Il risarcimento conseguente alla risoluzione per inadempimento si estende anche alle spese sostenute dalla parte non inadempiente

Cesare Trapuzzano
12 Ottobre 2015

Nel caso di inadempimento del contratto, la parte non inadempiente può chiedere, unitamente alla risoluzione, anche il risarcimento dei danni, sempre che sia fornita la dimostrazione rigorosa della relativa esistenza. Fra le poste risarcibili rientrano anche le spese sostenute in vista dell'adempimento, purché esse costituiscano una perdita netta per il creditore e si collochino in rapporto di regolarità causale con la prestazione inadempiuta imputabile al debitore.
Il danno patrimoniale contrattuale o da inadempimento

All'esito dell'inadempimento della prestazione, imputabile alla parte tenuta alla sua esecuzione in forza delle previsioni contrattuali, la controparte non inadempiente può chiedere l'adempimento ovvero può domandare lo scioglimento del vincolo negoziale, avvalendosi dell'azione di risoluzione che trova causa nell'inadempimento dedotto. L'art. 1453, comma 1, c.c. riconosce alla parte non inadempiente, in ogni caso, sia qualora agisca in manutenzione, sia qualora agisca in risoluzione, il risarcimento dei danni derivanti dall'inadempimento ascritto all'altra parte.

Relativamente al danno patrimoniale conseguito all'inadempimento, definito appunto danno contrattuale o da inadempimento, sono discussi in dottrina e in giurisprudenza essenzialmente i seguenti aspetti critici: per un verso, l'identificazione del fine che deve connotare la riparazione del nocumento – e, di conseguenza, il raggio di azione della pretesa risarcitoria – e, per altro verso, i profili che governano la relativa quantificazione. A fronte dell'orientamento cui si aderisca ne discendono precise ripercussioni in ordine all'ampiezza delle voci riparabili e, segnatamente, con riguardo all'inclusione delle spese sostenute in ragione dell'adempimento nell'ambito dei danni risarcibili. Siffatte questioni hanno avuto riscontro particolarmente in tema di contratti ad esecuzione continuata, differita o prolungata e con riferimento ai preliminari di vendita immobiliare.

Secondo l'orientamento tradizionale, il ristoro dei pregiudizi conseguenti alla stipulazione del contratto deve essere limitato all'interesse positivo, ossia alla ricostruzione del patrimonio della parte non inadempiente secondo l'ipotetica consistenza che esso avrebbe avuto all'esito dell'esatto adempimento. E tanto perché l'istituto della risoluzione attiene allo stadio della esecuzione del contratto, dopo la sua stipulazione, non già della responsabilità precontrattuale, cosicché il danno deve essere prospettato in confronto alla situazione che si sarebbe determinata qualora vi fosse stato l'adempimento esigibile della parte tenuta all'attuazione della prestazione pattuita, secondo il meccanismo della prognosi postuma. Ad ogni modo, la delimitazione della riparazione dei pregiudizi in guisa dell'assetto di interessi che si sarebbe generato nella sfera giuridico-patrimoniale delle parti nel caso di puntuale esecuzione delle prestazioni negoziali esclude che tra le voci di danno possano essere annoverate le spese affrontate quale precipitato della conclusione ed esecuzione del contratto, ossia come costo dell'adempimento.

Su queste premesse si fonda la discriminazione tra teoria differenziale e teoria reale di determinazione dell'ammontare del danno da interesse positivo: secondo la prima tesi, il pregiudizio costituisce la risultante tra entità del patrimonio della parte non inadempiente nell'ipotesi in cui vi fosse stato l'adempimento e misura del patrimonio in conseguenza dell'inadempimento ovvero la differenza tra il valore della prestazione cui la parte inadempiente sarebbe stata tenuta ed il valore della controprestazione dovuta dalla parte fedele o, ancora, tra il valore di mercato della cosa ed il prezzo pattuito; secondo la teoria reale, il danno deve essere commisurato al valore di mercato della prestazione rimasta inevasa, in ragione del principio della aestimatio rei. E sempre che non operi il risarcimento in forma specifica, anziché per equivalente, mediante riparazione o eliminazione dei vizi della prestazione difettosa, o che non vi sia la necessità di commisurare il nocumento patito al profitto conseguito dalla parte inadempiente per effetto del medesimo inadempimento o che non debbano operare, per specifica indicazione normativa, precisi sistemi forfetizzati di liquidazione del nocumento. La teoria normativa che invece incentra la quantificazione del risarcimento del danno contrattuale sulla valutazione, essenzialmente equitativa, dell'interesse protetto e sotteso alla prestazione non attuata, indipendentemente dagli effetti materiali che la violazione di tale interesse ha prodotto, si adegua precipuamente alla riparazione del danno non patrimoniale.

