Claims made, responsabilità medica e pensieri retrivi: la Cassazione resiste alla legge?

Maurizio Hazan
20 Luglio 2017

Con una nuova coppia di sentenze (gemelle) la Cassazione ha affermato la non meritevolezza (e quindi la nullità) delle clausole claims made che non prevedano alcuna “garanzia postuma”. Ciò in quanto la clausola claims made con esclusione delle richieste postume attribuirebbe all'assicuratore un vantaggio ingiusto e sproporzionato, riducendo il periodo di copertura assicurativa e, comunque, ponendo “l'assicurato in una posizione di indeterminata soggezione” senza alcuna contropartita.
Introduzione

Un intervento “a gamba tesa”: tali possono definirsi, nel loro insieme e mutuando il gergo calcistico, le due sentenze “gemelle” (la n. 10506 e la n. 10509 del 28 aprile 2017) con cui la Sezione III della Cassazione civile è tornata sul tema della claims made, decretandone la nullità (per immeritevolezza, ogni qualvolta la stessa preveda che la copertura assicurativa sia operante «solo se tanto il danno causato dall'assicurato, quanto la richiesta di risarcimento formulata dal terzo, avvengano nel periodo di durata dell'assicurazione»). Una simile pattuizione – così recita il “principio di diritto” che chiude entrambe le sentenze – sarebbe «immeritevole di tutela ai sensi dell'art. 1322 c.c., comma 2, in quanto realizza un ingiusto e sproporzionato vantaggio dell'assicuratore, e pone l'assicurato in una condizione di indeterminata e non controllabile soggezione».

Era ben prevedibile che una tal perentorietà suscitasse vasta eco tra gli operatori del diritto (e del mercato assicurativo), tanto più in considerazione del particolarissimo contesto storico in cui tale pronuncia si cala: un contesto caratterizzato, da un lato, dalla progressiva affermazione del generale obbligo di assicurazione delle responsabilità professionali (a tutela del “cliente”, prima ancora che del professionista…); dall'altro dalla recentissima entrata in vigore del più specifico obbligo assicurativo del rischio clinico, a carico di medici e strutture sanitarie (artt. 10 e ss della c.d. legge Gelli n. 24/2017, v. sul punto gli articoli apparsi su Ridare.it e, in particolare: C.ALTOMARE, Assicurazione obbligatoria e validità temporale: l'impatto della Gelli sul comparto assicurativo; I.PARTENZA, Gli obblighi assicurativi di strutture e professionisti sanitari previsti dall'art. 10 della legge Gelli).

Così, sin dall'indomani delle pronunzie in commento, si è andata registrando una diffusa tendenza a ritenere che la clausola “Claims Made” – già indebolita dal lasco filtro di meritevolezza predicato dalle Sezioni Unite nell'ormai celebre arresto del maggio 2016 (Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2016 n. 9140, v. sul punto M.RODOLFI, La claims made: tra liceità e meritevolezza, quanti problemi per gli operatori del diritto, il legislatore e le associazioni di categoria; F.ROSADA, Claims made “impura” e RC professionale: un connubio in crisi e, da ultimo M.HAZAN, La claims made è salva! (ma non troppo….) tutti in Ridare.it) – fosse definitivamente giunta, per effetto di quest'ultima presa di posizione della Cassazione, al capolinea.

Al di là dei punti di vista variamente espressi sul piano teorico circa la bontà – o meno – della tesi propugnata dalla Suprema Corte, erano gli impatti pratici a destare grande allarme: si trattava di comprendere se la predicata radiazione della clausola dai contratti finisse, o meno, per mettere in scacco il comparto delle polizze obbligatorie dei professionisti; un comparto reso di per sé precario proprio dagli incerti effetti di una sinistrosità sovente “lungo latente” (tali cioè da far emergere il danno, o comunque la richiesta risarcitoria, anche ad anni di distanza dalla condotta lesiva). Quali players, dunque, avrebbero mai accettato di assumere quei rischi di responsabilità applicando la formula c.d. dell'act commicted (quella prevista dall'art. 1917 del Codice civile, per intenderci) senza poter neutralizzare quelle incertezze e circoscrivere temporalmente la copertura entro limiti prevedibili e sostenibili? E, in ogni caso, quand'anche lo avessero fatto, a quali condizioni di premio?

