Danno non patrimoniale: nozione unitaria o composita?

17 Marzo 2016

Sulle controverse questioni trattate nel Focus del Direttore scientifico dr. Damiano Spera «Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?», Ridare ha deciso di aprire un Forum con la partecipazione di autorevoli giuristi cultori della materia. Il secondo intervento che pubblichiamo è a firma della Professoressa Patrizia Ziviz.
Premessa

Il percorso evolutivo imboccato all'inizio del nuovo millennio dalla giurisprudenza di legittimità, volto ad affermare un nuovo sistema di regole in materia di risarcimento del danno non patrimoniale, non ha ancora raggiunto un traguardo definitivo; molte appaiono, infatti, le questioni sulle quali si registrano posizioni contrastanti da parte della Suprema Corte. Un confronto aperto e franco tra gli interpreti, che punti a mettere in luce i nodi controversi e formulare proposte per il superamento delle divergenze, appare fondamentale al fine di pervenire alla definizione di un modello risarcitorio condiviso. Ciò vale, in particolare, per quel che concerne la stessa definizione del fenomeno da regolare, in quanto si tratta di stabilire in che termini vada inteso il concetto di danno non patrimoniale.

I nodi controversi in materia di risarcimento del danno non patrimoniale

Dopo il radicale cambiamento innescato nel risarcimento del danno non patrimoniale con le sentenze gemelle del 2003, si è aperta una fase di incertezza che perdura ancora oggi. Le indicazioni formulate in quella sede dai giudici di legittimità hanno posto le fondamenta del nuovo modello risarcitorio, lasciando aperta la questione riguardante la puntuale definizione delle regole sulle quali fondare il riassetto del sistema. Da quel momento sono state, pertanto, avviate – presso la giurisprudenza di legittimità - tutta una serie di precisazioni e integrazioni volte a definire nel dettaglio la disciplina attraverso la quale si struttura quel sistema che le “sentenze gemelle” hanno tratteggiato nelle sue linee generali: operazione, questa, non semplice, in quanto - sul piano teorico - si trattava di liberarsi dalle incrostazioni dogmatiche proprie del vecchio assetto, mentre – sul versante di politica del diritto – bisognava immaginare nuove e più ampie frontiere per la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale. Non sono mancate, di conseguenza, ambiguità e contraddizioni, sfociate – nel corso del 2008 - nella richiesta di un generale chiarimento da parte delle Sezioni Unite, alle quali spettava il compito di dettare il nuovo statuto del danno non patrimoniale, tracciando un sistema di regole chiaro e armonioso. Le sentenze di San Martino non sono riuscite a raggiungere tale obiettivo, in quanto il loro intervento è rimasto fortemente condizionato dal timore di una deriva del sistema verso un'alluvione risarcitoria; ben lungi dal rappresentare l'attesa tavola dei comandamenti in materia di danno non patrimoniale, il dettato delle Sezioni Unite ha finito per alimentare, piuttosto che risolvere, la confusione imperante all'interno di questo settore.

Le questioni oggetto di discussione toccano tutti gli snodi essenziali della materia, in quanto riguardano:

  1. la definizione del danno non patrimoniale;
  2. l'ampiezza della regola risarcitoria da applicare a tale area del pregiudizio;
  3. i criteri da seguire sul versante della prova e della liquidazione dei danni non aventi carattere economico.

Per ciascuno di tali punti, numerosi appaiono i profili problematici e, in relazione a ciascuno di essi, le nette contrapposizioni che si registrano presso gli interpreti hanno finito per cristallizzarsi in indicazioni preconcette. Si è creata in tal modo una situazione di stallo, che si riflette, in seno alla giurisprudenza di legittimità, in un alternarsi di pronunce contrastanti, le quali finiscono per privare gli operatori di precisi punti di riferimento.

