso dal diritto vivente ed applicato dalla giurisprudenza di legittimità oltre che in ambito sanitario anche nei casi su esposti, ma anche tutti gli altri principi desumibili dall'ordinamento a tutela del danneggiato.

Ciò, in particolare, alla luce della minor tutela del paziente-danneggiato prevista dalla normativa speciale per:

1. il finto obbligo assicurativo per la R.C. professionale imposto alle strutture dall'art. 10 l. 8 marzo 2017 n. 24, visto che accanto all'obbligo assicurativo sono consentite “altre analoghe misure” e, quindi, è espressamente prevista l'autotutela e l'autogestione e, cioè, la non assicurazione;

2. la mancata previsione dell'intervento del Fondo di Garanzia per i danni derivati da responsabilità sanitaria (da qui in poi, per brevità, Fondo di Garanzia) nell'ipotesi di autotutela e autogestione delle strutture mediante “altre analoghe misure”;

3. la mancata previsione dell'azione diretta del danneggiato nei confronti del Fondo di Garanzia.

Consentire, quindi, al danneggiato da trattamento sanitario di conservare, analogamente a tutti gli altri danneggiati e senza limitazioni di sorta, tutte le garanzie offerte dall'ordinamento - sia per l'accertamento dell'an debeatur, con i relativi oneri probatori, sia per il quantum debeatur - nei confronti di tutti i condebitori solidali, ex artt. 1292, 1294 e 2055 c.c. e, quindi, non solo della struttura, ma anche dell'esercente, appare la scelta interpretativa della norma in commento che meglio rispetta i principi di rango superiore su richiamati.

Deve ritenersi, pertanto, che in caso di danno al paziente la (pur espressamente prevista) responsabilità extracontrattuale dell'esercente, di cui all'art. 7, comma 3, l. 8 marzo 2017 n. 24 che richiama l'art. 2043 c.c.:

a. concorre sempre con:

  • la responsabilità da “contatto sociale qualificato”;
  • la responsabilità del professionista nei confronti dell'utente-consumatore, di cui al d.lgs. 29 luglio 2005 n. 206;

b. può concorrere, ove ne ricorrano i presupposti, con:

  • la responsabilità extracontrattuale per attività pericolosa, di cui all'art. 2050 c.c.;
  • la responsabilità extracontrattuale da cose in custodia, di cui all'art. 2051 c.c..

La perdurante applicabilità, alla pur espressamente prevista responsabilità extracontrattuale dell'esercente (ma solo ex art. 2043 c.c.), anche di quella extracontrattuale di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c. e di quella contrattuale da contatto sociale qualificato e la possibilità prevista dall'ordinamento del concorso o cumulo delle azioni, garantisce anche in questo caso una maggiore e più efficace tutela al danneggiato da trattamento sanitario in tema di:

- prescrizione che è ordinaria decennale nella responsabilità contrattuale, ex art. 2946 c.c. e quinquennale nella responsabilità extracontrattuale, ex art. 2947, comma 1, c.c., salvo le ipotesi di cui al comma 3, ove si applica la più lunga prescrizione del reato;

- esimente dello stato di necessità, ex art. 2045 c.c., inapplicabile in sede contrattuale;

- esimente dell'incapacità di intendere e volere, ex art. 2046 c.c., inapplicabile in sede contrattuale;

- onere della prova atteso che il creditore-danneggiato sia in ambito contrattuale (art. 1218 c.c.), sia in ambito di responsabilità extracontrattuale vuoi da attività pericolosa (art. 2050 c.c.), vuoi da cose in custodia (art. 2051 c.c.), non deve (rectius: non ha l'onere di) provare la colpa del debitore.

La responsabilità dell'esercente che svolge la sua attività nell'adempimento di obbligazione contrattuale

Il legislatore, con l'eccezione di cui al comma 3, prima parte, seconda alinea della norma in commento, laddove ha escluso l'applicabilità dell'art. 2043 c.c. all'esercente che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente (da qui in poi, per brevità, esercente privato), ha ratificato l'orientamento pietrificato della giurisprudenza di legittimità e di merito ed ha qualificato come contrattuale tale responsabilità.

Il principio della responsabilità contrattuale di tale esercente privato, infatti, è assolutamente pacifico in giurisprudenza (Cass. civ., 27 febbraio 2009 n. 4914).

Anche in questo caso la norma, però, seppur speciale, non ha abrogato l'altra norma generale relativa alle fonti delle obbligazioni, di cui all'art. 1173 c.c..

Deve ritenersi, pertanto, che anche in questo caso, la (pur espressamente prevista) responsabilità contrattuale dell'esercente privato concorre o può concorrere con le altre ipotesi di responsabilità su indicate.

La condotta dell'esercente rilevante ai fini del risarcimento

Il legislatore, con il comma 3, ultima parte, ha previsto che il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente ai sensi:

- dell'art. 5 l. 8 marzo 2017 n. 24;

- dell'art. 590-sexies c.p., introdotto dall'art. 6 l. 8 marzo 2017 n. 24.

Tale disposizione è oscura e criptica.

La disposizione, infatti, richiama in primis l'art. 5 l. 8 marzo 2017 n. 24, che tratta delle buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida cui si deve attenere l'esercente.

Ma se la condotta dell'esercente è quella prevista dalle buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida, non v'è un suo comportamento illecito ma un comportamento previsto espressamente lecito dall'ordinamento, di qui l'inutilità del suo richiamo ai fini «della determinazione del risarcimento del danno» subito dal paziente che resterà, quindi, non risarcibile.

La disposizione, ancora, richiama in secundis l'art. 590-sexies c.p. che:

- con il comma 1 equipara la pena (e quindi prevede la stessa pena) per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose in ambito sanitario a quelli commessi fuori dall'ambito sanitario e non tipizzati dal legislatore penale come, per esempio, i reati di omicidio stradale (art. 589-bis c.p.) e lesioni personali stradali gravi o gravissime (art. 590-bis c.p.); tale equiparazione della pena è neutra ai fini risarcitori, né il legislatore dice di come il giudice dovrebbe tener conto della condotta dell'esercente nella determinazione del risarcimento del danno;

- con il comma 2 prevede la non punibilità del reato qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia e l'esercente abbia rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto; anche in questo caso, pertanto, se la condotta dell'esercente è quella prevista dalle buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida seppur adeguate alle specificità del caso, non v'è un suo comportamento sanzionato in sede penale per la prevista esimente, di qui l'inutilità del suo richiamo ai fini «della determinazione del risarcimento del danno» subito dal paziente che resterà, quindi, ancora una volta non risarcibile.

