I nodi del diritto antidiscriminatorio alla prova di una pronuncia sul divieto di ritorsione

Alberto Guariso
17 Aprile 2015

La giurisprudenza di merito in tema di contrasto alle discriminazioni si va man mano arricchendo di interventi e diventa sempre più il vero “diritto vivente” della non-discriminazione. La ragione non è casuale: nel giudizio sulla discriminazione il delicato equilibrio tra contrapposti valori e interessi trova composizione solo in una attenta e equilibrata considerazione del “fatto” e dunque è logico che il Giudice di merito ne sia il protagonista.
Il quadro normativo

La giurisprudenza di merito in tema di contrasto alle discriminazioni si va man mano arricchendo di interventi e diventa sempre più il vero “diritto vivente” della non-discriminazione.

La ragione non è casuale: nel giudizio sulla discriminazione il delicato equilibrio tra contrapposti valori e interessi trova composizione solo in una attenta e equilibrata considerazione del “fatto” e dunque è logico che il Giudice di merito ne sia il protagonista.

Va anche considerato che fino alla riforma del 2011, il giudizio antidiscriminatorio si svolgeva secondo le modalità del procedimento cautelare uniforme e raramente le parti – una volta esaurita con il reclamo la fase cautelare - si sobbarcavano anche il giudizio di merito; sicché la Corte di legittimità per molti anni ha avuto modo di intervenire solo su questioni procedurali o di giurisdizione (si veda ad es. Cass., 15 febbraio 2011, n. 3670 e Cass., 30 marzo 2011, n. 7186 che hanno affermato la giurisdizione del giudice ordinario anche nelle azioni avverso atti amministrativi a contenuto discriminatorio).

È solo con l'introduzione del nuovo rito sommario di cognizione che l'azione civile contro la discriminazione di cui all'odierno art. 28 D.lgs. 150/2011 ha preso a scorrere in tempi più rapidi, giungendo talvolta all'esame della Corte di legittimità; che infatti ha già concluso quantomeno due «azioni civili contro la discriminazione» : uno in materia di prestazioni assistenziali agli stranieri (Cass., 3 luglio 2014, n. 15220) e il secondo in tema di ammissione degli stranieri al servizio civile, quest'ultimo definito parzialmente con una importante ordinanza delle Sezioni Unite di remissione alla Corte Costituzionale (Cass., ord., 1 ottobre 2014, n. 20661).

Si tratta di interventi numericamente ridottissimi, sicché – come si è detto - la vera elaborazione giurisprudenziale in tema di discriminazione resta appunto affidata ai giudici di merito. Ai quali talvolta, vicende apparentemente bagatellari offrono l'occasione di affrontare i nodi essenziali del diritto antidiscriminatorio. È il caso della “guerra di cartelli” che ha interessato una nota cittadina della Valsesia, ove il prosindaco della cittadina aveva dapprima fatto affiggere cartelli che vietavano l'ingresso ai “vu cumpra” e alle donne con burkini o burka; e poi, dopo essere stato convenuto avanti il Tribunale di Torino con azione antidiscriminatoria, aveva fatto affiggere altri cartelli che irridevano ai quattro ricorrenti del primo giudizio che il Tribunale di Torino aveva dichiarato carenti di legittimazione passiva (accogliendo invece sostanzialmente le domande proposte nel medesimo giudizio da una associazione) .

L'ordinanza del Tribunale di Vercelli (Trib. Vercelli, ord., 4 dicembre 2014) – che chiude questa seconda fase della vicenda incentrata sul carattere ritorsivo dei secondi cartelli - offre l'occasione per affrontare, tra le altre, almeno tre questioni chiave del diritto antidiscriminatorio.

Discriminazione, dignità umana e tassatività dei fattori

La prima attiene al fondamento del diritto stesso: un diritto capace di intervenire senza precludere l'esercizio della discrezionalità, ma solo pretendendo che le scelte (del pubblico o del privato) siano operate “neutralizzando” gli effetti di determinate condizioni e qualità personali e che, proprio per questo, ha guadagnato spazio e consensi in una società che sembra mal sopportare sistemi basati sulla imposizione di norme inderogabili.

Cosi impostato, il discorso sulla discriminazione è, prima di tutto, un discorso sull'uguaglianza o meglio sul divieto di disuguaglianze costruite attorno a fattori che la storia insegna essere particolarmente sensibili.

