La claims made: tra liceità e meritevolezza, quanti problemi per gli operatori del diritto, il legislatore e le associazioni di categoria

Marco Rodolfi
20 Giugno 2016

In questo Focus, dopo aver esposto le questioni sollevate dalla dottrina e dalla giurisprudenza in tema di liceità o meno della clausola c.d. claims made nel nostro ordinamento giuridico, si illustrano i criteri posti a fondamento della decisione delle Sezioni Unite in materia, terminando la trattazione con l'esposizione delle problematiche pratiche che le conclusioni assunte dalla Suprema Corte tuttavia comportano per gli operatori del diritto e per il Legislatore.
La questione della liceità o meno della clausola claims made

Gli operatori del diritto da tempo discutevano circa la liceità o meno della clausola c.d. claims made.

La questione ha assunto un'importanza fondamentale alla luce del fatto che praticamente tutte le polizze per la responsabilità civile professionale esistenti attualmente nel mercato assicurativo hanno assunto tale forma, abbandonando la forma c.d. loss occurrence.

In altre parole, mentre in passato le polizze a copertura della responsabilità civile adottavano il modello tipico previsto dall'art. 1917 c.c., denominato loss occurrence, o ad insorgenza del danno, con garanzia di tutte le condotte, generatrici di domande risarcitorie, insorte nel periodo di durata del contratto, attualmente il contratto di assicurazione per la responsabilità civile dei professionisti adotta lo schema della c.d. clausola claims made (a richiesta fatta), che si caratterizza per il fatto che la copertura è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. sunset clause).

Tale “riforma” dell'assicurazione della responsabilità civile è stata attuata per volontà esclusiva delle Compagnie di Assicurazione che, mutuando tale schema dall'estero (ed in particolare dal mercato anglosassone), hanno avuto indubbi vantaggi, riassunti anche nella decisione delle Sezioni Unite oggetto del presente Focus, laddove si spiega che l'introduzione della polizza c.d. claims made: «circoscrivendo l'operatività della assicurazione a soli sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all'assicurato il risarcimento del danno subito, e il danneggiato assicurato ne dia comunicazione alla propria compagnia perché provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l'altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere».

La questione circa la liceità o meno di tale clausola, in realtà, nasce dal fatto che, nella prassi, le clausole c.d. claims made sono di due tipi, perfettamente riassunti dalle Sezioni Unite:

  1. clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all'assicurato e da questi all'assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.
  2. clausole c.d. miste o impure, che prevedono l'operatività della copertura assicurativa solo quando tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi, alle condotte poste in essere anteriormente (in genere due o tre anni dalla stipula del contratto).

Orbene, mentre per le clausole pure non sono mai invero sorte questioni, in quanto garantiscono integralmente e pienamente l'assicurato, per le c.d. clausole miste o impure non può certo dirsi altrettanto, in quanto l'assicurato corre il serio rischio, tenuto conto dei termini di prescrizioni previsti per le azioni risarcitorie dei terzi nei confronti dei professionisti, soprattutto in ipotesi di “passaggio” da una Compagnia di Assicurazione ad un'altra (cioè di cambio della propria impresa di assicurazione per la RCTerzi), di avere dei buchi di copertura assicurativa a seconda dei periodi di retroattività previsti dalle polizze succedutesi nel tempo.

Nella vicenda in esame alle Sezioni Unite, non per nulla, ci si è trovati di fronte ad una vicenda di medicalmalpractice in cui mentre il Tribunale di Roma accoglieva la domanda risarcitoria promossa da un paziente nei confronti di un'Azienda Ospedaliera nonché la domanda di manleva proposta da quest'ultima nei confronti delle proprie compagnie assicurative, la Corte d'Appello di Roma riformava la decisione respingendo la domanda di manleva sulla scorta dell'esistenza proprio di una clausola c.d. claims made “mista” inserita in polizza (la garanzia infatti operava solo per le istanze risarcitorie presentate per la prima volta nel periodo di efficacia dell'assicurazione, purché il fatto che aveva originato la richiesta fosse stato commesso nello stesso periodo o nel triennio precedente alla stipula) e ritenuta dalla Corte capitolina perfettamente valida e non vessatoria.