La questione assumeva, ed assume, particolare urgenza proprio nell'ambito della nuova assicurazione del rischio clinico, immaginata dal legislatore quale naturale completamento delle bivalenti istanze di protezione (dei medici e dei pazienti) fatte proprie dalla riforma “Gelli”. All'obbligo di copertura, posto a carico dei professionisti e delle strutture, non corrisponde, nella legge 24/2017, l'obbligo a contrarre da parte delle imprese: il che equivale a dire che le compagnie di assicurazione potrebbero rifiutare richieste di coperture ritenute per loro non convenienti. Ecco dunque che l'eventuale divieto di assumere il rischio in regime di claims, anziché stimolare la nascita di un rinnovato gioco concorrenziale tra le imprese attive nel settore, potrebbe ulteriormente svuotare un mercato già poco popolato e da anni afflitto da andamenti tecnici sostanzialmente in perdita. Insomma: in assenza di claims ben potrebbe accadere che il sostegno assicurativo (tanto ben) declinato sulla carta si risolva in un esercizio chimerico e virtuale.

Queste le preoccupazioni che hanno infiltrato i dibattiti dell'ultima ora, sull'onda di imprecisi tam tam mediatici (v. per esempio gli articoli apparsi sul web: http://www.altalex.com/documents/news/2016/05/10/clausole-claims-made-a-rischio-nullita-per-difetto-di-meritevolezza e, http://www.altalex.com/documents/news/2017/05/03/clausola-claims-made), la maggior parte dei quali tesi a decretare, un po' troppo frettolosamente, la morte della claims made.

Sennonché le cose non stanno, a parere di chi scrive, davvero così.

Ostinandosi a trattare la vicenda della claims Made attraverso una sostanziale riedizione di temi e dubbi francamente datati (e già del resto ampiamente discussi nell'ambito di un dibattito sviluppatosi in ambito europeo da oltre vent'anni, v. sul punto Jap Spier, LongTail (Liability) Risks and Claims Made Policies, in The geneva papers on risk and insurance, n. 23 (April 1998),152-168) la Suprema Corte dimostra di non voler prendere atto dell'evoluzione dei moderni assetti assicurativi, a loro volta influenzati dall'evoluzione della moderna società del rischio. Solo la formula della “claims made” consente, invero, di “quotare” determinati rischi di responsabilità in modo accettabilmente corretto e verosimile, consentendone la “presa in carico”, da parte dell'assicuratore (in ossequio a quei principi di sana e prudente gestione che presidiano, in ultima analisi, gli interessi collettivi degli assicurati e degli aventi diritto (l'art. 3 cod. ass. prevede che: «Scopo principale della vigilanza è l'adeguata protezione degli assicurati e degli aventi diritto alle prestazioni assicurative. A tal fine l'IVASS persegue la sana e prudente gestione delle imprese di assicurazione e riassicurazione, nonché, unitamente alla CONSOB, ciascuna secondo le rispettive competenze, la loro trasparenza e correttezza nei confronti della clientela. Altro obiettivo della vigilanza, ma subordinato al precedente, è la stabilità dei mercati finanziari). Ciò a maggior ragione nell'ambito dei (sempre più frequenti) sistemi assicurativi obbligatori, in cui le aspettative di tutela dei singoli vanno calate in contesti più ampi e contemperate con le esigenze generali di sostenibilità. D'altra parte, l'idea di ancorare sempre e comunque la liquidazione del danno alla polizza vigente al momento della condotta lesiva (anche se risalente nel tempo) non costituisce, di necessità, un vantaggio per l'assicurato, il quale potrebbe anzi vantare il contrario interesse a poter contare su di una copertura attuale, allineata – quanto al massimale – al valore corrente dei danni risarcibili.

Ma a prescindere da ciò, quel che davvero non si comprende è come possa prender piede il tentativo, operato dalla Cassazione, di riesumare un dibattito teorico che oggi non ci pare possa aver ragion d'essere, in quanto sostanzialmente risolto e chiuso dal nostro legislatore: il diritto positivo non ha, infatti, mostrato incertezze nel introdurre il regime claims nei settori delle professioni legali e sanitarie (Per quanto riguarda la professione legale il D.M. 22 settembre 2016 all'art. 2 stabilisce che: «L'assicurazione deve prevedere, anche a favore degli eredi, una retroattività illimitata e un'ultrattività almeno decennale per gli avvocati che cessano l'attività nel periodo di vigenza della polizza. L'assicurazione deve contenere clausole che escludano espressamente il diritto di recesso dell'assicuratore dal contratto a seguito della denuncia di un sinistro o del suo risarcimento, nel corso di durata dello stesso o del periodo di ultrattività». Per le professioni sanitarie si veda quanto introdotto dalla recente legge n. 24 all'art. 11 per cui: «La garanzia assicurativa deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all'impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza. In caso di cessazione definitiva dell'attività professionale per qualsiasi causa deve essere previsto un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di efficacia della polizza, incluso il periodo di retroattività della copertura. L'ultrattività è estesa agli eredi e non è assoggettabile alla clausola di disdetta»), senza avvertire la necessità di prevedere espressamente quella garanzia postuma che – sola – secondo le sentenze gemelle del 28 aprile renderebbe la polizza meritevole di tutela.

