La claims made è salva! (ma non troppo......)

Maurizio Hazan
20 Maggio 2016

Aleggiava una qualche apprensione, tra gli operatori del diritto, a proposito di quel che le Sezioni Unite avrebbero statuito sulla validità, o meno, della clausola claims made.
La rimessione al consesso plenario era giustificata – a ragione – dalla massima importanza della questione: si trattava di verificare la “tenuta”, sul piano legale, di un modello di assicurazione della responsabilità civile che è da tempo invalso nella prassi, sino a divenire il vero e proprio prototipo di garanzia delle responsabilità in ambito professionale.
I termini della questione e i timori della vigilia

Aleggiava una qualche apprensione, tra gli operatori del diritto, a proposito di quel che le Sezioni Unite avrebbero statuito sulla validità, o meno, della clausola claims made.
La rimessione al consesso plenario era giustificata – a ragione – dalla massima importanza della questione: si trattava di verificare la “tenuta”, sul piano legale, di un modello di assicurazione della responsabilità civile (quello costruito attorno alla richiesta risarcitoria del danneggiato e non – o almeno non solo - sulla commissione del fatto generatore di responsabilità da parte dell'assicurato) che è da tempo invalso nella prassi, sino a divenire il vero e proprio prototipo di garanzia delle responsabilità in ambito professionale. Pacificamente ammesso nella legislazione d'oltralpe (Loi n. 2002-1577 du 30 décembre 2002 c.d. Loi About, che prevede un modello denominato «base réclamation avec reprise du passé inconnu»), il modello claims ha invece conosciuto, tra i nostri giudici ed interpreti, fortune alterne, passando da riconoscimenti incondizionati a severissime censure.

Tra queste ultime, vi era quella che propugnava la nullità della clausola perché eccentrica rispetto al modello causale dell'art. 1917 c.c. (incentrato sullo schema dell'act committed). Quella che la considerava alla stregua di una decadenza convenzionale, in quanto tale invalida (ex art. 2965 c.c.). E, ancora, quella che ne affermava la vessatorietà, in quanto limitativa della garanzia contrattualmente assunta dall'assicurato (per una ricognizione sullo stato dell'arte si veda F. Lapenna, Clausola Claims Made, in Ri.Da.Re.).

Ma soprattutto – pesante come un macigno – vi era la pregiudiziale espressa da un filone giurisprudenziale animato da uno dei più fini interpreti della magistratura di legittimità, Marco Rossetti, secondo il quale la clausola claims made avrebbe dovuto considerarsi nulla ai sensi dell'art. 1895 c.c., in quanto tesa ad assicurare un rischio non effettivo ma putativo (e perciò a garantire, in modo retroattivo, potenziali sinistri i cui antecedenti causali, niente affatto aleatori, si sarebbero verificati prima della stipula). Tale orientamento trovava esplosiva affermazione in una recente sentenza della Suprema Corte (Cassazione civ., sez. III, 13 marzo 2014, n. 5791- Pres. Russo - Rel. Rossetti) volta a stigmatizzare, senza sfumature, la necessità che il rischio – per poter esser validamente assicurato - rimanga effettivamente ed oggettivamente tale dopo la stipula del contratto.

Insomma, i timori della vigilia erano molti e ben giustificati, atteso che il modello claim è ritenuto dal mercato come l'unico davvero sostenibile (in concreto ed in termini attuariali e bilancistici) nell'ambito delle così dette sinistrosità lungolatenti(quelle cioè in cui il danno, e la conseguente richiesta risarcitoria, possono scaturire e comunque rivelarsi anche a distanza di anni dalla condotta del responsabile).

E quindi?

La clausola claims made, in sé e per sé considerata non è nulla, né vessatoria.