La struttura ospedaliera impugnava la decisione ritenendo la clausola in questione vessatoria (con conseguente necessità di specifica sottoscrizione, nella specie mancante), e comunque nulla, sia ex art. 2965 c.c., che per contrarietà ai principi di correttezza e buona fede, con ciò riassumendo in pratica le posizioni di quella parte della dottrina e della giurisprudenza che da sempre hanno mosso tali censure alla predetta clausola.

Il Primo Presidente, ritenendo le questioni “di massima importanza” ha rimesso la vicenda alle Sezioni Unite.

Le ragioni delle Sezioni Unite poste a fondamento della propria decisione di considerare la clausola lecita e non vessatoria

Le Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., sent., 6 maggio 2016, n. 9140) hanno deciso di respingere il ricorso promosso dall'Azienda Ospedaliera spiegando analiticamente e dettagliatamente per quali ragioni la polizza di assicurazione della responsabilità civile nella forma c.d. claims made deve considerarsi non solo perfettamente lecita ma neppure vessatoria (v. anche F. Rosada, Claims made “impura” e RC professionale: un connubio in crisi; M. Hazan, La claims made è salva! (ma non troppo......), in Ri.Da.Re.).

La motivazione è stata analitica e dettagliata, vagliando in pratica tutte le ragioni contrarie a tale impostazione delle polizze esposte sino ad oggi dalla dottrina e dalla giurisprudenza

In primo luogo, secondo le Sezioni Unite, deve essere respinta la tesi della nullità della clausola claims made per contrarietà al disposto dell'art. 2965 c.c. (Decadenze stabilite contrattualmente: «È nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l'esercizio del diritto»), in quanto: «deve escludersi che la limitazione della copertura assicurativa alle “richieste di risarcimento presentate all'Assicurato, per la prima volta, durante il periodo di efficacia dell'assicurazione”, in relazione a fatti commessi nel medesimo lasso temporale o anche in epoca antecedente, ma comunque non prima di tre anni dalla data del suo perfezionamento, integri una decadenza convenzionale, soggetta ai limiti inderogabilmente fissati nella norma codicistica di cui si assume la violazione».

L'istituto dell'art. 2965 c.c.: «implicando la perdita di un diritto per mancato esercizio dello stesso entro il periodo di tempo stabilito, va inequivocabilmente riferito a già esistenti situazioni soggettive attive nonché a condotte imposte, in vista del conseguimento di determinati risultati, a uno dei soggetti del rapporto nell'ambito del quale la decadenza è stata prevista. Invece la condizione racchiusa nella clausola in contestazione consente o preclude l'operatività della garanzia in dipendenza dell'iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all'indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso».

Non vi è proprio spazio, pertanto: «per una verifica di compatibilità della clausola con il disposto dell'art. 2965 c.c.».

Dobbiamo dire che, peraltro, tale tesi, alquanto ardita giuridicamente, non aveva trovato molto seguito né in dottrina né in giurisprudenza.

Le Sezioni Unite, in ogni caso, proseguono nell'analisi delle problematiche inerenti la clausola claims made, ritenendo infondata anche: «la deduzione di nullità per asserito contrasto della previsione pattizia con le regole di comportamento da osservarsi nel corso della formazione del contratto e nello svolgimento del rapporto obbligatorio» (vedi artt. 1175, 1366, 1374 1375 c.c.).

Difatti: «la violazione di regole di comportamento ispirate a quel dovere di solidarietà che, sin dalla fase delle trattative, richiama “nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”, secondo l'icastica enunciazione della Relazione ministeriale al codice civile, in nessun caso potrebbe avere forza ablativa di un vincolo convenzionalmente assunto, essendo al più destinato a trovare ristoro sul piano risarcitorio (confr. Cass. civ. 10 novembre 2010, n. 22819; Cass. civ. 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. civ. sez. un. 25 novembre 2008, n. 28056)».