Ma, come ricorda il Giudice di Vercelli, il discorso sulla discriminazione è anche, più semplicemente, un discorso sulla dignità umana, sul diritto di ciascuno a essere considerato senza lo schermo del pre-giudizio, a non essere marchiato dallo stigma e a non subire un trattamento pregiudizievole per una qualità personale che – scelta o meno che sia – appartiene a quel nucleo identitario della persona che deve essere comunque tutelato.

Si spiegano solo così norme come quelle sul divieto di molestie e sul divieto di ritorsione che sono ricollegabili al tema della dignità personale, molto prima che al tema dell'uguaglianza.

Certo, una volta ricondotta la questione nell'ambito della dignità, si riapre prepotentemente il tema della tassatività o meno dei fattori protetti, che tanto appassiona gli esperti della materia, spingendo taluno a immaginare di ricondurre entro il discorso sulla discriminazione qualsiasi atto genericamente “arbitrario” e qualsiasi rapporto negoziale non sostenuto da una causa meritevole di tutela. In effetti la dignità umana cui fa riferimento l'art. 1 della Carta dei diritti fondamentali può essere violata anche laddove l'emarginazione o il pregiudizio tragga spunto da caratteristiche personali o appartenenza a gruppi diverse/i da quelle elencate nel diritto comunitario derivato (razza e etnia, genere, orientamento sessuale, convinzioni personali, disabilità, età, religione): sicché le due locuzioni «in particolare» e «ed ogni altra condizione» che accompagnano l'elencazione dei fattori protetti nell'art. 14 CEDU e nell'art. 21 della Carta aprono a una prospettiva di progressiva estensione del diritto antidiscriminatorio verso nuovi ambiti; con il rischio però che una apertura all'infinito delle situazioni protette ne attenui l'efficacia.

Discriminazione e ritorsione : i precedenti

Strettamente connesso al tema della “dignità” è la questione, anch'essa affrontata dal Tribunale di Vercelli, della tutela avverso la ritorsione.

La «protezione delle vittime» è istituto introdotto da molto tempo nel diritto antidiscriminatorio di matrice comunitaria (cfr. art. 9, Dir.2000/43; art.9, Dir. 2000/78; art. 17, Dir., 2006/54) ma ha avuto nel nostro ordinamento applicazione solo relativamente recente con l'introduzione degli artt. 4-bis D.lgs.n. 215/2003 e D.lgs. n. 216/2003. Nell'occasione, il legislatore italiano si è mostrato, una volta tanto, di manica larga, adottando una nozione di ritorsione ancora più ampia di quella prospettata dal legislatore comunitario, accordando la tutela antidiscriminatoria «nei casi di comportamenti, trattamenti o altre conseguenze pregiudizievoli posti in essere o determinati, nei confronti della persona lesa da una discriminazione diretta o indiretta o di qualunque altra persona, quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento».

La norma – a quanto risulta - aveva avuto in giurisprudenza solo tre applicazioni. Quella del caso bresciano ove il Comune, dopo aver subito la condanna a estendere un «bonus bebè» anche agli stranieri, lo aveva annullato sia per gli italiani che per gli stranieri, motivando sulla sopravvenuta impossibilità, a causa della pronuncia giudiziale, di perseguire la finalità di aiuto alle sole famiglie autoctone (il Tribunale, pronunciandosi prima in sede cautelare, poi in sede di reclamo e infine in sede di merito ha qualificato come ritorsivo l'annullamento, ordinando al Comune la riattribuzione del bonus a tutti i richiedenti, italiani e stranieri (cfr. Trib. Brescia, 12 marzo 2009; Trib. Brescia, 27 maggio 2009). Quella del “caso Adro” ove il Giudice – pur senza richiamare espressamente la tutela anti-ritorsiva - ha condannato la locale sezione di un partito politico per un cartello offensivo nei confronti di una sindacalista che aveva agito a tutela degli immigrati, (Trib. Brescia, 31 gennaio 2012). Infine, quella del Tribunale di Milano, (Trib. Milano, 27 maggio 2014, ove il Giudice aveva escluso la tutela sia perché il ricorrente non aveva in realtà svolto una effettiva attività a tutela della parità di trattamento, sia perché il materiale probatorio non aveva evidenziato un nesso causale tra la (modesta) attività di sostegno a una vittima di discriminazione e il pregiudizio subito (la revoca della carica di vicepresidente di una banca).