Tale disposizione, ancora, riprendendo quanto già previsto dall'art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (Decreto Balduzzi), oggi abrogato dall'art. 6, comma 2, l. 8 marzo 2017 n. 24, ha previsto che il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente, ma nulla dice in ordine:

- a quale danno si riferisca, patrimoniale o non patrimoniale;

- come il giudice ne debba tener conto (con un aumento o una diminuzione) ed in che misura.

L'interpretazione storica della norma non aiuta in quanto è dai tempi di Ulpiano che il risarcimento è commisurato alla perdita subita e non si tiene conto del dolo o della colpa, grave o lieve che sia di chi quel danno ha causato: «Quanti ea res est, tantam pecuniam condemnato».

L'interpretazione sistematica della norma deve partire dai principi generali che regolano in questo momento storico la materia del risarcimento del danno.

Nel ns. ordinamento vige, innanzi tutto, il principio di integrale risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale e di equivalenza dello stesso al pregiudizio cagionato al danneggiato.

Tale principio non ha copertura costituzionale (C. Cost. 9 novembre 2011 n. 303; C. Cost. 30 aprile 1999 n. 148) purché sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (C. Cost. 9 novembre 2011 n. 303; C. Cost. 13 giugno 2005 n. 199 ; C. Cost. 22 novembre 1991 n. 420).

Il principio, per il danno patrimoniale, seppur si desume dall'intero ordinamento, è espressamente previsto:

- in tema di inadempimento contrattuale dall'art. 1223 c.c., che è applicabile anche alla responsabilità extracontrattuale per il richiamo espresso contenuto nell'art. 2056 c.c.;

- in tema di responsabilità extracontrattuale dall'art. 2043 c.c..

Il principio, per il danno non patrimoniale, seppur si desume dall'intero ordinamento, è espressamente previsto dall'art. 2059 c.c.

Le Sezioni Unite, nel procedere alla sistemazione della figura del danno non patrimoniale, hanno affermato che, in tema di danno alla persona, il riconoscimento del carattere omnicomprensivo del risarcimento del danno non patrimoniale non può andare a scapito del principio della “integralità del risarcimento medesimo” (Cass. civ., Sez. Un. 11 novembre 2008 n. 26972; conf. Cass. civ., Sez. Un. 11 novembre 2008 n. 26973; Cass. civ., Sez. Un. 11 novembre 2008 n. 26974; Cass. civ., Sez. Un. 11 novembre 2008 n. 26975).

Nel nostro ordinamento vige, poi, il principio di indifferenza, in base al quale il risarcimento non deve né arricchire né impoverire il danneggiato.

La vittima dovrebbe essere pecuniariamente indifferente rispetto alle due ipotesi:

- non patire il danno e non aver diritto ad alcun risarcimento;

- patire il danno e aver diritto al risarcimento commisurato alla perdita subita.

Corollario di questo principio è che il risarcimento non può creare:

- in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall'illecito;

- a carico del debitore inadempiente sacrifici patrimoniali che si aggiungano al puro e semplice risarcimento, col conseguente arricchimento del creditore (Cass. civ., Sez. Un. 29 gennaio 2001 n. 38; conf. Cass. civ., 13 giugno 2014 n. 13537; Cass. civ., 26 gennaio 1995 n. 907).

Sicché, alla luce di tali pacifici principi che possono definirsi come immanenti dell'ordinamento, la norma in esame sembrerebbe non utilizzabile dal giudice.

Solo che l'interprete, in presenza di un scelta ermeneutica che conduce ad una inapplicabilità della norma ed una scelta ermeneutica che lascia alla predetta norma un ambito di validità, deve privilegiare, senza ombra di dubbio, la seconda scelta in quanto l'abrogazione delle norme, non solo espressa ma anche tacita o implicita, è riservata al legislatore e non al giudice.

Va quindi fatto un ulteriore sforzo interpretativo per cercare un residuo, seppur minimo, spazio applicativo della norma.

Quindi indagando nei meandri della materia del risarcimento con la mente sgombra da pregiudizi collegati al diritto romano classico, si trova il principio della personalizzazione del risarcimento, applicabile in tema di risarcimento del danno non patrimoniale.

Per parlare di questo principio, però, bisogna prima verificare quale sia la base di partenza del risarcimento del danno non patrimoniale su cui calcolare la personalizzazione e, cioè, il c.detto danno standard.

La norma di riferimento per il risarcimento (integrale) del danno non patrimoniale, come su esposto, è l'art. 2059 c.c..

Tale norma, però, nulla dice sui criteri risarcitori che il giudice deve adottare.

Il comma 4 della norma in esame, che sarà trattato di seguito, richiama ai fini risarcitori gli artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 che, com'è noto, forniscono la definizione del danno biologico e prevedono la facoltà per il giudice di aumentare il risarcimento rispettivamente del 30% e del 20% rispetto al valore tabellato.

La giurisprudenza di legittimità e di merito che appare preferibile per l'interpretazione letterale e logica, secondo il criterio storico e sistematico, fornita delle suddette norme del d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 e che si è pronunciata sulle lesioni di lieve entità - in quanto il meccanismo liquidatorio predisposto dal Codice delle Assicurazioni private per le lesioni di non lieve entità è fermo al palo per la mancata predisposizione delle due tabelle, quella delle menomazioni all'integrità psicofisica e quella dei valori economici - ha chiarito che il danno biologico e quello morale costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili.

Il danno non patrimoniale (morale) non è ricompreso nella tabella dei valori economici per le lesioni di lieve entità, come emerge con chiarezza dal tenore letterale della definizione del c.detto danno biologico offerta dall'art. 139, comma 2, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, che:

- prevede la liquidazione del solo danno biologico e a tal fine considera unicamente gli aspetti “esterni” o dinamico relazionali ed esistenziali quali conseguenze pregiudizievoli della lesione al diritto alla salute;

- non prevede la liquidazione degli ulteriori danni non patrimoniali costituiti dagli aspetti “interni” tradizionalmente costituiti da sofferenza soggettiva causata dal reato e/o dall'illecito civile, da turbamento dello stato d'animo, da violazione della sfera morale e della dignità della persona umana, offesa dal reato e/o dall'illecito civile e/o dall'inadempimento contrattuale e, comunque, per la lesione dei valori/interessi giuridicamente protetti e dei personalissimi diritti umani inviolabili e/o fondamentali, costituzionalmente e/o internazionalmente protetti (Cass. civ., 20 maggio 2016 n. 10414; Cass. civ., 13 gennaio 2016 n. 339; Cass. civ., 27 agosto 2015 n. 17209; Cass. civ., 30 luglio 2015 n. 16197; Cass. civ., 30 luglio 2015 n. 16197; Cass. civ., 14 luglio 2015 n. 14658; Cass. civ., 16 ottobre 2014 n. 21917; Cass. civ., 3 ottobre 2013 n. 22585; Cass. civ., 20 novembre 2012 n. 20292; Cass. civ., 12 settembre 2011 n. 18641;Cass. civ., 30 ottobre 2009 n. 23053; Cass. civ., 12 dicembre 2008 n. 20191).