In pratica, è stato semplicemente confermato un principio consolidato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione secondo cui: «ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di precetti inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità, non già l'inosservanza di norme, quand'anche imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, inosservanza che può costituire solo fonte di responsabilità per danni (cfr. Cass. civ. 10 aprile 2014, n. 8462; Cass. civ. 19 dicembre 2007, n. 26724)».

Ma le Sezioni Unite, giustamente non si sono fermate a questi specifici motivi di doglianza sollevati dall'Azienda Ospedaliera ricorrente, ma hanno esaminato un ulteriore, possibile profilo di invalidità della clausola in contestazione, e cioè quello della validità di un'assicurazione del rischio pregresso.

Questo è il possibile profilo di invalidità della clausola che, invero, è stato il più dibattuto, nella dottrina e nella giurisprudenza di merito.

In pratica, secondo questa tesi, non sarebbe consentito assicurare fatti generatori di danno verificatisi prima della conclusione del contratto, ma ignorati dall'assicurato, perché ci si troverebbe innanzi ad una sostanziale mancanza dell'alea richiesta, a pena di nullità, dall'art. 1895 c.c. («Inesistenza del rischio: Il contratto è nullo se il rischio non è mai esistito o ha cessato di esistere prima della conclusione del contratto»).

Dal momento che il rischio dedotto nel contratto deve essere futuro e incerto, dunque, giammai il c.d. rischio putativo potrebbe trovare copertura.

Le Sezioni Unite prendono posizione dissentendo in modo categorico da tale impostazione (a conferma di quanto già invero espresso nelle decisioni Cass., 22 marzo 2013 n. 7273 e Cass., 17 febbraio 2014 n. 3622).

Le argomentazioni contrarie a tale tesi sono le seguenti.

In primo luogo: «affatto convincente appare in proposito il rilievo che l'estensione della copertura alle responsabilità dell'assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto non fa venir meno l'alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento del raggiungimento del consenso le parti (e, in specie, l'assicurato) ne ignoravano l'esistenza, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 c.c., per le dichiarazioni inesatte o reticenti».

In secondo luogo, si deve altresì ricordare che: «il rischio dell'aggressione del patrimonio dell'assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perché esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento».

Da ciò consegue che: «la clausola claims made con garanzia pregressa è lecita perché afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l'alea dell'avveramento progressivo degli altri elementi costitutivi dell'impoverimento patrimoniale del danneggiante-assicurato».

Il rischio putativo, d'altro canto, ricorda la Suprema Corte: «è espressamente riconosciuto nel nostro ordinamento dall'art. 514 del Codice della Navigazione (“Rischio Putativo”).

Al fine di fornire un giudizio più completo possibile, la Suprema Corte ha analizzato gli ulteriori rilievi rimasti sul tappetto circa la liceità o meno della clausola claims made.

In particolare, la clausola claims made sarebbe nulla perché: «vanificherebbe la causa del contratto di assicurazione, individuata, con specifico riferimento all'assicurazione sulla responsabilità professionale (ex art. 1917 c.c.), nel trasferimento, dall'agente all'assicuratore, del rischio derivante dall'esercizio dell'attività, questa e non la richiesta risarcitoria essendo oggetto dell'obbligo di manleva».

Tale tesi (cioè la contrarietà della claims made alla struttura tipica del contratto delineato dall'art. 1917 c.c.), sostenuta da parte della dottrina e della giurisprudenza di merito: «si scontra contro il chiaro dato testuale costituito dall'art. 1932 c.c., che tra le norme inderogabili non menziona l'art. 1917 c.c., comma 1».

In altre parole, le parti possono derogare a quanto prevede l'art. 1917 primo comma c.c.

La clausola claims made, tra l'altro, neppure può essere qualificata come vessatoria, con le conseguenze di cui all'art. 1341 c.c..