In una prospettiva volta a favorire l'approdo verso soluzioni univoche, si tratta di avviare un dibattito che punti a individuare i profili controversi, per definire quali siano i termini effettivi del contrasto e proporre indicazioni utili a individuare soluzioni univoche e condivise. In tale prospettiva, è stato di recente formulato un inventario relativo alle questioni irrisolte (v. Spera, Il danno non patrimoniale (biologico, morale, esistenziale) è risarcibile solo come danno da sofferenza?, in Ri.Da.Re.): tra le quali grande spicco riveste quella relativa alla definizione di danno non patrimoniale, quale nozione da intendersi in maniera unitaria ovvero come sommatoria di una serie di voci diversificate.

Nozione unitaria o composita di danno non patrimoniale

Sul piano classificatorio, il dettato codicistico si limita a operare una contrapposizione tra danno patrimoniale e danno non patrimoniale, senza definire come debbano intendersi tali nozioni. Per quanto riguarda, in particolare, il concetto di danno non patrimoniale, la discussione verte sulla possibilità di andare oltre la classificazione binaria, per procedere ad una specificazione volta a classificare le varie tipologie di pregiudizi riconducibili a tale ampia nozione. Il dibattito, lungo tale profilo, è stato alimentato dalle affermazioni delle Sezioni Unite, le quali - nelle sentenze del novembre 2008 – sostengono sia necessario accogliere una nozione unitaria di danno non patrimoniale, essendo considerata inutile e superflua l'individuazione di specifiche figure di danno. A sostegno di una posizione del genere non vengono messe in campo particolari motivazioni di ordine teorico, bensì una considerazione di ordine pratico: solo l'accoglimento di una nozione unitaria di danno non patrimoniale potrebbe impedire duplicazioni risarcitorie. A voler essere franchi, bisogna – tuttavia – riconoscere che la spinta verso un'affermazione del genere deriva, essenzialmente, dalla volontà dei giudici di legittimità di sminuire il ruolo del danno esistenziale; nel momento in cui l'unica nozione cui fare riferimento è quella di danno non patrimoniale, il richiamo a quest'ultimo diventerebbe inutile, rappresentando al più una delle possibili specificazioni lungo le quali declinare quella più generale categoria.

Gli effetti di una scelta del genere sono ben chiari. Optare per l'accoglimento della nozione di danno non patrimoniale quale esclusiva categoria di riferimento finisce per spingere nell'indeterminatezza il fenomeno che si intende regolare. Si tratta, infatti, di una definizione costruita in negativo, che non permette di identificare quali siano le compromissioni riconducibili sotto tale etichetta; se un certo fenomeno viene descritto esclusivamente in funzione dell'assenza di una determinata qualità, nulla è dato sapere sulle caratteristiche che lo connotano sul piano concreto. In un'ottica del genere, l'unica descrizione del pregiudizio che appare praticabile è quella legata alla sua fonte genetica; potremo parlare di danno non patrimoniale da lesione dell'integrità psico-fisica, da mobbing, da illecito trattamento dei dati personali, e così via. Nessuna indicazione può ricavarsi, da simili concetti, su quali siano quegli elementi della realtà fattuale che potranno essere ricondotti sotto tale etichetta.

Ove si intenda scendere ad un'indagine che punti all'individuazione delle concrete compromissioni qualificabili come danni non patrimoniali, diventa indispensabile – sul piano descrittivo – procedere a una distinzione tra le varie voci di pregiudizio; un'operazione, questa, alla quale procedono le stesse sentenze di San Martino, le quali individuano la pluralità di voci descrittive attraverso le quali prendono corpo i pregiudizi non aventi carattere economico.

Stando così le cose, bisogna ritenere non sussista un vero e proprio contrasto, in Cassazione, tra sentenze favorevoli all'accoglimento di una nozione unitaria di danno non patrimoniale e pronunce inclini a riconoscere la distinzione tra le varie componenti. Infatti, procedere all'individuazione delle diverse voci del pregiudizio non impedisce che le stesse vengano ricondotte ad una categoria più generale, rappresentata dal danno non patrimoniale. Incarna, dunque, una mistificazione l'idea – perorata in passato da taluni fra i sostenitori della visione unitaria – secondo cui la distinzione tra le varie voci di danno implicherebbe il rifiuto della più generale categoria del danno non patrimoniale; non si tratta, infatti, di individuare voci che si contrappongono ad essa in termini alternativi, ma – molto più semplicemente - di classificare i fenomeni racchiusi entro questo più ampio concetto.