In questo complesso contesto normativo e giurisprudenziale, e tirando le fila del ragionamento, si potrebbe pertanto ipotizzare - se non si vuole lasciare priva di efficacia la disposizione prevista dal comma 3, ultima parte - che nell'ipotesi in cui la condotta dell'esercente sia stata virtuosa e, cioè, rispettosa delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle raccomandazioni previste dalle linee guida, ma ciò nonostante sia stata dannosa e, cioè, produttiva di un danno al paziente (vuoi cagionandogli una lesione personale, vuoi la morte), il risarcimento del danno non patrimoniale, per la componente relativa agli aspetti “interni” (e, cioè, la sofferenza morale), dovrà essere contenuto e ridotto atteso che può presumersi che meno grave è la condotta dell'agente e meno significativa è l'offesa subita dal danneggiato.

Tale lettura della disposizione, però, porta a ritenere che, argomentando a contrario, se la condotta dell'esercente sia stata non virtuosa e, cioè, non rispettosa delle buone pratiche clinico-assistenziali e delle raccomandazioni previste dalle linee guida e sia stata dannosa e, cioè, produttiva di un danno al paziente (vuoi cagionandogli una lesione personale, vuoi la morte), il risarcimento del danno non patrimoniale, per la componente relativa agli aspetti “interni” (e, cioè, la sofferenza morale), dovrà essere aumentato considerevolmente atteso che può presumersi che più grave, odiosa e riprovevole è la condotta dell'agente e più è significativa l'offesa subita dal danneggiato.

È logicamente plausibile e razionalmente verosimile ritenere, infatti e, comunque, secondo un giudizio probabilistico fondato sulla logica aristotelica, è molto probabile che nella maggioranza dei casi la sofferenza morale della vittima di un illecito, contrattuale o extracontrattuale, sia maggiore nel caso in cui l'evento lesivo, invece che ad una causa naturale o ad una condotta lievemente colposa, sia imputabile ad un medico che, quale esercente una professione protetta (art. 348 c.p.) avrebbe dovuto tutelare la salute del danneggiato e quindi ad una condotta dolosa o gravemente colposa, perché è certamente più facile “accettare” una sorte nefasta e/o infausta se sia imputabile ad una condotta virtuosa dell'esercente che, ad esempio, ad una condotta gravemente colposa e non virtuosa dell'esercente.

La giurisprudenza di legittimità, negli ultimi anni, valorizzando la gravità della condotta e del reato, ha condivisibilmente affermato che:

- «tra gli elementi dei quali il giudice di merito, nell'effettuare la quantificazione dei danni morali risarcibili (ovvero delle sofferenze interiori che ledono l'integrità morale della persona offesa,..), rientra anche la gravità del reato in sé, perché suscettibile di acuire i turbamenti psichici e l'entità del patema d'animo sofferto dalla vittima, da esso derivanti» (Cass. pen., 25 novembre 2014 n. 49038);

- la gravità dell'offesaè un requisito di indubbia rilevanza ai fini della quantificazione del danno non patrimoniale” (Cass. civ., 16 maggio 2016 n. 9978; conf. Cass. civ., 22 gennaio 2015 n. 1126; Cass. civ., 23 gennaio 2014 n. 1361; Cass. civ.,23 febbraio 2011 n. 4427; Cass. civ., 19 maggio 2010 n. 12318; Cass. civ., 28 agosto 2009 n. 18804; Cass. civ., 25 maggio 2004 n. 10035).

La giurisprudenza di merito, sempre negli ultimi anni, valorizzando sempre la gravità della condotta e del reato, ha affermato che:

- per la liquidazione del danno non patrimoniale si deve tenere conto non soltanto del “gravissimo stato di sofferenza psicologica vissuto dai naufraghi in quei drammatici momenti” ma, altresì, della “estrema gravità delle condotte colpose poste in essere dall'imputato” (Trib. Grosseto, sez. pen., 10 luglio 2015 n. 115, che ha trattato in primo grado il tragico affondamento della Costa Concordia);

- per la liquidazione del danno non patrimoniale si deve tener conto della gravità della condotta tenuta da chi doveva “proteggere” gli scolari e delle circostanze del caso concreto e, pertanto, sulla scorta di tali premesse, ha riconosciuto ai prossimi congiunti del minore deceduto un risarcimento superiore del 50% al massimo della forbice prevista dalle tabelle di Milano affermando che «la gravità del fatto non è priva di rilievo per le modalità e il contesto in cui si è verificato, nella misura in cui le peculiarità dell'evento lesivo si riverberano sul danno effettivamente subito, e dunque sempre in un'ottica riparatoria o compensativa e non sanzionatoria…» (Trib. Torino 3 giugno 2015 n. 4007, che ha trattato il tragico e noto caso del decesso dello studente diciassettenne per il crollo del tetto nella scuola Darwin di Rivoli);

- per il danno non patrimoniale si deve liquidare un importo commisurato al dolore, al turbamento e all'afflizione nonché alla concreta sensazione di insicurezza e mancanza di tutela, quali lesioni causalmente connesse ai reati, ma senza alcun riferimento ad una finalità punitiva o deterrente (App. Torino 14 novembre 2011, che ha trattato il tragico e noto caso della morte dei lavoratori della Thyssenkrupp);

- per determinare l'ammontare del risarcimento del danno non patrimoniale si deve tenere conto del criterio della gravità della condotta dell'agente (Trib. Trento 4 aprile 2011 n. 277, che ha deciso il caso di una ragazza investita sulle strisce pedonali e trascinata dalla vettura per quasi un chilometro; conf., in dottrina, P.G. MONATERI, I danni aggravati dalla condotta e le circostanze del caso concreto di cui all'art. 2056 c.c., in Danno e Responsabilità, n. 7/2015; M. BONA, Come liquidare e personalizzare il danno morale aggravato dalla condotta, in www.ridare.it; P. CENDON e G.M.D. ARNONE, Il quantum del danno aggravato dalla condotta, in www.personaedanno.it, 23/7/2014).

L'interpretazione fin qui fornita alla norma di cui al comma 3, ultima parte, porterebbe quindi a ritenere che il legislatore, nella specifica materia della responsabilità sanitaria, abbia previsto la personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale, per la componente relativa agli aspetti “interni” (e, cioè, la sofferenza morale), proporzionata alla gravità della condotta dell'esercente.