Dissolte le coltri, le Sezioni Unite “sgonfiano” – almeno in apparenza e sul piano teorico - il problema, rigettando in modo rotondo e netto ciascuna delle tesi sollevate a sostegno della pretesa nullità assoluta della clausola.
E più precisamente, nella sentenza in commento (Cass., 6 maggio 2016, n. 9140, v. F. Rosada, Claims made “impura” e RC professionale: un connubio in crisi, in Ri.Da.Re.) affermano che:

  • la clausola claims non implica alcuna decadenza convenzionale, in quanto non subordina affatto l'esercizio di un diritto ad una determinata condotta del titolare ma, molto più semplicemente, «consente o preclude l'operatività della garanzia in dipendenza dell'iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all'indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso».
  • la clausola claims non è vessatoria, in quanto non integra alcuna limitazione di responsabilità dell'assicuratore, rispetto agli obblighi da questi assunti in polizza. Nell'ambito dell'assicurazione della responsabilità civile, il sinistro “indennizzabile” (e quindi il costo della chiamata in responsabilità....) «è collegato non solo alla condotta dell'assicurato danneggiante, ma altresì alla richiesta risarcitoria avanzata dal danneggiato, essendo fin troppo ovvio che ove al comportamento lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, nessun diritto all'indennizzo - e specularmente nessun obbligo di manleva insorgeranno a favore e a carico dei soggetti del rapporto assicurativo». La richiesta risarcitoria costituisce, dunque, elemento fondante l'operatività della garanzia (al di là della possibilità per l'assicuratore di gestire la lite in prevenzione ed in assenza di claim, anche ai sensi dell'art. 1914 c.c.): ragion per la quale l'inserimento in contratto di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito dall'epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva, si inscrive a pieno titolo nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, entro i quali, a norma dell'art. 1905 c.c., l'assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall'assicurato

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    E pertanto, la clausola claims, mirando a circoscrivere (così dice la Corte, meglio sarebbe dire ad individuare) l'ambito della garanzia, è rivolta, in definitiva a stabilire quali siano, rispetto all'archetipo fissato dall'art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l'oggetto del contratto, piuttosto che la responsabilità;
  • la clausola claims non costituisce, dipoi, inaccettabile deviazione dallo schema causale tipico dell'art. 1917 c.c.; spostare il fuoco dal rischio di responsabilità in sé e per se considerato al rischio di subire una richiesta risarcitoria nel periodo di copertura integra certamente qualcosa di diverso rispetto alla proposizione codicistica (fondata sul modello act committed): ma tale proposizione, stante la chiara previsione dell'art. 1932 c.c., non rientra tra le disposizioni ex lege inderogabili; «Il che, in via di principio, consente alle parti di modulare, nella maniera ritenuta più acconcia, l'obbligo del garante di tenere indenne il garantito "di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione", deve pagare a un terzo».
  • quanto poi alla censura più insidiosa, quella relativa alla nullità della clausola ai sensi dell'art. 1895 c.c. (stante la pretesa inassicurabilità del rischio pregresso), le Sezioni Unite non avrebbero potuto essere più nette: la clausola claims non tradisce l'alea tipica del contratto assicurativo né il principio secondo il quale possa essere assicurato soltanto un rischio futuro ed incerto. Ben diversamente «l'estensione della copertura alle responsabilità dell'assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto non fa venir meno l'alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento del raggiungimento del consenso le parti (e, in specie, l'assicurato) ne ignoravano l'esistenza, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 c.c., per le dichiarazioni inesatte o reticenti.” Tanto più che il rischio sotteso all'assicurazione di responsabilità si concretizza progressivamente, “perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento

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    E poiché la clausola claims made opera sul “pregresso” in relazione ad una sola delle due componenti di rischio (la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata), rimane perfettamente intatta – e quindi certamente conforme alla causa assicurativa - l'alea insita nel rischio che a quella condotta faccia, o meno, seguito una richiesta risarcitoria da parte dell'avente diritto.
  • Il fatto poi che il nostro ordinamento conosca il rischio putativo (art. 514 Cod. Navigazione) è considerato dalle Sezioni Unite, elemento di sostegno (e non di contrasto) alla legittimità della clausola in questione (non essendovi motivo di considerare quella norma come eccezionale).