Le Sezioni Unite, infatti, qualificano la clausola in questione non come limitativa della responsabilità, con gli effetti di cui all'art. 1341 c.c., ma dell'oggetto del contratto, riguardando il contenuto ed i limiti della garanzia assicurativa e, pertanto, specificando il rischio garantito (vedi anche Cass. civ. 7 agosto 2014, n. 17783; Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8235; Cass. civ. 10 novembre 2009, n. 23741).

La Suprema Corte, per arrivare a ciò, ricorda che: «il fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione» di cui parla l'art. 1917 c.c., «non può essere identificato con la richiesta di risarcimento».

Tale lemma: “si riferisce inequivocabilmente alla vicenda storica di cui l'assicurato deve rispondere” (con richiamo della Cass. civ. 15 marzo 2005, n. 5624 che peraltro aveva concluso per la vessatorietà della clausola).

Viene ricordato nuovamente che: «nell'ambito dell'assicurazione della responsabilità civile, il sinistro delle cui conseguenze patrimoniali l'assicurato intende traslare il rischio sul garante, è collegato non solo alla condotta dell'assicurato danneggiante, ma altresì alla richiesta risarcitoria avanzata dal danneggiato, essendo fin troppo ovvio che ove al comportamento lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, nessun diritto all'indennizzo – e specularmente nessun obbligo di manleva insorgeranno a favore e a carico dei soggetti del rapporto assicurativo».

Ed allora, se tutto questo è vero, conclude il Supremo Collegio: «il discostamento dal modello codicistico introdotto dalla clausola claims made impura, che è quella che qui interessa, mirando a circoscrivere la copertura assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito dall'epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva, si inscrive a pieno titolo nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, entro i quali, a norma dell'art. 1905 c.c. (“Limiti del risarcimento”), l'assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall'assicurato. E poichè non è seriamente predicabile che l'assicurazione della responsabilità civile sia ontologicamente incompatibile con tale disposizione, il patto claims made è volto in definitiva a stabilire quali siano, rispetto all'archetipo fissato dall'art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l'oggetto, piuttosto che la responsabilità».

Il giudizio di c.d. “meritevolezza” e le problematiche pratiche aperte dalla parte finale della decisione

Arrivati a questo punto, ogni questione sollevata sia nel ricorso proposto che più generale dalla dottrina e dalla giurisprudenza pareva essersi risolta, con l'affermazione perentoria della liceità e della non vessatorietà della clausola claims made (pura o impura che fosse).

In realtà, non è così.

Le Sezioni Unite, infatti, ai punti 11. e 12. della loro motivazione hanno comunque fatto presente che, se è vero che il nostro ordinamento giuridico consente alle parti di variare il contenuto del contratto di assicurazione della responsabilità civile, ci si deve anche chiedere: «fino a che punto i paciscenti possano spingersi nella riconosciuta loro facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea ad avvelenarne la causa. Non a caso, al riguardo, la tesi della nullità viene declinata nella ben più scivolosa chiave della immeritevolezza di tutela dell'assicurazione con clausola claims made, segnatamente di quella mista, in ragione della significativa delimitazione dei rischi risarcibili, del pericolo di mancanza di copertura in caso di mutamento dell'assicuratore e delle conseguenti, possibili ripercussioni negative sulla concorrenza tra le imprese e sulla libertà contrattuale».

D'altro canto, prosegue la Suprema Corte: «al fondo della manifesta insofferenza per una condizione contrattuale che appare pensata a tutto vantaggio del contraente forte, c'è la percezione che essa snaturi l'essenza stessa del contratto di assicurazione per responsabilità civile, legando l'obbligo di manleva a una barriera temporale che potrebbe scattare assai prima della cessazione del rischio che ha indotto l'assicurato a stipularlo, considerato che l'eventualità di un'aggressione del suo patrimonio persiste almeno fino alla maturazione dei termini di prescrizione».

Tali dubbi vengono dunque riproposti nella parte finale della motivazione, laddove si affrontano: «i possibili esiti di uno scrutinio di validità (ndr della clausola claims made) condotto sotto il profilo della meritevolezza di tutela della deroga al regime legale contrattualmente stabilita».