Le tabelle delle menomazioni all'integrità psicofisica e dei valori economici utilizzabili

Il legislatore, con il comma 4, ha previsto che il danno cagionato al paziente, sia da responsabilità contrattuale della struttura, sia da responsabilità contrattuale o extracontrattuale dell'esercente, è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209.

Tale disposizione è inutile, incompleta e, allo stato, in parte inapplicabile.

La disposizione è inutile in quanto già presente da oltre quattro anni nell'ordinamento (art. 3, comma 3, d.l. 13 settembre 2012 n. 158 convertito, con modificazioni, in l. 8 novembre 2012 n. 189).

La disposizione è incompleta in quanto disciplina il risarcimento dei soli danni da lesioni personali e non anche quelli subiti dai congiunti della vittima primaria e da morte (o, come si suol dire oggi, da perdita definitiva del rapporto parentale).

La disposizione è, allo stato, in parte inapplicabile per il risarcimento delle lesioni di non lieve entità (comprese tra il 10% ed il 100% di I.P.) in quanto, come esposto nel precedente paragrafo, le tabelle delle menomazioni all'integrità psicofisica e dei valori economici, di cui all'art. 138, comma 1, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, non sono state ancora promulgate.

Nell'attuale contesto normativo, pertanto, i danni cagionati da attività medica e sanitaria vanno accertati e risarciti:

1. in caso di lesioni di lieve entità (comprese tra l'1% ed il 9% di I.P.) mediante:

- la tabella obbligatoria delle menomazioni approvata con decreto del Ministero della Salute in data 3/7/2003;

- la tabella obbligatoria dei valori economici, di cui all'art. 139, comma 1, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209;

2. in caso di lesioni di non lieve entità (comprese tra il 10% ed il 100% di I.P.) mediante:

- in attesa dell'emananda tabella medico legale legislativa, di cui all'art. 138, comma 1, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, uno dei tanti barème (dal nome di F. Barrème che, nel 1670, pubblicò la raccolta Comptes faits du grand commerce) medico legali facoltativi di uso corrente quali (senza alcuna presunzione di completezza od esaustività):

  • RONCHI et altri, Guida alla valutazione medico-legale dell'invalidità permanente, Milano, 2015;
  • SMLT, Proposta nuovo barème “banno biologico di lieve entità”, 2015;
  • CANNAVO' et altro, Micropermanenti: dalla soggettività all'obiettività, Milano, 2011;
  • ASSOCIAZIONE MELCHIORRE GIOIA, Le tabelle del danno neurologico e cognitivo, in Cannavò e Liguori, Il risarcimento per le macrolesioni, Repubblica San Marino, 2010;
  • LUCAS et altri, Guide barème européen d'évaluation médicale des atteintes à l'intégrité physique et psychique, Louvain la Neuve, 2006 (prima tabella di riferimento europea per la valutazione del danno biologico tradotta, in lingua italiana, dall'associazione medico-giuridica Melchiorre Gioia, in www.melchiorregioia.it);
  • CIMAGLIA et altro, Danno biologico. Le tabelle di legge, Milano, 2006;
  • LUVONI et altri, Guida alla valutazione medico-legale del danno biologico e dell'invalidità permanente, Milano, 2002;
  • BARGAGNA et altri, Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente, Milano, 2001;
  • IORIO et altro, Cicatrice e danno estetico. Valutazione del danno biologico, Torino, 1999;
  • CITTADINI et altro, Guida-tabella del danno biologico a carattere permanente e invalidante, Napoli, 1995;
  • MELENNEC, Baréme indicatif, Le Concours Medical, pubblicato in Italia nell'opera di AA.VV., La valutazione tabellare dell'invalidità in responsabilità civile, 1986, 111;
  • MAINENTI, La valutazione medico-legale del danno alla persona in responsabilità civile, Salerno, 1985);

- in attesa dell'emananda tabella obbligatoria dei valori economici, di cui all'art. 138, comma 1, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, le tabelle “paranormative” di liquidazione del danno non patrimoniale del Tribunale di Milano, che hanno superato il vaglio del giudice di legittimità; la Suprema Corte, infatti, ha ritenuto che i valori di riferimento indicati in dette tabelle devono ritenersi equi e, cioè, sono quelli in grado di garantire la parità di trattamento da applicare in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l'entità (il leading case è Cass. civ., 7 giugno 2011 n. 12408);

3. in caso di danni subiti dai congiunti della vittima primaria mediante le tabelle “paranormative” di liquidazione del danno non patrimoniale del Tribunale di Milano;

4. in caso di danni da morte mediante le tabelle “paranormative” di liquidazione del danno non patrimoniale del Tribunale di Milano.

La norma, in ogni caso, è speciale e, pertanto, va applicata ai danni da attività medica e sanitaria anche in caso di approvazione di qualsiasi legge generale futura che voglia disciplinare il risarcimento del danno non patrimoniale (allo stato attuale la Camera, in data 21 marzo 2017, ha approvato il DDL 1063-A sul risarcimento del danno non patrimoniale ed ha previsto: 1. l'applicabilità delle tabelle di liquidazione del danno non patrimoniale del Tribunale di Milano sia per i danni a persona che per i danni da morte; 2. la possibilità per il giudice di aumentare l'importo per la personalizzazione del risarcimento fino al 50%; 3. l'aggiornamento annuale degli importi in base agli indici Istat mediante decreto del Ministro della Salute), salva la sua verifica di legittimità costituzionale.

La Consulta, infatti, investita della questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, in relazione all'art. 3 Cost., ha dichiarato l'infondatezza della questione sostenendo che «la prospettazione di una disparità di trattamento − che, in presenza di identiche (lievi) lesioni, potrebbe conseguire, in danno delle vittime di incidenti stradali, dalla applicazione della normativa impugnata, in quanto limitativa di una presunta maggiore tutela risarcitoria riconoscibile a soggetti che quelle lesioni abbiano riportato per altra causa − è smentita dalla constatazione che, nel sistema, la tutela risarcitoria dei danneggiati da sinistro stradale è, viceversa, più incisiva e sicura, rispetto a quella dei danneggiati in conseguenza di eventi diversi. Infatti solo i primi, e non anche gli altri, possono avvalersi della copertura assicurativa, ex lege obbligatoria, del danneggiante – o, in alternativa, direttamente di quella del proprio assicuratore – che si risolve in garanzia dell'an stesso del risarcimento» (C. Cost. 16 ottobre 14 n. 235).

La stessa ratio utilizzata dalla Consulta deve applicarsi all'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 7, comma 4, l. 8 marzo 2017 n. 24 (e art. 3, comma 3, d.l. 13 settembre 2012 n. 158 convertito, con modificazioni, in l. 8 novembre 2012 n. 189) che ha esteso anche alle ipotesi di responsabilità sanitaria i criteri risarcitori di cui ai richiamati artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209.