Le pronunce di legittimità più recenti ritengono, per converso, che il ristoro del danno contrattuale patrimoniale deve essere informato alla tutela dell'interesse negativo, ossia alla ricostruzione del patrimonio della parte non inadempiente così come sarebbe stato qualora il contratto, le cui prestazioni non siano state correttamente ed esattamente adempiute, non fosse stato affatto stipulato. E ciò perché se è vero che l'inadempimento sopravviene alla conclusione del contratto, è altresì vero che l'istituto della risoluzione mira a caducarne gli effetti, peraltro retroattivamente. L'impugnativa negoziale per difetto funzionale sopravvenuto del sinallagma, sub specie di rimedio redibitorio, inficia l'efficacia del contratto, sicché il trattamento riservato al risarcimento dei danni richiesto in via accessoria alla domanda di risoluzione va equiparato alla disciplina della riparazione del danno prescritta nel caso di mancanza ex ante di un contratto, diversamente dalla richiesta di risarcimento accessoria alla domanda di esecuzione del contratto. Si noti, peraltro, che costituisce ormai jus receptum la regola di compatibilità della responsabilità nella fase delle trattative per violazione degli obblighi che connotano tale fase e della validità del contratto all'esito stipulato. Da ultimo, Cass., 17 settembre 2013, n. 21255 ha affermato che l'azione di risarcimento danni ex art. 2043 c.c. per lesione della libertà negoziale è esperibile allorché ricorra una violazione della regola di buona fede nelle trattative contrattuali che abbia dato luogo ad un assetto d'interessi più svantaggioso per la parte che abbia subìto le conseguenze della condotta contraria a buona fede, e ciò pur in presenza di un contratto valido, ovvero, nell'ipotesi di invalidità dello stesso, in assenza di una sua impugnativa basata sugli ordinari rimedi contrattuali. In ragione di ciò, ne consegue che fra le poste ristorabili ricadrebbero anche le spese sostenute in vista dell'adempimento. A questa impostazione sono poi apportati dei correttivi. Solo le spese divenute ex post inutili, che siano al contempo ragionevoli e proporzionate, sarebbero suscettibili di ristoro. Sicché non spetterebbe comunque alcuna riparazione per le spese superflue.

Su questo campo ed in forza di queste direttive si sintetizza lo scontro tra gli arresti della giurisprudenza di legittimità.

Secondo Cass. 17 ottobre 2002, n. 14744, la spesa che trova fondamento nella conclusione o nell'esecuzione del contratto, non già nell'inadempimento, non è rimborsabile. Infatti, la spesa sostenuta «in adempimento di un obbligo contrattuale non può mai rappresentare, nel caso di risoluzione, un danno, trovando la sua causa non già nell'inadempimento che dà luogo alla risoluzione ma unicamente nel contratto, del quale viene a costituire un semplice costo», salva l'ipotesi in cui dette spese si rivelino «in tutto o in parte inutili, tanto da configurare ex post, per la parte adempiente, un esborso non più giustificato in assenza del vincolo contrattuale».

Diversamente Cass., 31 agosto 2005, n. 17562 ha riconoscimento alla parte adempiente il diritto «alla ricostruzione del proprio patrimonio, nella medesima consistenza che lo stesso avrebbe avuto, se, tra le parti, non fosse intervenuto il contratto poi rimasto inadempiuto». E poiché la spesa è stata erogata in attuazione del programma negoziale, il relativo esborso ricade tra le voci ristorabili.