Autonomia ontologica delle voci descrittive

Le sentenze di San Martino, nel riconoscere l'esistenza di una pluralità di voci descrittive, precisano che «il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno». Si tratta di stabilire quale significato pratico rivesta un'affermazione del genere, una volta constatato che – nella lingua italiana - si intende per categoria un complesso di cose raggruppato secondo un criterio di appartenenza a uno stesso genere o specie o tipo. Ora, è evidente che descrivere varie poste di danno, che si differenziano in base a criteri predeterminati, determina la costruzione di differenti categorie di pregiudizio: si tratta di stabilire se queste vengano ad assumere rilevanza sul piano giuridico. Vi è una corrente di pensiero, in seno alla Suprema Corte, propensa a negarlo: ciò in quanto il giudice sarebbe tenuto ad inquadrare il pregiudizio patito dalla vittima esclusivamente entro le categorie del danno patrimoniale o non patrimoniale, poiché «l'unitarietà del danno non patrimoniale è concetto giuridico, posto a presidio del divieto di duplicazioni risarcitorie. Esso non c'entra nulla col poliformismo con cui il danno può manifestarsi, che è questione di fatto» (Cass. 13 agosto 2015, n. 16788). In una prospettiva di quest'ultimo tipo, si afferma allora che la distinzione ontologica tra le voci andrebbe confinata esclusivamente sul piano dell'allegazione e prova dei singoli pregiudizi non patrimoniali (v. Spera, op. cit.), considerato che «le forme di manifestazione del danno nulla hanno a che vedere con le categorie giuridiche del danno» (così Rossetti, La Corte di cassazione e il danno non patrimoniale, in Ri.Da.Re.).

Una conclusione del genere non può essere condivisa. È ben vero che le voci descrittive del danno servono a classificare e ordinare fenomeni che si registrano nel mondo dei fatti; ma le stesse sono destinate a rivestire valenza sul piano giuridico, considerato che è lo stesso legislatore ad utilizzare tali riferimenti. Basta rammentare, a tale proposito, che a livello normativo viene individuata la nozione di danno biologico, con una definizione che – pur essendo formulata in seno al Codice delle Assicurazione private – assume valenza generale, in quanto ricognitiva della giurisprudenza di Cassazione e della Corte costituzionale. Si tratta di fare riferimento alle previsioni contenute negli artt. 138 e 139 d.lgs. n. 209/2005, che individuano il danno biologico quale «lesione temporanea o permanente all'integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un'incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito» (ed è bene ricordare che il riferimento al danno biologico, nonché al danno morale, vengono mantenuti anche in seno alla nuova versione delle norme, la cui revisione risulta proposta in seno al d.d.l. sulla concorrenza attualmente in discussione presso il Senato).

I fenomeni negativi di cui la vittima risente sul piano dei fatti vengono quindi ad essere ricondotti alle diverse voci, in ragione dell'identità che gli stessi rivestono. Posto, ad esempio, che la vittima può provare – in seguito all'illecito – una molteplicità di stati d'animo negativi (ansia, disperazione, rabbia, rancore, vergogna, tristezza, disperazione, e via dicendo), sul piano giuridico tali fenomeni saranno tutti riconducibili alla categoria giuridica del danno morale. Può ben affermarsi, allora, che tali voci rivestono autonomia ontologica, in quanto vengono a distinguersi l'una dall'altra sulla base di criteri determinati.

Bisogna, in ogni caso, sottolineare che la distinzione tra le voci descrittive del danno morale, biologico ed esistenziale non risulta formulata attraverso criteri omogenei. Infatti, il danno morale si contrappone alle altre componenti sulla base di un parametro di carattere contenutistico, fondato sulla tipologia dei riflessi negativi presi in considerazione: mentre esso concerne compromissioni che coinvolgono la sfera interna della persona, in quanto si sostanzia nel turbamento di carattere emotivo sofferto dalla vittima, il danno biologico e quello esistenziale riguardano entrambi riflessi negativi che coinvolgono la dimensione esterna della vittima (e si differenziano tra loro in ragione della diversità dell'interesse colpito in capo al danneggiato). Di tale peculiare strutturazione dei rapporti tra le varie componenti dell'area non patrimoniale l'interprete dovrà tener conto al fine di evitare - da un lato - duplicazioni risarcitorie, nonché – dall'altro lato - vuoti di tutela.