Tale interpretazione costituzionalmente orientata delle suddette norme deve portare gli interpreti a dubitare della loro legittimità, in relazione all'art. 3 Cost., atteso il finto obbligo assicurativo per la R.C. professionale imposto alle strutture dall'art. 10 l. 8 marzo 2017 n. 24, visto che accanto all'obbligo assicurativo sono consentite “altre analoghe misure” e, quindi, è espressamente prevista l'autotutela e l'autogestione e, cioè, la non assicurazione.

L'imperatività delle disposizioni della norma

Il legislatore, con il comma 5 (che è l'ultimo), ha previsto che le disposizioni dell'articolo sono norme imperative ai sensi del codice civile.

Tale disposizione - che sembra il frutto della preoccupazione del legislatore che i giudici possano disattendere le disposizioni dettate in tema di accertamento della responsabilità della struttura e dell'esercente, accertamento del danno e liquidazione del danno - è oscura, criptica, errata ed inutile.

La disposizione è oscura e criptica in quanto il codice civile non fornisce alcuna definizione delle norme imperative (dette anche cogenti, inderogabili o di ordine pubblico in senso lato) ma le contiene.

Il codice civile, infatti, contiene norme da esso definite (senza alcuna presunzione di completezza od esaustività):

- imperative (artt. 25, 634, 1343, 1344, 1354, 1418 e 1419 c.c.);

- inderogabili (artt. 160, 210, 957, 1647, 1649, 1652, 1654, 1932 e 2113 c.c.);

- nulle (artt. 1229, 1815 c.c.);

- prive di effetti (art. 162 c.c.).

Tali norme sono quelle che l'ordinamento impone, in ogni caso, ai consociati e, pertanto, non possono essere modificate.

Il codice civile contiene, altresì, norme contenenti termini perentori e, quindi, non modificabili dalle parti (artt. 84, 337-sexies, 1137, 1501 e 2545-duodecies c.c.).

La dottrina ha esteso l'inderogabilità anche alla disposizione di cui all'art. 1375 c.c. che impone l'osservanza del canone di buona fede in sede di esecuzione del contratto (BIANCA, Diritto civile, III, Il contratto, Milano, 1997, 473; RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, 180).

La disposizione è errata in quanto:

- le norme imperative - che sono emanate quando sono in gioco valori fondamentali dell'ordinamento e, pertanto, le basi stesse della coesistenza civile e sociale - sono tali per l'intero ordinamento e non (solo) per il codice civile;

- le norme imperative sono dirette prima ai privati che non possono derogarvi e solo successivamente al giudice che deve farle rispettare.

Le norme dettate in tema di accertamento della responsabilità della struttura e dell'esercente, accertamento del danno e liquidazione del danno non sono rivolte ai privati ma al giudice.

La disposizione è inutile in quanto le norme previste dall'art. 7, anche se non dichiarate espressamente imperative, devono comunque essere applicate dal giudice che, come già esposto, è soggetto, ai sensi dell'art. 101, comma 2, Cost., alla legge in generale e non solo alle norme imperative.

Se comunque si volesse ipotizzare un ambito di validità alla norma in esame si potrebbe ipotizzare che le parti, in sede contrattuale (e quindi nei soli rapporti tra paziente e struttura e tra paziente ed esercente privato), non possano stabilire criteri risarcitori diversi da quelli previsti dagli articoli richiamati (art.138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209).

L'efficacia nel tempo della norma

La l. 8 marzo 2017 n. 24 (pubblicata in G.U. 17 marzo 2017 n. 64):

- è entrata in vigore il dì 1 aprile 2017 e, cioè, il quindicesimo giorno successivo alla sua pubblicazione, ex art. 73, comma 2, Cost.;

- a parte la previsione di entrata in vigore differita delle norme di cui agli artt. 3, 4, 5, 10, 12 e 14, è priva di norme transitorie, dirette a regolare i rapporti giuridici che sono sottoposti al trapasso di legislazione.

Per valutare l'efficacia nel tempo dell'art. 7 l. 8 marzo 2017 n. 24, in mancanza di norme transitorie, occorre rifarsi ai principi generali.

Si applicano, pertanto:

- l'art. 11, comma 1, disp. prel. c.c. che sancisce il principio generale di irretroattività della legge; è ius receptum che l'art. 11, comma 1, disp. prel. c.c. è un «principio generale cui soltanto il legislatore può derogare, in modo espresso e comunque non equivoco, quando ricorrano particolari esigenze» (Cass. civ., 9 marzo 2010 n. 5662);

- l'art. 14 disp. prel. c.c. che sancisce il principio generale che le leggi speciali non si applicano oltre i casi ed i tempi in esse considerati.

L'art. 7 l. 8 marzo 2017 n. 24 è senz'altro una norma speciale perché disciplina non l'accertamento della responsabilità, l'accertamento del danno e la liquidazione del danno causato da qualsiasi fatto illecito, ma solo di quello derivante da attività medica e sanitaria.

La disposizione relativa all'accertamento della responsabilità, con l'espressa indicazione delle norme applicabili e dei diversi regimi di responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, pertanto, non è retroattiva.

Conforta tale assunto la giurisprudenza di legittimità che allorché si è trovata a decidere sulla novità introdotta nell'ordinamento dall'art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012 n. 158, a seguito della conversione, con modificazioni, in l. 8 novembre 2012 n. 189, che pur aveva affermato che in ambito di responsabilità medica e sanitaria «resta comunque fermo l'obbligo di cui all'art. 2043 c.c.», ha affermato, per quello che qui rileva, che «l'indicata norma non solo non ha e non può avere a regime l'esegesi sostenuta nel ricorso dalla ricorrente, ma, a maggior ragione, non ha avuto le ricadute sulle vicende pregresse alla sua entrata in vigore da essa supposte» (Cass. civ., 17 aprile 2014 n. 8940; conf. Cass. civ., 24 dicembre 2014 n. 27391; Cass. civ., 19 settembre 2013 n. 4030).

La questione relativa all'accertamento e alla liquidazione del danno è un po' più complessa.

La regola generale, per quanto concerne la liquidazione del danno, è che il giudice, nella liquidazione del danno, è tenuto ad applicare le norme vigenti (o i criteri di risarcimento vigenti) al momento della decisione; le norme da applicare in tema di liquidazione del danno sono quelle vigenti al momento della sentenza e non certo quelle vigenti al momento dell'evento o del danno.