Ed allora, premesso che: «qualsivoglia indagine sulla meritevolezza deve necessariamente essere condotta in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell'interprete», non essendo passibili i dubbi sopra menzionati «di risposte univoche», le Sezioni Unite passano nel concreto ad esaminare sotto questo profilo dapprima le clausole claims made pure e poi quelle impure.

Orbene: «la prospettazione dell'immeritevolezza è, in via di principio, infondata con riferimento alle clausole c.d. pure, che, non prevedendo limitazioni temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell'epoca di commissione del fatto illecito».

Assai: “più problematico” pare invece essere l'esito dello scrutinio: «con riferimento alle clausole c.d. impure, a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell'assicurazione, intervengano sia il sinistro che la richiesta di risarcimento».

Quanto poi alle clausole che estendono la garanzia al rischio pregresso: «l'apprezzamento non potrà non farsi carico del rilievo che, in casi siffatti, il sinallagma contrattuale, che nell'ultimo periodo di vita del rapporto è destinato a funzionare in maniera assai ridotta, quanto alla copertura delle condotte realizzate nel relativo arco temporale, continuerà nondimeno a operare con riferimento alle richieste risarcitorie avanzate a fronte di comportamenti dell'assicurato antecedenti alla stipula, di talché l'eventualità, paventata nell'arresto n. 3622 del 2014, di una mancanza di corrispettività tra pagamento del premio e diritto all'indennizzo, non è poi così scontata».

Si aggiunge che: «della copertura del rischio pregresso nulla potrà farsene l'esordiente, il quale non ha alcun interesse ad assicurare inesistenti sue condotte precedenti alla stipula, di talché anche tale circostanza entrerà, se del caso, nella griglia valutativa della meritevolezza».

Fatto questo primo screening generale sulla validità delle clausole claims made pure ed impure sotto il profilo della meritevolezza, il Supremo Collegio prosegue nella sua disamina ricordando come: «laddove risulti applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), l'indagine dovrà necessariamente confrontarsi con la possibilità di intercettare, a carico del consumatore, quel “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” presidiato dalla nullità di protezione, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36».

La tutela offerta dall'art. 36 del Codice del Consumo è peraltro limitata: «alle sole persone fisiche che concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all'attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata – dovendosi per contro considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell'esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso (cfr. Cass. civ. Cass. civ. 12 marzo 2014, n. 5705; Cass. civ. 23 settembre 2013, n. 21763)».

Deve essere dunque esclusa la possibilità che essa risulti applicabile ai contratti di assicurazione della responsabilità professionale.

Sullo scrutinio di validità della clausola condotta sotto il profilo della meritevolezza, infine, le Sezioni Unite concludono ammonendo che laddove: «l'esegesi non approdi a risultati appaganti sulla base di dati propri della clausola, che risultino in sé di fulminante evidenza in un senso o nell'altro», non si possa: «prescindere dalla considerazione, da un lato, dell'esistenza di un contesto caratterizzato dalla spiccata asimmetria delle parti e nel quale il contraente non predisponente, ancorché in tesi qualificabile come “professionista”, è, in realtà, il più delle volte sguarnito di esaustive informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che governano il sistema della responsabilità civile; dall'altro, di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresi altri profili della disciplina pattizia, quali, ad esempio, l'entità del premio pagato dall'assicurato».

Gli effetti della valutazione di immeritevolezza della clausola sono francamente, ci si consenta, dirompenti.

Tali effetti, infatti: «non possono non avere carattere reale, con l'applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile, e cioè della formula loss occurence. E tanto sull'abbrivio degli spunti esegetici offerti dall'art. 1419 c.c., comma 2 (Nullità parziale), nonché del principio, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall'art. 2 Cost., “che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa» (Corte cost. n. 77/2014 e n. 248/2013: sentenze che hanno dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1385 secondo comma c.c. relativo alla caparra confirmatoria), consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto (cfr. Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. sez. un. 13 settembre 2005, n. 18128).