I riflessi sulla liquidazione del danno

Il motivo fondamentale che le Sezioni Unite pongono a fondamento dell'accoglimento di una nozione unitaria di danno non patrimoniale riguarda la necessità di evitare duplicazioni risarcitorie: problema che si pone quanto il medesimo pregiudizio viene inquadrato in due diverse categorie giuridiche di danno, prestandosi ad essere liquidato due volte.

Su questo punto, si tratta di sfatare un grande equivoco. Procedere a una distinzione descrittiva delle voci di danno non significa affatto convogliare il medesimo tipo di compromissioni sotto più etichette; al contrario bisogna ricondurre ciascuna compromissione entro la relativa voce descrittiva, che va individuata in maniera univoca. Ogni tipo di ripercussione dannosa può essere qualificata con una, e una sola etichetta descrittiva. A sostegno di tale conclusione, è utile richiamare alcuni passaggi formulati da una recente sentenza della Suprema Corte (Cass. 13 agosto 2015, n. 16788, v. F. Rosada, La liquidazione del danno non patrimoniale tra divieto di duplicazione delle poste di danno e divieto di negazione dell'integrale risarcimento, R. Nocella, Vademecum della Suprema Corte per la corretta liquidazione del danno alla salute permanente e temporaneo in Ri.Da.Re.), rivolti – in accordo con le statuizioni delle Sezioni Unite - a sostenere la necessità di procedere una liquidazione unitaria: i giudici di legittimità affermano che “il principio secondo cui la categoria giuridica ‘danno non patrimoniale' ha natura unitaria ed onnicomprensiva vieta all'interprete di moltiplicare le categorie di danni risarcibili semplicemente cambiando loro nome. Così, ad esempio, il dolore fisico provocato da una lombosciatalgia provocata da un fatto illecito è un danno risarcibile: ma il fatto storico rappresentato dal dolore fisico che una lombosciatalgia provoca non porduce plurimi effetti risarcitori, sol perché lo si definisca di volta in volta ‘ danno biologico', ‘danno morale', ‘danno alla vita di relazione' od altro. Uno è il fatto materiale provocato dall'illecito (il dolore fisico), ed uno deve essere il credito risarcitorio, L'unitarietà della nozione di ‘danno non patrimoniale' tuttavia non consente affatto di escludere dal risarcimento pregiudizi effettivi e concretamente sofferti dalla vittima. Così, per riprendere l'esempio di poc'anzi, se la vittima di lesioni personali, oltre a provare il dolore fisico causato da una lombosciatalgia, provi anche vergogna per la propria condizione di invalido, di questo secondo pregiudizio il giudice dovrà necessariamente tenere conto opportunamente aumentando il quantum del risarcimento che avrebbe altrimenti liquidato”. Ora, una lettura in chiave composita del danno non patrimoniale, non punta affatto a veicolare – per attenerci all'esempio indicato – il dolore fisico sotto una pluralità di voci; il riferimento, per una compromissione del genere, è necessariamente quello relativo alla componente biologica. Quanto alla vergogna che la vittima provi per la propria condizione, si tratta di un riflesso attinente alla sfera emotiva, e come tale qualificabile quale danno morale. Sicché l'attribuzione di un peso monetario alle due componenti non potrà per alcun verso rappresentare una duplicazione, in quanto rispecchia la traduzione in denaro di differenti compromissioni. Riconoscere la natura composita del danno non patrimoniale non significa, pertanto, aprire la strada all'overcompensation, bensì offrire una griglia di riferimento utile a ordinare – sul piano giuridico - la multiforme realtà attraverso la quale prende corpo il danno non patrimoniale nella realtà fattuale.