Il danno contrattuale da aspettativa (ovvero il ristoro da lesione dell'interesse positivo)

Secondo il primo orientamento, il nocumento che può costituire oggetto di risarcimento nel caso di inadempimento di una delle parti, cui consegua la richiesta di risoluzione del contratto a cura della parte non inadempiente, è esclusivamente quello riconducibile all'assetto di interessi che sarebbe derivato dall'esatta esecuzione del contratto. Si relega, in proposito, il danno ristorabile alla salvaguardia dell'interesse positivo, ossia alla reintegrazione del patrimonio potenziale della parte non inadempiente per effetto dell'ipotetico, puntuale adempimento. Al riguardo, si discorre in termini di danno da aspettativa, vale a dire di danno proiettato verso il futuro, ossia verso la situazione auspicabile che si sarebbe determinata all'esito dell'adempimento. Pertanto, la parte fedele deve essere reintegrata nella medesima posizione economica che avrebbe acquisito qualora il contratto avesse avuto tempestiva ed integrale attuazione.

A questo divisamento aderisce Cass. n. 14744/2002, la quale ha prospettato che, in caso di inadempimento del contratto, la parte adempiente può chiedere, oltre alla risoluzione dello stesso, anche il risarcimento del danno, fermo rimanendo che, se lo scioglimento anticipato del rapporto è di per sé un evento potenzialmente generatore di danno, occorre, tuttavia, che la parte adempiente ne provi l'esistenza. Peraltro, le spese erogate in adempimento di un obbligo contrattuale non possono rappresentare, in caso di risoluzione, un danno, trovando la loro causa non già nell'inadempimento, ma unicamente nel contratto, salvo il caso in cui dette spese, per effetto dell'inadempimento di controparte e della risoluzione, si rivelassero, in tutto o in parte, inutili e non suscettibili di un qualunque proficuo risultato.

L'elaborazione prende le mosse dalla constatazione alla stregua della quale la spesa affrontata «in adempimento di un obbligo contrattuale non può mai rappresentare, nel caso di risoluzione, un danno, trovando la sua causa non già nell'inadempimento che dà luogo alla risoluzione ma unicamente nel contratto, del quale viene a costituire un semplice costo, che sarebbe rimasto a carico della parte adempiente anche in caso di buon esito della vicenda contrattuale».

In specie, la sentenza in commento ha escluso che il locatore che aveva dato in detenzione qualificata un proprio immobile ad un ente locale (cioè una sala cinematografica), allo scopo di adibirlo a teatro, potesse rivendicare, in conseguenza della risoluzione anticipata del contratto per mancato pagamento dei canoni a cura del conduttore, il rimborso delle spese sostenute per l'adeguamento della struttura e ciò per due ordini di ragioni:

  • il contratto prevedeva che il rimborso delle spese sostenute per adattare il bene ai soli interessi particolari dell'ente fossero a carico esclusivo del locatore;
  • pur configurando tali spese come posta del danno causalmente riconducibile al mancato recupero dell'esborso affrontato in ragione della risoluzione anticipata del contratto, tale pregiudizio non era comunque riparabile, atteso che il contratto stabiliva un diritto potestativo di recesso ad nutum, salvo preavviso, in favore del conduttore. Sole ove il locatore avesse dimostrato che, per effetto dell'inadempimento del conduttore e della conseguente risoluzione, le opere di adeguamento effettuate sull'immobile erano divenute inutili, cosicché lo stesso avrebbe dovuto provvedere a smantellarle, i relativi costi sarebbero stati rimborsabili.

Sennonché la subordinazione del rimborso delle spese all'inutilità del relativo impiego, peraltro senza specificare se detta inutilità debba essere intesa in senso soggettivo e concreto ovvero in senso oggettivo e astratto, costituisce non già un evento obiettivamente riscontrabile, ma un giudizio di natura meramente valutativa.

Questa impostazione, da un lato, tiene conto della collocazione sistematica della norma sulla risoluzione e sul risarcimento dei danni derivanti da inadempimento nell'ambito della responsabilità contrattuale, dall'altro, consente di giungere ad una appagante soluzione quanto alla cernita delle poste ristorabili, tenuto conto della sua idoneità a coprire in termini soddisfacenti l'area delle possibili voci risarcibili all'esito della stipulazione del contratto a vantaggio della parte fedele nonché dell'efficacia deterrente della enucleazione del danno da lesione di interesse positivo quale idoneo e sufficiente incentivo volto a scoraggiare l'inadempimento per colpa. Non presenta, inoltre, i limiti probatori propri della tutela dell'interesse negativo, ossia le oggettive difficoltà di dimostrazione della natura e della misura degli affari alternativi, trascurati o perduti, in conseguenza dell'adesione al modello contrattuale da cui è scaturito l'inadempimento. Pertanto, il pregiudizio si consacra nel ripristino delle utilità economiche che sarebbero discese dall'attuazione del contratto.