Ritorsione e “discriminazione associata”

La questione esaminata dal Tribunale di Vercelli è invece un'altra, assolutamente centrale per la ricostruzione dell'istituto: una volta escluso che la tutela sia approntata per le sole vittime della originaria discriminazione (non avrebbe altrimenti senso che vengano considerati i pregiudizi a carico di «qualunque altra persona») può legittimamente sorgere il dubbio che la tutela diventi eccessivamente ampia.

Probabilmente mosso da tale preoccupazione in precedenza il Tribunale di Milano - esaminando la medesima vicenda del Tribunale di Vercelli, ma su ricorso di altre due “vittime” dei medesimi cartelli che le rigide norme in tema di competenza territoriale avevano obbligato ad agire in fori separati - aveva interpretato la norma nel senso che la vittima della ritorsione deve essere quantomeno “collegata” alla vittima della discriminazione da un qualche legame, ad esempio di parentela. E poiché, come si è detto, il Tribunale di Torino, giudicando l'originaria azione contro la discriminazione, aveva escluso le legittimazione attiva dei due ricorrenti, il Giudice di Milano aveva ritenuto di poterli qualificare come «estranei alla vicenda discriminatoria» e per ciò solo impossibilitati ad invocare la tutela avverso le ritorsioni: in parole povere la norma anti-ritorsiva, pur non tutelando le sole vittime della discriminazione, estenderebbe la sua tutela ai soli soggetti a questi collegati.

In realtà così argomentando si finisce per sovrapporre alla nozione di ritorsione, quella di “discriminazione associata” che, a partire dalla sentenza CGUE, Coleman,17 luglio 2008, ha consentito di ammettere alla tutela antidiscriminatoria anche soggetti non appartenenti ai gruppi protetti, ma collegati ad essi da un legame significativo (nella citata sentenza Coleman la Corte ha ritenuto tutelata dalla Dir. 2000/78 la madre lavoratrice non disabile di un figlio disabile): in questa seconda prospettiva si pone effettivamente il problema di individuare quale intensità debba avere la connessione tra soggetto protetto e soggetto discriminato (per evitare una eccessiva dilatazione dei soggetti protetti dalle norme antidiscriminatorie). Del tutto diverso è il piano della ritorsione, ove la connessione da valutare è soltanto quella tra precedente azione «a tutela della parità di trattamento» (che ovviamente può essere promossa nelle forme più varie e anche da soggetti non appartenenti al gruppo discriminato) e pregiudizio subito.

Nel caso esaminato, l'indagine era di particolare facilità posto che il pregiudizio consisteva nell'aver dileggiato e oltraggiato i ricorrenti proprio in quanto attori di un precedente giudizio antidiscriminatorio: l'azione (se pure conclusasi con il rigetto delle loro domande per carenza di legittimazione attiva) vi era stata; il pregiudizio anche; il collegamento tra azione e pregiudizio era documentale e nasceva dallo stesso tenore dei cartelli e dalle stesse frasi di dileggio («siete dei suonatori suonati» perché il Giudice vi ha dato torto).

Ritorsione e rimedi alla disparità di trattamento: l'uguaglianza al rialzo?

In altri casi tuttavia la questione si pone in termini più complessi: si pensi al caso (esaminato ancora dal Trib. Brescia, 22 luglio 2010, Trib. Brescia, 15 ottobre 2010 e poi da App. Brescia, 31 gennaio 2013) di una pronuncia giudiziale estensiva del contributo affitti originariamente riservato (dal Comune di Adro) solo per i cittadini italiani: senza spingersi alla clamorosa revoca messa in atto dal Comune di Brescia l'amministrazione ben avrebbe potuto riproporzionare l'importo riconosciuto sulla base del più ampio numero di beneficiari, ma cosi facendo indubbiamente gli originari beneficiari avrebbero subito un «trattamento pregiudizievole» quale reazione (magari astrattamente legittima, ma si noti che la norma non si riferisce affatto alle sole «reazioni illegittime») ad una azione volta ad affermare la parità di trattamento.