La liquidazione unitaria del danno non patrimoniale presenta, dal canto suo, un problema fondamentale: si tratta di un metodo che non consente di verificare se sia stato rispettato quel principio di integrale risarcimento del danno che le Sezioni Unite pongono a fondamento del sistema. A tale riguardo, va precisato che in ambito non patrimoniale - non essendo prefigurabile in partenza una somma esatta corrispondente al danno subito dal danneggiato – il principio in questione va declinato in maniera peculiare: il giudice perviene a un risarcimento integrale quando individua una cifra congrua, in quanto idonea a rispecchiare tutti gli aspetti o voci in cui la categoria del danno non patrimoniale si declina nel singolo caso concreto. Ecco allora che - onde poter verificare che ogni versante del pregiudizio abbia trovato adeguato riscontro - occorre applicare un metodo liquidativo il quale permetta di individuare la somma riconosciuta per ciascuna delle voci di pregiudizio risentite dalla vittima: risultando indifferente, da questo punto di vista, l'adozione di un sistema fondato sulla somma dei vari addendi ovvero un modulo imperniato sull'imputazione di somme parziali o percentuali del complessivo ammontare a ciascuna voce di pregiudizio (così, da ultimo, Cass. 27 novembre 2015, n. 24210). Ciò che appare fondamentale è la possibilità di ricostruire la consistenza economica attribuita a ciascuna componente del danno, per verificare se la conversione in denaro appaia congrua, in quanto non sproporzionata per difetto o per eccesso. Non si tratta, perciò, di procedere ad una vivisezione del danno, bensì di rendere trasparente il processo attraverso il quale il pregiudizio non patrimoniale viene tradotto in moneta.

I confini del danno biologico

Le ragioni di contrasto più concrete che emergono in Cassazione, in ordine alla nozione di danno non patrimoniale, riguardano l'accoglimento di quelle indicazioni delle sentenze di San Martino secondo cui - a fronte di un determinato illecito – non si tratterebbe di risarcire il danno non patrimoniale genericamente inteso, ma bisognerebbe liquidare una soltanto delle relative componenti. Le Sezioni Unite hanno affermato che, al fine di evitare duplicazioni risarcitorie, sarebbe necessario ristorare una sola voce di pregiudizio, la quale assumerebbe funzioni assorbenti rispetto alle altre. Tale conclusione viene sostenuta – in particolare – per quanto attiene alla valenza onnicomprensiva del danno biologico, quale unica voce risarcibile a fronte di una lesione alla salute; si sostiene, infatti, che la sofferenza può costituire un autonomo pregiudizio esclusivamente in assenza di degenerazioni patologiche della stessa, essendo altrimenti destinata a confluire nella componente biologica. Ed è proprio sulla possibilità di convogliare, entro la nozione di danno biologico, le sofferenze emotive cagionate dalla lesione dell'integrità psico-fisica, liquidate in passato quali pregiudizi di carattere morale, che la Suprema Corte si mostra attualmente divisa.

A tale riguardo, bisogna osservare che un'opzione propensa a perorare l'assorbimento del danno morale entro quello biologico pone, anzi tutto, un problema di carattere logico. Nel momento in cui si riconosce che le varie componenti del danno non patrimoniale rivestono valenza descrittiva, si assume che esse si riferiscano a compromissioni che differiscono le une dalle altre. In particolare, se nel danno morale è destinato a confluire il pregiudizio corrispondente al turbamento emotivo provocato dal torto, questo tipo di conseguenza negativa non potrà mutare veste per il fatto di essere geneticamente ricollegata a una lesione alla salute. Ove la sofferenza sia talmente forte da provocare una patologia di carattere psichico, a venire in evidenza sarà un legame di carattere causale tra pregiudizio morale e lesione della salute psichica: rapporto che non può certo essere rappresentato nei termini di metamorfosi del danno morale in un danno di carattere biologico.