Tuttavia le normative di cui agli artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, richiamate espressamente dall'art. 7, comma 4, l. 8 marzo 2017 n. 24 in tema di responsabilità sanitaria (e in precedenza dall'art. 3, comma 3, d.l. 13/9/2012 n. 158), disciplinano non solo la liquidazione ma anche e soprattutto l'accertamento del danno e ciò mediante:

- gli espressi richiami agli emanandi barème medico legali, da approvarsi con decreto, contenenti la specifica tabella delle menomazioni all'integrità psicofisica comprese tra il 10% ed il 100% di I.P. (art. 138, comma 1, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209) e tra l'1% ed il 9% di I.P. (art. 139, comma 4, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209);

- l'espressa previsione di perdurante validità ed efficacia, in attesa dell'emanando decreto per le lesioni di lieve entità, del baréme medico legale del Ministero della Salute il 3/7/2003 (art. 354, comma 5, lett. b, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209), contenente la specifica tabella delle menomazioni all'integrità psicofisica comprese tra l'1% ed il 9% di I.P.

Deve ritenersi, pertanto, che le normative di cui agli artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, richiamate espressamente dall'art. 7, comma 4, l. 8 marzo 2017 n. 24 in tema di responsabilità sanitaria (e in precedenza dall'art. 3, comma 3, d.l. 13 settembre 2012 n. 158), disciplinano, come su esposto, non solo la liquidazione ma anche e soprattutto l'accertamento del danno, hanno, quindi, carattere sostanziale per cui ne va esclusa, in ogni caso, la retroattività.

Conforta tale conclusione la giurisprudenza di legittimità che, allorché si è trovata di fronte al dilemma di quali norme, succedutesi nel tempo senza disciplina transitoria, applicare ai casi ad essa sottoposti, ha operato un distinguo in base alla natura delle norme ed, in particolare, se trattasi di norme processuali ovvero di norme sostanziali.

Nell'ipotesi di norme meramente processuali il giudice di legittimità ha costantemente affermato che esse si applicano a tutte le cause iniziate dopo la loro entrata in vigore, anche se relative a controversie derivanti da fattispecie verificatesi prima della loro entrata in vigore.

È ius receptum, infatti:

  • in tema di sinistro stradale con pluralità di danneggiati e litisconsorzio necessario previsto dall'art. 140, comma 4, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, che «l'art. 140, comma 4, d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, ha natura di norma processuale poiché introduce una ipotesi di litisconsorzio necessario, sicché, in difetto di espressa previsione, non è suscettibile di applicazione retroattiva, non trovando applicazione ai giudizi introdotti prima della sua entrata in vigore»(Cass. 16 aprile 2015 n. 7685);
  • in tema di disposizione dettata dall'art. 1469-bis, comma 3, n. 19 c.c., norma oggi abrogata dall'art. 142 d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 e sostituita con l'analoga previsione dell'art. 33, comma 2, lett. u, d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206, relativa alla competenza territoriale esclusiva del foro del consumatore, che «la disposizione dettata all'art. 1469-bis, comma 3, n. 19, c.c., ha natura di norma processuale e si applica nelle cause iniziate dopo la sua entrata in vigore, anche se relative a controversie derivanti da contratti stipulati prima» (Cass. civ., Sez. Un. 1 ottobre 2003 n. 14669; conf. Cass. civ., 18 settembre 2013 n. 21419; Cass. civ., 26 aprile 2010 n. 9922; Cass. civ., 20 dicembre 2007 n. 26977; Cass. civ., 11 gennaio 2007 n. 377; Cass. civ., 24 gennaio 2006 n. 1348; Cass. civ., 12 gennaio 2005 n. 452; Cass. civ., 29 settembre 2004 n. 19594; Cass. civ., 20 agosto 2004 n. 16336; Cass. civ., 28 novembre 2003 n. 18290).

Nell'ipotesi, invece, di norme sostanziali il giudice di legittimità ha costantemente affermato che esse non sono retroattive e, pertanto, non possono applicarsi alle fattispecie verificatesi prima della loro entrata in vigore, anche se l'azione giudiziaria sia, poi, in concreto iniziata nella vigenza delle nuove norme (Cass. civ., 9 marzo 2010 n. 5662; Cass. civ., 22 maggio 2007 n. 11876; Cass. civ., 24 novembre 2005 n. 24796; Cass. civ., 29 novembre 1999 n. 13339; Cass. civ., 13 aprile 1999 n. 3609; conf., per i principi espressi, in tema di risarcimento del danno patrimoniale ex art. 4 d.l. 23 dicembre 1976 n. 857 (così come modificato da l. 39/1977) e di irretroattività della normativa: Cass. civ., 11 maggio 1989 n. 2150; Cass. civ., 6 giugno 1987 n. 4956; Cass. civ., 20 febbraio 1982 n. 1084; conf., per i principi espressi, in tema di azione diretta del trasportato per il carattere innovativo e sostanziale della norma di cui all'art. 18 l. 990/1969 e, conseguentemente di quelle di cui all'agli artt. 23 e 24 l. 990/1969, Cass. civ., 29 gennaio 1983 n. 840).

Deve ritenersi, pertanto, richiamando i principi generali dell'irretroattività della legge e la natura sostanziale delle normative indicate come applicabili ai fini della liquidazione del danno da medical malpractice (gli artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209), deve ritenersi che lo ius superveniens, costituito dall'art. 7, comma 4, L. 8 marzo 2017 n. 24 (e in precedenza dall'art. 3, comma 3, d.l. 13 settembre 2012 n. 158), non è retroattivo e, pertanto, non può applicarsi agli eventi verificatisi prima della sua entrata in vigore.

È ius receptum, infatti, che «anche la sentenza additiva della Corte Costituzionale…non può avere l'effetto di estendere l'efficacia di detta norma (nel caso in esame l'art. 25 l. n. 157 del 1992) a sinistri verificatisi prima della sua entrata in vigore, in coerenza con la successione delle leggi e la conseguente irretroattività della nuova norma (art. 11 preleggi), principio generale cui soltanto il legislatore può derogare, in modo espresso e comunque non equivoco, quando ricorrano particolari esigenze» (Cass. civ., 9 marzo 2010 n. 5662).