Nel caso Adro, la Corte d'Appello, esclusa la ripetibilità delle somme a carico degli originari beneficiati, ha condannato l'amministrazione a erogare la medesima somma ai nuovi beneficiari (e non la somma derivante dal riproporzionamento, come sostenuto dall'amministrazione), facendo correttamente prevalere l'esigenza di un ripristino pieno ed effettivo della parità sulle accampate esigenze di bilancio dell'amministrazione, la quale semmai dovrà rivalersi sull'incauto amministratore.

Ma la “vicenda Adro” apre ulteriori interrogativi: non solo perché evidenzia che la gamma di «reazioni» che possono aversi a fronte di una «qualsiasi attività volta a ottenere la parità di trattamento» è quanto mai ampia, ma prima ancora perché rinvia al tema dei rimedi giudiziali alla discriminazione: se cioè questi debbano sempre consistere nella attribuzione pura e semplice del bene della vita che era stato negato sulla base di criteri discriminatori (l'affermazione si trova ad esempio in Trib. Brescia, 31 marzo 2011; Trib. Brescia, 19 gennaio 2010) o se detti rimedi siano volti esclusivamente al ripristino della parità, indipendentemente dal livello ove questa si colloca, ammettendosi così “reazioni” (apparentemente vietate dall'art. 4-bis) tali da ristabilire la condizione di uguaglianza a un livello più basso.

La funzione storica del diritto antidiscriminatorio, nato per consentire una diversa distribuzione dei beni a favore delle classi escluse; il carattere assoluto della tutela; e infine l'art. 4-bis cit., fanno propendere decisamente per la prima soluzione. D'altra parte la CGUE si è ripetutamente pronunciata in questo senso affermando che «l'osservanza del principio di uguaglianza può essere garantita solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata» (CGUE, sent. Molinari, 16 gennaio 2008).

Ma il tema è apertissimo, tanto che la stessa CGUE, dopo le pronunce citate, ha assunto posizioni più flessibili ammettendo che, purché siano rispettati i principi di diritto dell'unione, l'ordinamento comunitario «non osta a provvedimenti che ripristinino la parità di trattamento mediante riduzione dei vantaggi delle persone in precedenza favorite» (CGUE, sent. Landtova, 22 giugno 2011)

Il risarcimento “dissuasivo”

In stretta connessione con il tema dei provvedimenti giudiziari volti alla rimozione della discriminazione si pone un'ulteriore decisiva questione, anch'essa esaminata dal Tribunale di Vercelli, quella cioè del risarcimento del danno.

La decisa apertura della norma positiva (dapprima l'art. 4 D.lgs. n. 215/2003 e 216/2003, poi l'art. 28 D.lgs.n. 150/2011) al riconoscimento del danno non patrimoniale – cioè del vero e proprio “danno da discriminazione” - non era, a rigore, strettamente necessaria, posto che, stante la natura del bene tutelato, un ristoro in questo senso ben poteva essere riconosciuto anche a prescindere dalla esistenza di una norma specifica. Cionondimeno l'esistenza di uno specifico riferimento normativo, rafforza indubbiamente l'esigenza di un simile rimedio; questo – vertendosi qui in tema di diritti a fondamento comunitario - dovrà inevitabilmente passare al vaglio dei notissimi quattro cavalieri dell'apocalisse che presidiano la violazione di norme comunitarie: effettività, proporzionalità, dissuasività e equivalenza.

Le rassegne giurisprudenziali suggeriscono che, pur a fronte di una mole significativa di azioni antidiscriminatorie, nella quasi totalità dei casi le domande risarcitorie, ove formulate, vengano liquidate sbrigativamente sotto il profilo della “assenza di prova”.

Va peraltro anche considerato che la stragrande maggioranza del contenzioso antidiscriminatorio afferisce a atti commessi dalle pubbliche amministrazioni laddove l'erronea opinione di doversi attenere ad una norma di legge nazionale, anziché a una norma comunitaria o comunque sovraordinata (ad es. in tema di accesso dello straniero al pubblico impiego, alle prestazioni sociali ecc.) sembra escludere quell'elemento soggettivo che, irrilevante ai fini della discriminazione, resta pur sempre rilevante ai fini della responsabilità risarcitoria: si differenziano in questo quadro solo Trib. Padova, 30 luglio 2010, che ha correttamente fatto riferimento alla «colpa di apparato» per attribuire un risarcimento del danno “da discriminazione” per il mancato approntamento di insegnamenti alternativi alla religione cattolica - nonché alcune pronunce avverso il MIUR in tema di discriminazione del disabile per mancato riconoscimento del sostegno scolastico agli alunni disabili; cfr. Trib. Milano, 12 marzo 2014; Trib. Monza, 13 febbraio 2014).