A parere di chi scrive del resto, non vi è dubbio che, almeno in termini generali, il concetto di rischio possa essere dalle parti contrattualmente definito e modulato in relazione a quanto dalle stesse possa essere ragionevolmente percepito ed apprezzato in termini di alea. Certo, le parti medesime non dovrebbero poter dedurre in polizza posizioni di danno già concretatesi in ogni loro componente e tali da escludere la stessa configurabilità di qualsiasi elemento di incertezza. Ma ciò non equivale a dire che si debba, sempre e comunque, pretendere – al contrario - un'assoluta certezza circa la mancanza, al momento della stipula, di antecedenti causali che, non appalesatisi e magari neppure percepibili “naturalisticamente”, potrebbero in futuro dar luogo alla produzione di un danno (o di una sua componente). Quel che occorre è che, al momento dell'assunzione di un rischio in garanzia, lo stesso – per come contrattualmente definito – sia percepito dalle parti, secondo un ragionevole apprezzamento logico, storico e causale, come futuro ed incerto, lasciando margini di alea in ordine all'an, al quando od anche al quomodo dell'eventuale sinistro (a nulla rilevando - di per sé - che, sul piano della causalità giuridica e di fatto, determinati suoi antecedenti etiologici potrebbero già essersi realizzati). Ed a riprova che i presupposti causali di un determinato rischio potrebbero ben essersi tutti verificati all'atto della stipula, purché ignoti alle parti, vi è la stessa indicazione del codice civile, ed in particolare dell'art. 1906 c.c. a mente del quale il danno prodotto da un vizio intrinseco della cosa assicurata (e quindi da un vizio ontologicamente preesistente alla stipula di una polizza a copertura del danno alla cosa medesima) può essere assicurato anche laddove il vizio non sia stato denunziato all'assicuratore, purché le parti abbiano espressamente pattuito tale estensione di copertura (altrimenti esclusa).

Rimane il fatto che le Sezioni Unite spazzano in un sol colpo gli argomenti in forza dei quali una certa dottrina ed una pur qualificata giurisprudenza avevano ritenuto di poter ripudiare – in se è per sé, e già a livello di principio – la clausola claims.

Lo scrutinio del caso concreto, tra possibili nullità parziali, relative e violazioni degli obblighi di correttezza e buonafede nella collocazione del prodotto

Ciò tuttavia non esaurisce i termini della questione, e la Suprema Corte ne è consapevole. Può infatti accadere che una polizza claims made non sia adeguata alle esigenze di rischio dell'assicurato (che potrebbe non esser stato neppure correttamente informato dell'effettiva peculiarità della copertura, come del resto sarebbe avvenuto, secondo il ricorrente, nel caso dedotto in giudizio). Può darsi, poi, che nella sua declinazione concreta la garanzia si riveli estremamente, ed inaccettabilmente, ristretta, quanto a paradigma di copertura, al punto tale da far addirittura venire meno il naturale rapporto di corrispettività tra premio e prestazione promessa (si pensi al caso alla polizza con pregressa illimitata contratta da un professionista esordiente, secondo l'esempio testualmente riportato nella sentenza).

Insomma, ci potremmo trovare innanzi ad un prodotto assicurativo:

  • mal collocato, in quanto venduto senza fornire al contraente le dovute 
informazioni;
  • mal strutturato, in quanto, modulato in modo eccessivamente restrittivo e 
tale da ingenerare un giudizio di “immeritevolezza” della clausola per aver fatto venir meno il rapporto di naturale corrispettività tra prestazione attesa e pagamento del premio. 
Tali profili vengono indagati dalla Cassazione muovendo da un assunto (o forse da un pregiudizio) non del tutto condivisibile: quello secondo il quale, alla fine, la claim favorisce l'impresa assicurativa - consentendole di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni (con quel che ne consegue, tra l'altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere). In verità, la clausola claims non è sempre, necessariamente, sbilanciata, potendo produrre effetti benefici anche per l'assicurato: così, nel caso delle c.d. “clausole pure”, egli può beneficiare della manleva da tutte le richieste risarcitorie ricevute nel periodo di efficacia della polizza anche se riferite a vicende pregresse. D'altra parte, i modelli act committed o loss occurrence hanno il difetto di riferirsi ad un massimale che, nel corso degli anni, potrebbe rivelarsi anacronistico, rispetto al mutato valore del danaro al tempo della richiesta.