Concorda con tale complessivo assunto la giurisprudenza di merito che:

1. in tema di danni da responsabilità sanitaria e art. 3, comma 3, d.l. 13 settembre 2012 n. 158 (che ha richiamato l'art. 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 in tema di liquidazione del danno), ha affermato che:

- «la liquidazione del danno…deve ispirarsi ai criteri individuati nelle tabelle di Milano…e non invece ai valori tabellari di cui alla l. 57/2001 (successivamente trasfuse nell'art. 139 cod. ass.), il cui ambito applicativo è limitato ai sinistri cagionati dalla circolazione dei veicoli e, a far data dall'entrata in vigore del d.l. 13 settembre 2012 n. 158, convertito in l. 189 del 2012 – inapplicabile ratione termporis” (Trib. Napoli 9 marzo 2015 n. 3488);

- «la disciplina in oggetto (art. 3, comma 3, d.l. 13 settembre 2012 n. 158) ha una diretta incidenza sul piano del diritto sostanziale del danneggiato ad ottenere il risarcimento del danno, sicché la stessa può avere applicazione nei soli casi di fatti verificatisi in un momento successivo alla sua entrata in vigore» (Trib. Napoli 5 giugno 2014 n. 8334; conf. Trib. Cremona 19 settembre 2013, che ha ritenuto la legge non retroattiva e ha liquidato il danno sulla scorta delle tabelle di Milano ancorché trattavasi di micropermanente del 6%);

- «non trova applicazione la normativa di cui al recente d.l. 13 settembre 2012, n. 158 convertito nella l. n. 189 del 2012 in ragione della irretroattività della normativa, di natura sostanziale» (Trib. Pisa 27 febbraio 2013);

2. in tema di danni da circolazione stradale:

- ha affermato l'inapplicabilità dell'art. 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 ai danni verificatisi prima della sua entrata in vigore, in quanto norma sostanziale e, quindi, irretroattiva (Trib. Napoli 30 maggio 2013 n. 6965);

- ha affermato che «non trovano applicazione i criteri di liquidazione del danno stabiliti dall'art. 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, poiché il sinistro si è verificato prima dell'entrata in vigore di tale decreto» (Trib. Napoli 22 ottobre 2009 n. 11634);

3. in tema di danni da circolazione stradale e modifiche dell'art. 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 ad opera dell'art. 32, comma 3-ter e 3-quater, d.l. n. 1/2012, convertito in l. 24 marzo 2012 n. 27, che ha limitato il risarcimento del danno biologico permanente in caso di lesioni di lieve entità solo qualora le stesse siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, ha affermato che «questa modifica legislativa, tuttavia, non si ritiene applicabile al caso in questione, in quanto la disciplina introdotta ha natura sostanziale (riguardando l'efficacia della prova) e non processuale, per cui non opera la regola del tempus regit actum ma, in base ai principi generali dell'ordinamento, la nuova disciplina trova applicazione per le sole ipotesi di risarcimento successive all'entrata in vigore della legge 27/2012 (24.3.2012)» (Trib. Napoli 30 aprile 2013 n. 5505; conf. Trib. Napoli 2 settembre 2014 n. 11644).

Non osta a tale conclusione il recente arresto della Consulta che ha sancito la legittimità costituzionale delle nuove disposizioni di cui agli artt. 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 e art. 32, commi 3-ter e 3-quater, d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 convertito in l. 24 marzo 2012 n. 27 e la loro applicazione a tutti i giudizi in corso ancorché relativi a sinistri verificatisi in data antecedente alla loro entrata in vigore in quanto non attinenti alla consistenza del diritto al risarcimento delle lesioni in questione, bensì solo al momento successivo del suo accertamento in concreto (C. Cost. 16 ottobre 2014 n. 235).

Le disposizioni di cui agli artt. 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209 e art. 32, comma 3-ter e 3-quater, d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 convertito in l. 24 marzo 2012 n. 27, infatti, come su esposto attengono sia all'accertamento del danno, sia alla sua liquidazione, per cui deve ritenersi che trattasi di norme sostanziali e perciò non retroattive.

La decisione della Consulta, in ogni caso, sia se qualificata come sentenza di mero rigetto (con la quale la Corte non dichiara che la norma impugnata è legittima, ma si limita a respingere la questione sollevata dal giudice a quo), sia se qualificata come sentenza interpretativa di rigetto (con la quale la Corte dichiara infondata la questione di legittimità costituzionale non perché il dubbio di legittimità sollevato non sia giustificato, ma perché esso si basa su una cattiva interpretazione della disposizione impugnata), non ha effetti erga omnes ed i suoi effetti si esauriscono inter partes vincolando esclusivamente il giudice a quo (Cass. pen., Sez. Un., 31 marzo 2004 n. 23016).

I giudici, infatti, come già esposto, sono “soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.) e non anche all'interpretazione che della legge fornisce la Consulta.

Cosa è cambiato e cosa cambierà

Cosa è cambiato e cosa cambierà con l'entrata in vigore della norma in esame (art. 7 L. 8 marzo 2017 n. 24)?

Praticamente nulla o quasi.

Le strutture continuano ad avere una mera facoltà (e non l'obbligo) di assicurarsi per la R.C. professionale.

Il metodo di accertamento in sede medico legale sia del nesso causale tra trattamento sanitario, lesioni subite dal paziente e menomazioni residuate (o decesso del paziente), sia del comportamento colpevole e/o non diligente dell'esercente è rimasto lo stesso.

Il medico legale, in tema di accertamento del nesso causale, continua:

- ad utilizzare i noti criteri medico legali (che non sono stati toccati dalla normativa speciale) quali quello cronologico, topografico, dell'efficienza qualitativa-quantitativa, della continuità nella seriazione dei fenomeni e dell'esclusione di altri momenti eziologici;

- ad applicare il criterio probabilistico (che non è stato toccato dalla normativa speciale), ispirato alla “regola della preponderanza dell'evidenza o del più probabile che non”, che è pacificamente utilizzabile in sede civile (Cass. civ., Sez. Un. 26 gennaio 2011 n. 1768; Cass. civ., Sez. Un. 18 novembre 2008 n. 27337; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 584; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 583; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 582; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 581; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 579; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 577; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 576; Cass. civ., Sez. Un. 30 ottobre 2001 n. 13533).

Il medico legale, invece, in tema di accertamento del comportamento colpevole e/o non diligente dell'esercente, non deve applicare le norme civili della responsabilità, contrattuale (art.1218 e 1228 c.c.) ed extracontrattuale (art.2043 c.c.) - che andranno applicate dal giudice e non dal medico legale - ma continua a verificare solo l'eventuale scollamento del comportamento dell'esercente dalle buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida che oggi sono normativizzate (art. 5 L. 8 marzo 2017 n. 24).

Il procedimento obbligatorio previsto dall'art. 8 L. 8 marzo 2017 n. 24 e, cioè, il ricorso alla Consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite ex artt. 696-bisc.p.c. (di qui in poi, per brevità, A.T.P. conciliativo) - sicuramente preferibile all'inutile procedimento di mediazione che è rimasto comunque alternativo - consente di acquisire in sede pre-contenziosa la prova del nesso causale tra trattamento sanitario e danno e del comportamento colpevole dell'esercente.

La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha costantemente affermato che in taluni casi, tra cui rientrano quelli relativi all'accertamento della responsabilità medica e sanitaria, la tradizionale C.T.U. medico legale espletata nel giudizio civile risarcitorio può costituire fonte oggettiva di prova per accertare quei fatti rilevabili unicamente con l'ausilio di un perito (Cass. civ., 25 maggio 2016 n. 10825; Cass. civ., 21 gennaio 2014 n. 1181; Cass. civ., 2 gennaio 2014 n. 14; Cass. civ., 2 ottobre 2013 n. 22538; Cass. civ., 22 aprile 2013 n. 9751).