Questa prevalenza della c.d. “discriminazione istituzionale” ha indubbiamente inciso sulla scarsità di pronunce che riconoscano il risarcimento del danno non patrimoniale da discriminazione. Ma ancor di più hanno inciso il timore (o il terrore) di incrociare il tema del danno punitivo e la tendenza a risolvere la questione guardando esclusivamente alla vicenda del danneggiato piuttosto che all'esigenza dissuasiva nei confronti del danneggiante.

Le eccezioni si contano sulla punta delle dita: si veda ad es. Trib. Bergamo, 8 agosto 2014 (confermata da App. Brescia, 11 dicembre 2014) che – proprio valorizzando il profilo dissuasivo – ha riconosciuto 10.000 euro a una associazione per la tutela dei diritti degli omosessuali che aveva agito in giudizio per contestare le affermazioni discriminatorie di un noto avvocato circa la sua indisponibilità ad assumere personale o collaboratori omossessuali; o ancora Trib. Brescia, 10 gennaio 2013 che, all'esito del giudizio di merito nella vicenda “bonus bebè” di cui si è detto, ha riconosciuto – oltre al danno patrimoniale – 2.500,00 euro per ogni discriminato e 7.500,00 euro all'associazione che aveva promosso il ricorso; o ancora Trib. Roma, 27 maggio 2013, che ha riconosciuto 7.500,00 euro un Rom che si era visto illegittimamente “schedato” nell'ambito degli interventi della cd. “emergenza Rom” poi dichiarati illegittimi dalla Cassazione.

Il “danno dissuasivo” da abuso del contratto a termine

Sulla timidezza giurisprudenziale ha tuttavia fatto ingresso la vicenda del contratto a termine nel pubblico impiego che certamente rappresenta uno dei casi più clamorosi e evidenti di risarcimento del danno dissuasivo “imposti” dalla Corte di Giustizia.

Dopo innumerevoli pronunce circa l'obbligo degli Stati membri di prevedere - in assenza della sanzione della conversione in contratto a tempo indeterminato - una sanzione che abbia i requisiti sopra richiamati, è intervenuta infatti, proprio a partire dal caso italiano (CGUE, ord., 12 dicembre 2013, nella causa C-50/13, c.d. caso Papalia). Nella decisione la Corte, proprio facendo leva sull'esigenza di dissuasività, ha sganciato il diritto al risarcimento del danno (da utilizzo abusivo dei contratti a termine) dall'obbligo di «di fornire la prova di aver dovuto rinunciare a migliori opportunità di impiego, se detto obbligo ha come effetto di rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio, da parte del citato lavoratore, dei diritti conferiti dall'ordinamento dell'Unione». Una scelta che - collocando ancor più decisamente il risarcimento nell'ambito della dissuasione e non del ristoro dell'effettivo pregiudizio - imporrà uno sfondamento - forse definitivo - del muro del danno punitivo.

D'altra parte il diritto positivo antidiscriminatorio è pioniere in questo senso, se consideriamo che già nel 2003 l'art. 4 D.lgs. n. 215/2003 prevedeva che «Il giudice tiene conto, ai fini della liquidazione del danno di cui al comma 4, che l'atto o il comportamento discriminatorio costituiscono ritorsione ad una precedente azione giudiziale ovvero ingiusta reazione ad una precedente attività del soggetto leso volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento»: con il che veniva imposta una maggiorazione - ora applicata per la prima volta proprio dal Tribunale di Vercelli - che guarda non alla lesione del danneggiato (che ovviamente potrebbe essere identica sia in caso di discriminazione che in caso di ritorsione) ma esclusivamente al comportamento del danneggiante.

In altre parole, la ritorsione non solo deve costare, ma deve costare in quanto tale, indipendentemente dalla gravità dei suoi effetti.

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