A prescindere da tali considerazioni, le Sezioni Unite condividono l'opinione secondo la quale, nella loro concreta immissione sul mercato, le polizze claims potrebbero, al ricorrere di determinate circostanze, mettere in ambasce l'assicurato, lasciandolo esposto a situazioni di rischio dalle quali avrebbe invece voluto garantirsi.

In tal caso, tuttavia, non si dovrebbe parlare di nullità della clausola, ma di responsabilità risarcitoria dell'impresa, o dell'intermediario (o di annullamento del contratto per vizio della volontà, ricorrendone i presupposti) per aver collocato un prodotto non adatto alle esigenze dell'assicurato, violando i canoni della correttezza e della buona fede e – comunque – senza aver rispettato gli obblighi di informativa e di adeguatezza presidiati dal nostro ordinamento di settore. La questione è, dunque, di merito, da verificarsi volta per volta in relazione alle specificità del caso concreto e – ove scrutinata con cura ed adeguatamente motivata - insindacabile in sede di legittimità.

Più complesso il secondo profilo di critica (quello afferente alla “immeritevolezza” della clausola), anch'esso peraltro non steso in termini generali ma soltanto potenziali, in quanto da sindacarsi in funzione della specificità delle singole previsioni dei singoli contratti e «con riferimento...alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell'interprete». Qui le Sezioni Unite svolgono un ragionamento meno lineare, sino ad affermare che la deroga dal modello tipico di cui all'art. 1917 c.c., di per sé possibile, deve comunque tendere alla realizzazione di «interessi meritevoli di tutela», giusta la formula fatta propria dall'art. 1322 c.c.. Al riguardo, ribadendo l'impossibilità di fornire risposte univoche ed universali, la Cassazione afferma che «la prospettazione dell'immeritevolezza è, in via di principio, infondata con riferimento alle clausole c.d. pure, che, non prevedendo limitazioni temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell'epoca di commissione del fatto illecito»dal momento che non solo restringono ma anche allargano a dismisura il paradigma del rischio assicurato. Assai meno agevole sarebbe, invece, la valutazione delle clausole «c.d. impure, a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell'assicurazione, intervengano sia il sinistro che la richiesta di risarcimento», il cui effettivo ambito di operatività, in funzione del premio pagato, dovrebbe, secondo il Supremo Collegio, entrare «nella griglia valutativa della meritevolezza».

E se, alla fine, il giudice ritenesse la clausola effettivamente non meritoria, ci troveremmo fuori dall'area della mera scorrettezza comportamentale presidiata dalla sola tutela risarcitoria, bensì davanti ad una distorsione che non potrebbe «non avere carattere reale, con l'applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile, e cioè della formula loss occurence». E ciò tanto «sull'abbrivio degli spunti esegetici offerti dall'art. 1419 c.c., comma 2, nonchè del principio, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall'art. 2 Cost., (...) consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto»(cfr. Cass. civ., 18 settembre 2009, n. 20106; Cass., Sez. Un., 13 settembre 2005, n. 18128). Insidioso, a parere di chi scrive, e foriero di dubitevole derive interpretative/applicative, il principio in forza del quale il giudice potrebbe – utilizzando quella specie di lasciapassare universale che sembra dato dall'art. 2 Cost. – liberamente stravolgere il contenuto del contratto in nome di una regola di contemperamento che potrebbe superare le intenzioni esplicitate dalle parti in sede negoziale. E difficilmente comprensibile il riferimento all'art. 1419, comma 2, c.c. che si riferisce a norme imperative (laddove, invece, la stessa Cassazione aveva espressamente escluso che lo schema ordinario dell'art. 1917 c.c. potesse rientrare tra quelle, trattandosi di norma pacificamente derogabile.