Ad una confluenza del danno morale entro l'orbita del danno biologico osta, peraltro, la definizione normativa relativa a quest'ultima categoria: cui viene ricondotta la negativa incidenza della menomazione sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, ma non già la compromissione relativa alla sfera emotiva. Va, altresì, sottolineato che la considerazione delle sofferenze emotive non si presta ad essere recuperata in sede di personalizzazione del danno biologico: personalizzare significa aumentare o diminuire la liquidazione relativa a una determinata posta del pregiudizio in ragione delle caratteristiche individuali del soggetto leso; del tutto differente appare, invece, l'opzione volta a convogliare entro una certa voce descrittiva compromissioni che rivestono differente natura.

La variabilità dei confini del danno biologico è destinata a generare inevitabili riflessi sul relativo sistema di misurazione tabellare. Si tratta di partire dalla constatazione che le tabelle sono finalizzate a individuare una base di calcolo omogenea, utile a convertire un pregiudizio avente carattere non economico in una somma di denaro. Considerato che i relativi importi risultano essere stati individuati avendo di mira un'area ben definita di ripercussioni dannose, eventuali modifiche in senso espansivo del pregiudizio di riferimento rende necessario un ritocco delle somme corrispondenti, al fine di includere gli aspetti pregiudizievoli in precedenza non misurati. Così è avvenuto per quel che riguarda le tabelle di Milano che, al momento in cui hanno accolto una nozione unitaria di danno non patrimoniale derivante da lesione alla salute, sono state rideterminate al fine di includere nel calcolo del punto anche la componente morale del pregiudizio. Non altrettanto è accaduto per quel che concerne la tabella normativa, prevista dall'art. 139 Cod. Ass., in materia di lesioni di lieve entità provocate da sinistri stradali: elaborata per misurare il danno biologico strettamente inteso, non ha subito alcun successivo ritocco per essere adeguata ad una concezione più estesa del pregiudizio preso a riferimento. Ciononostante la sentenza n. 235/2014 della Corte costituzionale (v. M. Rodolfi. Legittimità costituzionale dell'art. 139 del Codice delle Assicurazioni, D. Spera, Riverberi sulla tabella milanese della pronuncia costituzionale sull'art. 139 Cod. Ass., A. Barletta, Micropermanenti e delimitazione del risarcimento dopo la pronuncia della Consulta n. 235/2014: regime transitorio e non solo, M. Bona, Corte costituzionale n. 235/2014: cestinatela!, in Ri.Da.Re.)– pur dichiarandosi consapevole del fatto che tale strumento di misurazione risulta riferito a una concezione del pregiudizio non patrimoniale anteriore a quella unitaria affermata dalle Sezioni Unite - ha attribuito portata onnicomprensiva alla tabella in questione, riconoscendo che i tetti stabiliti a livello normativo per la personalizzazione del risarcimento riguardano non già la sola componente biologica del pregiudizio, bensì le conseguenze non patrimoniali della lesione alla salute complessivamente intese. E' evidente, allora, che un'operazione del genere non può essere condivisa, in quanto si traduce in un ingiustificato taglio del risarcimento.

Problemi differenti rispetto a quelli fin qui illustrati pone l'inclusione, nella componente biologica del pregiudizio, di quelle compromissioni che si identificano con la modifica negativa della qualità della vita risentita dalla vittima. La valenza esistenziale del danno biologico emerge proprio a livello di definizione normativa: per cui si tratta di riconoscere che tale pregiudizio e quello esistenziale riguardano il medesimo tipo di compromissioni. La distinzione, sul piano classificatorio, tra danno biologico e danno esistenziale avviene, in effetti, sulla base del tipo di interesse leso in capo alla vittima.

Bisogna, in ogni caso, sottolineare che la corresponsione di entrambe le voci di pregiudizio non sempre rappresenta una duplicazione risarcitoria. Ciò accade qualora ci si trovi di fronte a un illecito avente valenza plurioffensiva: qui il cumulo appare necessario al fine di tener conto del differente impatto esistenziale prodotto dalle distinte lesioni sofferte dalla vittima (come avviene, ad esempio, nel caso di morte del congiunto, la quale determini in capo al familiare, oltre alla lesione del rapporto familiare, anche una lesione alla salute, avendo il lutto scatenato qualche forma di patologia: v., a tale proposito, Cass. 8 maggio 2015, n. 9320).

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