Nello stesso senso si pongono la dottrina dominante nonché la giurisprudenza più risalente (cfr. Cass. 29 novembre 2004, n. 22384; Cass. 6 giugno 2003, n. 9101; Cass. 28 marzo 2001, n. 4473; Cass. 21 maggio 1993, n. 5778; Cass. 6 maggio 1987, n. 4202; Cass. 1 dicembre 1983, n. 7199).

Il danno contrattuale da affidamento (ovvero il ristoro da lesione dell'interesse negativo)

Cass., 31 agosto 2005, n. 17562 ha, di contro, affermato il principio secondo cui il ristoro può estendersi alle spese affrontate in ragione dell'assolvimento della prestazione dovuta. E tanto perché l'ampiezza del risarcimento deve essere ancorata alla difesa dell'interesse contrattuale negativo della parte che ha sofferto la lesione, ossia alla ricostituzione della situazione patrimoniale ex ante, che si sarebbe avuta qualora il contratto, alla cui stipulazione è seguito l'inadempimento addebitabile ad una delle parti, non fosse stato per nulla concluso, secondo un meccanismo ipotetico di eliminazione mentale. Sicché il danno riparabile sarebbe riconducibile alla figura del danno da affidamento, ossia sarebbe estensibile ai pregiudizi evitabili con lo sguardo rivolto al passato, rectius alla situazione consolidata nella sfera giuridico-patrimoniale della parte non inadempiente prima che il contratto fosse concluso.

Segnatamente, in ipotesi di inadempimento contrattuale, la parte non inadempiente avrebbe diritto al ristoro di tutti i pregiudizi subiti a causa della condotta della controparte inadempiente, compreso il rimborso delle spese affrontate in vista del proprio adempimento e, specificamente, ove il contratto in questione sia costituito da un preliminare avente ad oggetto il trasferimento di una cosa determinata, sarebbero ripetibili anche gli esborsi sostenuti per la realizzazione di quest'ultima – o, comunque, finalizzati a renderla conforme all'oggetto delle pattuizioni contrattuali –. In base a questo assunto si è ritenuto che la riparazione dei pregiudizi subiti dal promittente alienante, per effetto della risoluzione del preliminare di vendita immobiliare imputabile al promissario acquirente, coprisse anche le spese affrontate per la redazione del progetto di variante, per il pagamento dei relativi ulteriori oneri concessori e per i lavori c.d. “extracapitolato”, sostenute per l'adattamento dell'originario progetto assentito, relativo a due distinte unità immobiliari, all'oggetto del “compromesso”, il quale impegnava le parti ad effettuare il passaggio di proprietà di un fabbricato unifamiliare.

Sulla stessa linea di pensiero si colloca Cass., 28 novembre 2014, n. 25351, che – sempre con riguardo ad un preliminare di vendita immobiliare – include tra i pregiudizi ristorabili cui ha diritto il promissario acquirente, nel caso di risoluzione per inadempimento ascrivibile al promittente venditore, le spese che siano state sostenute per i professionisti la cui opera si sia resa necessaria per il trasferimento dell'immobile. Pertanto, la giurisprudenza di legittimità più recente ha aderito all'indirizzo che in passato, sia in dottrina sia nella stessa giurisprudenza (cfr. Cass.,12 giugno 1987, n. 5143; Cass.,26 febbraio 1986, n. 1203; Cass., 23 agosto 1985, n. 4510), era minoritario.

Viceversa, pacificamente non si può riconoscere il cumulo della refusione del danno, esteso sia al contesto dell'interesse positivo, sia all'ambito dell'interesse negativo. Tanto significherebbe aderire ad una concezione sanzionatoria del risarcimento, non accolta dal nostro ordinamento giuridico, posto che in questo caso il patrimonio della parte non inadempiente diverrebbe più consistente di quello che si sarebbe determinato o per effetto del regolare adempimento o per effetto della mancata conclusione del contratto, con la percezione di un'indebita ed ingiustificata posizione lucrativa a vantaggio della parte fedele. Peraltro, questa tesi trova un avallo normativo nei soli artt. 1483 e 1493 c.c., che stabiliscono rispettivamente, in caso di evizione e in caso di risoluzione, sia il risarcimento del danno, sia il ristoro delle spese sostenute per l'esecuzione.