Tali principi devono, oggi, necessariamente applicarsi anche e soprattutto all'A.T.P. conciliativo atteso che la ratio della norma che l'ha previsto (art. 8 l. 8 marzo 2017 n. 24) è certamente quella di:

- favorire l'interesse pubblico alla deflazione del contenzioso civile prevenendo liti che possano essere composte in sede pre contenziosa;

- rispettare i principi di rango superiore, comunitari (oggi unionisti o eurocomunitari) e costituzionali, del “giusto processo” e della sua “ragionevole durata” (artt. 6, paragrafo 1, Convenzione Europea, 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea e 111, comma 2, ultima parte, Cost.) sia prevenendo liti, sia in caso di insuccesso della composizione bonaria della lite e di successiva instaurazione del giudizio civile risarcitorio, accelerando la sua durata visto che ai sensi dell'art. 696 bis, comma 5, c.p.c. ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito e, quindi, a maggior ragione ed ancor più velocemente, può produrne copia conforme o copia con attestazione di conformità.

È facile prevedere, pertanto, che in sede di A.T.P. conciliativo - anche per l'inapplicabilità in tale fase del principio della soccombenza di cui all'art. 91 c.p.c. e del carico delle spese di lite - sarà sempre convenuto anche l'esercente (anche per far valer nei suoi confronti l'opponibilità dell'A.T.P. conciliativo nell'eventuale successiva fase di merito), salvo poi successiva valutazione da parte del danneggiato, dopo il raggiungimento o il mancato raggiungimento della prova dell'an e del nesso causale, se convenirlo nel giudizio di merito.

In sede giudiziale, poi, saranno sempre applicabili, anche nel caso dovesse ritenersi applicabile la responsabilità extracontrattuale dell'esercente, ex art. 2043 c.c., il principio di c.detta “riferibilità o vicinanza della prova”, principio di spessore costituzionale, riconducibile all'art. 24 Cost., che connette al diritto di azione in giudizio il divieto di interpretare la legge rendendone impossibile o troppo difficile l'esercizio e, pertanto, riparte l'onere probatorio tenendo conto, in concreto, dell'effettiva possibilità per l'una o l'altra delle parti di provare fatti e circostanze ricadenti nelle rispettive aree di disponibilità (Cass. civ., Sez. Un. 6 maggio 2015 n. 9100; Cass. civ., Sez. Un. 30 settembre 2009 n. 20937; Cass. civ., Sez. Un. 30 settembre 2009 n. 20934; Cass. civ., Sez. Un. 30 settembre 2009 n. 20933; Cass. civ., Sez. Un. 30 settembre 2009 n. 20932; Cass. civ., Sez. Un. 30 settembre 2009 n. 20931; Cass. civ., Sez. Un. 30 settembre 2009 n. 20930; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 582; Cass. civ., Sez. Un. 11 gennaio 2008 n. 577; Cass. civ., Sez. Un. 30 ottobre 2001 n. 13533).

Quindi anche nell'eventualità dell'incertezza sull'individuazione della concreta causa del danno, pur essendo certo che esso deriva dal trattamento sanitario, rimarrà a carico dell'esercente, per il principio di vicinanza della prova, l'onere di provare la diversa causa dell'evento avverso.

Il metodo di liquidazione del danno rimane sostanzialmente lo stesso anche se dovrà valutarsi la legittimità costituzionale (e quindi la tenuta) degli artt. 138 e 139 d.lgs. 7 settembre 2005 n. 209, richiamati espressamente dall'art. 7, comma 4, l. 8 marzo 2017 n. 24 in tema di responsabilità sanitaria (e in precedenza dall'art. 3, comma 3, d.l. 13/9/2012 n. 158), in relazione all'art. 3 Cost., atteso il finto obbligo assicurativo per la R.C. professionale imposto alle strutture dall'art. 10 l. 8 marzo 2017 n. 24, visto che accanto all'obbligo assicurativo sono consentite “altre analoghe misure” e, quindi, è espressamente prevista l'autotutela e l'autogestione e, quindi, la non assicurazione.

Cosa poteva essere fatto

Si poteva fare certamente di più e meglio.

Se il legislatore voleva ridurre effettivamente «l'enorme costo della medicina difensiva che pesa sul nostro sistema salute» (sono parole dell'On. Federico Gelli), anziché concentrarsi sulla contestabile scelta di qualificare come extracontrattuale la responsabilità dell'esercente che svolge la sua attività nella struttura al fine di disincentivare la sua vocatio in ius in casi di malasanità, avrebbe ben potuto optare per la scelta già fatta ben trentasette anni fa' per un'altra categoria a rischio: gli insegnanti della scuola pubblica.

Il legislatore, infatti, con l'art. 61 l. 11 luglio 1980 n. 312, come pacificamente interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, ha previsto che l'insegnante di una scuola statale non può mai essere convenuto nel giudizio civile per il risarcimento del danno causato dall'alunno:

- né quando l'alunno abbia causato danni a terzi;

- né quando l'alunno abbia causato danni a se stesso.

In ambedue i casi, infatti, unico soggetto passivamente legittimato è la pubblica amministrazione e, cioè, il Ministero della Istruzione, Università e Ricerca (Cass. civ., Sez. Un. 11 agosto 1997 n. 7454).

La Consulta, investita della questione di legittimità costituzionale della suddetta norma (art. 61 l. 11 luglio 1980 n. 312):

- ha negato che essa contrasti con l'art. 28 Cost. (il quale sancisce il principio della responsabilità diretta degli impiegati per gli atti compiuti in violazione dei diritti);

- ha ritenuto che, in base ad essa, gli insegnanti statali, in ogni caso di responsabilità per culpa in vigilando, non sono passivamente legittimati rispetto alle pretese risarcitorie dei terzi nei cui confronti risponde direttamente soltanto l'Amministrazione;

- ha dichiarato, quindi, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 61, comma 2, l. 11 luglio 1980 n. 312 (C. Cost. 24 febbraio 1992 n. 64).

Il legislatore, ancora, ma questa volta a tutela del paziente-creditore (o dei suoi eredi), avrebbe dovuto prevedere anche:

- in primis l'obbligo assicurativo (oltre che per gli esercenti, anche) per le strutture;

- in secundis l'obbligo a contrarre per le imprese di assicurazione;

- in tertiis l'intervento del Fondo di Garanzia nell'ipotesi di mancata assicurazione della struttura e dell'esercente;

- in quartis l'azione diretta nei confronti del Fondo di Garanzia.

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