Ma a prescindere da tali claudicanze motivazionali, quel che più conta è rilevare come secondo le Sezioni Unite, sopravvivano comunque, e in ultima analisi, gli spazi per una censura, anche di nullità, della clausola claims: non in termini generali ma da valutarsi caso per caso (e, aggiungiamo noi, con un certo rigore...) a seconda della complessiva e concreta regolazione del paradigma di operatività del contratto. E di nullità relativa della clausola potrebbe ancora parlarsi laddove la stessa, ancora una volta nel contesto generale della proposizione di polizza, desse luogo a quel «significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto» presidiato dalla nullità di protezione di cui al D.Lgs. n. 206/2005, art. 36. Ipotesi certamente residuale, nel settore che ci occupa, essendo circoscritta alla disciplina consumeristica, nell'ambito della quale, peraltro, lo scrutinio di validità affidato all'interprete del singolo caso dovrebbe, secondo la Cassazione, esser diretto ad assicurare protezione al contraente debole e perciò «attestarsi su una soglia di incisione dell'elemento causale più bassa rispetto a quella necessaria per il positivo riscontro dell'immeritevolezza, affidato ai principi generali dell'ordinamento».

Ora, il fatto che le Sezioni Unite, pur sdoganando la legittimità sostanziale della clausola claims, continuino a ravvisare residui spazi per una sua declaratoria di invalidità (o comunque per un'indagine circa l'esistenza di responsabilità risarcitorie correlate allo scorretto collocamento del prodotto) non costituisce, secondo noi, un retaggio del passato od una antinomia rispetto all'impostazione di partenza. Prevale, quale elemento di fondo che anima la sentenza, la volontà di affermare la tenuta del modello claims e la validità della clausola sul piano generale, ponendola al riparo dalle critiche sistematiche sopra passate in rassegna e limitando gli spazi di censura al ricorre di eventuali patologie del caso concreto.

In realtà, il possibile fattore di crisi che rischia di vanificare - in buona parte ed in concreto - l'opera di salvataggio della clausola risiede altrove.

Un attentato al sistema: l'incompatibilità della Claims made nell'assicurazione obbligatoria dei professionisti e della sanità

Molto, ma davvero molto, più significativa risulta invero l'ultima conclusione a cui pervengono le Sezioni Unite occupandosi della sostanziale incompatibilità del modello claims made rispetto allo schema dell'assicurazione obbligatoria della responsabilità (professionale), ove stipulata anche nell'interesse del danneggiato (cliente).

Come già in passato abbiamo avuto modo di rilevare, il sistema delle assicurazioni obbligatorie dei professionisti, incentrato sull'art. 3, comma 5, lett. e), D.l. n. 138/2011, si fonda, quale granitico presidio, sulla finalità prioritaria di “tutela del cliente” (del paziente, nella responsabilità medica). E se è l'interesse del cliente (potenzialmente danneggiato) a costituire primo oggetto dei nuovi obblighi assicurativi (prima ancora che l'interesse del responsabile a non veder aggredito il proprio patrimonio...) è evidente che la relativa garanzia deve esser strutturata in modo tale da garantirgli una copertura integrale dai rischi di danno subiti ad opera del professionisti durante lo svolgimento dell'incarico (vedi Hazan, Osservatorio di Diritto e Pratica dell'assicurazione, n 1/2013). Il che significa che una polizza con formula claims made, potenzialmente favorevole al professionista, potrebbe non essere affatto funzionale alla miglior protezione del cliente, il cui diritto risarcitorio dovrebbe essere garantito soprattutto nel tempo, attraverso una copertura postuma o loss che si attiva lungo l'arco – almeno – del termine prescrizionale previsto per la relativa azione.

Il professionista, perciò, non potrà adempiere l'obbligo assicurativo ricorrendo a coperture incomplete o ad una sola polizza che, ad esempio strutturata secondo il modello claims made, lasci scoperti ambiti di garanzia che invece dovrebbero essere contrattualmente cautelati: un modello congegnato, con clausola di ripresa del passato sconosciuto e con garanzia postuma limitata, potrebbe rivelarsi di sufficiente conforto per il professionista, ma non soddisferebbe integralmente le esigenze di protezione del paziente.