Ma vi è di più.

Le Sezioni Unite dedicano i paragrafi 21. e 22. della motivazione ad un'ulteriore tematica che si connette inscindibilmente alla validità o meno delle clausole claims made (impure in particolare).

La Corte ricorda infatti che in taluni settori (in pratica tutti i professionisti dotati di un ordinamento professionale) è stato introdotto l'obbligo di assicurare la responsabilità civile connessa all'esercizio della propria attività., stipulando “idonea assicurazione” (vedi D.L. n. 138/2011, art. 3, comma 5, lettera e), convertito con legge n. 148/2001; D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137; e, con specifico riferimento agli esercenti le professioni sanitarie, D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con la L. 8 novembre 2012, n. 189, e D.L. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. decreto fare), convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98).

Fatta questa premessa, e rilevato altresì: “che è stata da più parti segnalata l'incongruenza della previsione di un obbligo per il professionista di assicurarsi, non accompagnata da un corrispondente obbligo a contrarre in capo alle società assicuratrici”, le Sezioni Unite ammoniscono che: “il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura”.

D'altro canto: “è di palmare evidenza che qui non sono più in gioco soltanto i rapporti tra società e assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo, essendo stato quel dovere previsto nel preminente interesse del danneggiato, esposto al pericolo che gli effetti della colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della stessa, definitivamente a suo carico”.

Di tali considerazioni concludono le Sezioni Unite: “dovrà necessariamente tenersi conto al momento della stipula delle “convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti”, nonché in sede di redazione del decreto presidenziale chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l'idoneità dei relativi contratti”.

Conclusioni

In definitiva, dovendo tentare di tirare le fila del ragionamento seguito dalle Sezioni Unite, potremmo così concludere.

Nessun problema di liceità, validità e/o meritevolezza per le polizze con clausola claims made c.d. pura, sia passate che future.

Queste polizze, peraltro, non hanno mai posto questioni particolari, avendo una c.d. retroattività illimitata (in pratica non ci sono limiti temporali alla copertura e diventa quindi irrilevante la data di accadimento del fatto illecito).

Le polizze con clausole claims made impure sono sicuramente lecite e valide, ma dovranno resistere ad uno scrutinio condotto anche sotto il profilo della meritevolezza.

Tale giudizio (di stretto merito che, se adeguatamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità) laddove venisse concluso con una valutazione di immeritevolezza della clausola, secondo i criteri indicati dalle Sezioni Unite, comporterà l'effetto reale, pratico, di sostituire la clausola claims made con quella legale, ex art. 1917 c.c., della loss occurence.

E' quasi superfluo sottolineare l'impatto che siffatti giudizi di meritevolezza condotti in concreto “con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell'interprete (giudice)” potranno avere sui giudizi in corso (anche perché il Magistrato tale screening di validità potrà compierlo d'ufficio), nonché sulle modalità di appostamento delle riserve da parte delle Compagnie, che potrebbero ritrovarsi in copertura loss un sinistro sino ad oggi fuori copertura claims.

Effetti pratici limiti e residuali invece avrà invece il richiamo dell'art. 36 del Codice del Consumo, che non concerne pacificamente l'assicurazione della responsabilità dei professionisti e degli imprenditori.

Ma vi è di più.

Per le future polizze di responsabilità civile professionale di tutte le c.d. professioni protette (ove in pratica vi sia un obbligo di assicurazione) sia il Legislatore (e viene subito alla mente il Disegno di Legge Gelli N. 22254/2015 al vaglio del Senato in questi giorni) che le rappresentanze di categoria dovranno necessariamente tenere conto delle chiare indicazioni date delle Sezioni Unite affinché le predette polizze siano “idonee”, nel senso di essere adeguate a tutelare gli interessi dei terzi, dal momento che il dovere di assicurarsi è stato previsto proprio nell'interesse “preminente” dei danneggiati e non del professionista medesimo.

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