Eterogenea dall'ipotesi del cumulo è, invece, l'elaborazione secondo cui, pur trovando fondamento la riparazione della lesione del solo interesse positivo, in conseguenza della conclusione del contratto, nella previsione di cui all'art. 1453, comma 1, c.c., il ristoro da lesione dell'interesse negativo potrebbe avere luogo in via alternativa, quando la consistenza dell'interesse positivo sia di minore impatto per ragioni ontologiche ovvero per motivi contingenti, rappresentati anche da difficoltà di ordine probatorio. E ciò alla stregua di un principio generale, ricavabile dagli artt. 1337, 1338 e 1398 c.c. e trascendente l'ambito della responsabilità precontrattuale, secondo cui la parte che colpevolmente ha dato luogo all'inefficacia del contratto è tenuta a risarcire la parte che ha fatto affidamento sull'efficacia del contratto dei danni subiti. Così si tratterebbe non di un “danno da contratto”, ma di un “danno da stipulazione”.

Risarcimento e restituzioni

In base ad altra ricostruzione, le spese affrontate dalla parte non inadempiente in vista dell'adempimento della propria prestazione sarebbero rimborsabili, non già quale posta del risarcimento dei danni dovuti dalla parte inadempiente, ma come esborso di cui è possibile pretendere la restituzione in conseguenza della caducazione degli effetti del contratto. Venuta meno la causa concreta che aveva giustificato l'impiego di una determinata somma di denaro, la parte fedele potrebbe pretenderne la ripetizione a carico della parte inadempiente. A tali restituzioni, che consentono il recupero degli esborsi pregressi alla stipulazione del contratto, si aggiungerebbe il risarcimento secondo la logica della tutela dell'interesse positivo, così salvaguardando l'esigenza del recupero delle spese affrontate per assicurare l'adempimento e la limitazione del danno risarcibile alle sole utilità economiche che sarebbero derivate dall'esecuzione del contratto. Né ciò implicherebbe una forma di difesa esorbitante, poiché non vi è nell'ordinamento giuridico alcun principio che sancisce l'alternatività tra risarcimento e restituzioni.

Qualora, per converso, si reputasse che le restituzioni costituiscano una posta del risarcimento dei danni, inevitabilmente il riconoscimento del rimborso delle spese effettuate prima della conclusione del contratto postulerebbe l'estensione del ristoro alla lesione dell'interesse negativo, poiché la loro genesi si rinviene nella fase precontrattuale e la loro funzione è quella di assicurare l'adempimento delle prestazioni dovute dalle parti.

In conclusione

Premesso che quando ricorra tra le parti un'atmosfera di fiducia reciproca conseguente alla contrattazione e la stipulazione intervenga in una condizione di mercato trasparente e concorrenziale, il risarcimento da lesione dell'interesse positivo e quello da lesione dell'interesse negativo di fatto si equivalgono, resta da chiedersi in quali termini possa trovare risposta il nodo della refusione delle spese erogate in vista dell'adempimento e prima dell'integrale esecuzione del contratto quando la negoziazione sia intrapresa in una situazione di mercato offuscata e sleale, che non ha generato un clima di fiducia tra le parti.

In questa evenienza, riconducendo gli esborsi effettuati in vista dell'adempimento della propria prestazione a cura della parte non inadempiente alle perdite nette subite in conseguenza dell'inadempimento imputabile alla controparte si concilierebbero le due tesi in contrasto che sono state evidenziate nel panorama giurisprudenziale.

Sicché tali spese, in base ad una valutazione ex post, possono essere ascritte fra le poste del danno patrimoniale contrattuale o da inadempimento in quanto, in applicazione del principio di regolarità causale, di cui all'art. 1223 c.c., costituiscano, all'esito dell'inadempimento, un effetto pregiudizievole che si staglia definitivamente nel patrimonio della parte non inadempiente, sia sotto il profilo della diretta ed immediata consequenzialità rispetto all'inadempimento, sia sotto l'aspetto della non recuperabilità, ovvero della loro collocazione nella categoria del danno emergente.