Orbene, sviluppando analoghe considerazioni, le Sezioni Unite, dopo aver segnalato l'incongruenza della previsione di un obbligo per il professionista di assicurarsi non accompagnata da un corrispondente obbligo a contrarre in capo alle società assicuratrici, finisce per affermare che «il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura». Qui – stigmatizza la Corte - sono in gioco non tanto, o non solo, i rapporti tra compagnia e assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo «essendo stato quel dovere previsto nel preminente interesse del danneggiato, esposto al pericolo che gli effetti della colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della stessa, definitivamente a suo carico».

Non è chiaro, peraltro, quali siano le conseguenze di tale inidoneità/incompatibilità. Potrebbe, forse, incidere sul giudizio di meritevolezza – di cui si è fatto cenno poc'anzi - sino a condurre alla nullità della clausola (e riportare il contratto nell'alveo della loss)? O si potrebbe, più generalmente, affermare che la stipula di una polizza con clausola claims costituisca, per il professionista, violazione del proprio obbligo di legge (con possibile esposizione a sanzione disciplinare ma senza ricadute sulla validità della clausola)? Ed ancora, il cliente, terzo danneggiato, che si trovasse ad agire contro un professionista non adeguatamente assicurato (proprio in relazione ai limiti di copertura propri del regime claims made) potrebbe forse agire direttamente contro l'impresa assicuratrice (o contro l'intermediario collocatore) imputandogli di aver vulnerato, attraverso la vendita di una polizza non adeguata, la propria aspettativa di garanzia lungo tutto l'arco temporale di sopravvivenza del proprio diritto risarcitorio?

Trattasi, all'evidenza, di questioni estremamente complesse, non esauribili nello spazio della presente trattazione.

Quel che risulta di solare rilievo è il fatto che la Cassazione – dopo aver sancito, a livello di principio, la resistenza della clausola claims a tutte le critiche sin qui rivoltele – finisca per depotenziarla fortemente proprio nel settore in cui la stessa conosce maggior diffusione (quello delle polizze della responsabilità professionale).

In questo senso, peraltro, il Supremo consesso lancia un fulminante monito agli operatori del diritto e agli stessi estensori della decretazione attuativa, invitando entrambi a tener conto della segnalata incompatibilità «al momento della stipula delle "convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti", nonché in sede di redazione del decreto presidenziale chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l'idoneità dei relativi contratti».

Non crediamo, peraltro, che la questione possa esser risolta “trasversalmente” attraverso l'introduzione (come sembra volersi fare nel campo dell'assicurazione della responsabilità sanitaria) della regola dell'inopponibilità al danneggiato delle eccezioni fondate sul contratto, quale naturale complemento di una eventuale azione diretta. Tale regola, mutuata dalla rc auto, avrebbe, sì, l'effetto di rendere il cliente/paziente insensibile alle clausole di polizza: ma è dubitevole che tra queste ultime, assoggettate al regime dell'inopponibilità, vi siano anche quelle che sanciscono (non tanto limitazioni di una prestazione comunque ricompresa nell'ambito di operatività della garanzia quanto) la vera e propria demarcazione tra ciò che rientra nell'alveo della copertura e ciò che invece ne è radicalmente escluso.

L'argomento è di devastante attualità, implicando evidenti ricadute anche sull'imbastitura dei nuovi modelli di assicurazione obbligatoria in sanità, oggi in fase di definitiva elaborazione sull'onda propulsiva del D.d.l. Gelli, di cui si attende, a breve, la trasformazione in legge.

A ben vedere, dunque, la “rotonda” vittoria della Claims made sulle tesi che avrebbero voluto sancirne la fine, rischia di derubricarsi in un'asfittica affermazione di principio, laddove risultasse davvero inapplicabile al settore delle assicurazioni delle responsabilità professionali.

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