Ed invero, pur rappresentando tali esborsi, in base ad una ricostruzione ex ante, un costo che non sarebbe stato comunque recuperato qualora il contratto avesse avuto regolare esecuzione, nondimeno tale costo sin dall'origine era finalizzato al buon esito dell'operazione negoziale e non era per così dire “a fondo perduto”. Venuto meno lo scopo che ne giustificava l'erogazione, le somme a tale titolo impiegate rappresentano un danno emergente per difetto sopravvenuto del nesso sinallagmatico. La caducazione del legame eziologico con l'adempimento atteso rende plausibile l'inserimento di dette spese nella voce del danno patrimoniale da lesione di interesse positivo.

Questa elaborazione ha il pregio di ricondurre, sul piano formale, il danno contrattuale nell'ambito della fattispecie dell'interesse positivo e di consentire, al contempo, di includere fra le voci di danno da aspettativa delusa anche le spese affrontate in ragione dell'adempimento e non più recuperabili, giustappunto perché il patrimonio della parte non inadempiente non può giovarsi dei riflessi economici positivi che quella spesa avrebbe determinato qualora la controparte avesse puntualmente adempiuto la sua prestazione. Del resto, la spesa affrontata trova la propria giustificazione proprio nelle aspettative di guadagno che il relativo esborso avrebbe consentito di raggiungere. Una volta che l'introito programmato, quale esito fisiologico dell'adempimento, non può più essere ottenuto, gli esborsi che trovavano la propria ragione in tale prospettiva sono catalogabili nella voce delle perdite.

Siffatta conclusione ovviamente comporta che la spesa sostenuta non generi utilità o profitto per la parte non inadempiente all'esito della risoluzione del contratto. Sicché deve trattarsi di spese che non hanno più un ritorno in carenza dell'adempimento programmato. Ove, al contrario, dette spese comunque comportino beneficio per la parte che le ha anticipate, determinando ad esempio un incremento di valore dell'immobile oggetto dell'operazione negoziale risolta, non può essere preteso il loro rimborso. Sotto il profilo della distribuzione dell'onere probatorio, è compito del danneggiato fornire la dimostrazione dell'assimilazione di tali spese ad una perdita netta per l'impossibilità di avvalersi aliunde della disposta erogazione.

Guida all'approfondimento

In dottrina sul tema della riparazione nei limiti della lesione dell'interesse positivo:

  • Bianca, Dell'inadempimento delle obbligazioni, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, sub art. 1223, 261 ss.;
  • Belfiore, voce Risoluzione per inadempimento, in Enc. del dir., XL, Milano, 1989, 1326;
  • Luminoso, in Carnevali-Costanza-Luminoso, Della risoluzione per inadempimento, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1990, sub art. 1453, 200 ss.;
  • Roppo, Il contratto, in Trattato Iudica-Zatti, Milano, 2001, 949;
  • Sacco, in Sacco-De Nova, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da Sacco, I, Torino, 2004, 669 ss.

Sul tema della riparazione nei limiti della lesione dell'interesse negativo:

  • Carnelutti, Sul risarcimento del danno in caso di risoluzione del contratto bilaterale per inadempimento, in Riv. dir. comm., 1923, II, 328 ss.;
  • Marella, Tutela risarcitoria nella risoluzione del contratto per inadempimento, in Giur. It., 1985, I, 1, 375 ss.

Per la tesi del cumulo tra interesse positivo e interesse negativo:

  • Rubino, La compravendita, in Trattato Cicu-Messineo, XXIII, Milano, 1962, 368 ss.

Sul tema della quantificazione del danno patrimoniale:

  • Villa, La quantificazione del danno contrattuale, in Danno e resp., 2010, 11.

Sul commento di Cass. n. 14744/2002:

  • Trimarchi, Interesse positivo e interesse negativo nella risoluzione del contratto per inadempimento, in Riv. dir. civ., 2002, V, 10637;
  • Romeo, Risoluzione per inadempimento e spese sostenute dalla parte adempiente, in Contratti, 2003, 10, 877.

Sul commento di Cass. n. 17562/2005:

  • Mariconda, Risoluzione per inadempimento del contratto preliminare di compravendita e danno risarcibile, in Corr. giur., 2005, 1686;
  • Cuccovillo, Spese sostenute dalla parte non inadempiente: tra risoluzione del contratto per inadempimento e interesse negativo, in Nuova giur. civ., 2006, 7-8, 10689.

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