Ci pare, insomma, che, ben al contrario di quanto da taluni evocato, la clausola claims made sia oggi più viva e forte che mai, avendo trovato sostanziale ratifica proprio nella legge Gelli. E, fino alla prova del contrario, la norma prevale sulle volitive interpretazioni della giurisprudenza, quand'anche di rango superiore.

Ciò a prescindere dal fatto che le argomentazioni stese nelle sentenze gemelle del 28 aprile siano, di per loro, poco persuasive, come avremo modo di dire tra breve.

La clausola “bocciata” dalla Cassazione

La specifica clausola esaminata da entrambe le sentenze in commento (art. 23 di un contratto assicurativo stipulato da una primaria compagnia assicurativa con una struttura sanitaria) non è nuova alla disamina di legittimità della Suprema Corte, in quanto dalla stessa già in precedenza ritenuta valida, ancorché “vessatoria” (v. Cass. civ., 10 ottobre 2015, n. 22891).

L'intervento delle Sezioni Unite (con la citata pronuncia Cass. civ., Sez. Un., n. 9140/2016) ha, di fatto, superato quel precedente, escludendo, in termini più generali, che la clausola claims possa ritenersi di per sé vessatoria e spostando l'analisi sul piano della meritevolezza, o meno, di ogni singola pattuizione atipica.

In concreto, la previsione contrattuale in oggetto prevedeva che la copertura (della rc sanitaria di un'azienda ospedaliera) fosse operante per i soli fatti illeciti commessi dall'assicurata durante la vigenza della polizza ed entro i tre anni precedenti la stipula del contratto, a condizione che la richiesta di risarcimento da parte del terzo fosse pervenuta all'assicurato prima della scadenza della polizza.

Erano dunque escluse dalla garanzia le richieste di risarcimento formalizzate in epoca successiva, sebbene riferite a fatti commessi in corso di contratto. Si trattava, dunque, di uno schema di copertura diverso da quello ordinariamente disciplinato dall'art. 1917 c.c., che non conosce limitazioni temporali diverse da quelle derivanti dalla prescrizione del diritto risarcitorio del terzo danneggiato (al netto, ovviamente, della tempestività dell'avviso di sinistro, ai sensi dell'art. 1913 c.c.).

Ad ulteriormente inquinare lo schema codicistico di partenza, ed a compensare la limitazione sopra descritta, il contratto prevedeva un estensione della copertura a fatti pregressi, con particolare riferimento agli illeciti commessi dall'assicurata entro i tre anni precedenti la stipula della polizza (purché, naturalmente, la richiesta risarcitoria fosse formulata per la prima volta in epoca successiva e durante la sua vigenza).

Per dirla in sintesi, la claims in oggetto non prevedeva alcuna postuma e contemplava invece una garanzia pregressa triennale.

Le due vicende giudiziarie che hanno condotto alle due sentenze gemelle in esame si erano concluse, in secondo grado, in modo diverso, avendo la Corte d'appello di Milano ritenuto in un caso la clausola valida e nell'altro, invece, vessatoria.

Provando a metter ordine, la Cassazione ha ovviamente svolto, nelle due sentenze gemelle, un percorso unitario, teso ad evidenziare il mancato superamento, da parte della clausola, di quel vaglio di meritevolezza che la stessa, secondo gli insegnamenti delle Sezioni Unite, avrebbe comunque dovuto passare, trattandosi di pattuizione “atipica” e, in quanto tale, assoggettata al filtro previsto dall'art. 1322 c.c.

La “non meritevolezza” della clausola, nelle argomentazioni della Cassazione

In verità il ragionamento della Corte, pur ponendosi – sul piano del metodo – nel solco di quanto già sostenuto dalle Sezioni Unite, finisce per discostarsi dall'impostazione dalle stesse seguita. Secondo Cass. civ., Sez. Un., n. 9140/2016), infatti, la non meritevolezza dipenderebbe, per le polizze professionali obbligatorie, dall'insufficienza di quello schema a tutelare in modo adeguato l'interesse “esterno” del cliente/paziente danneggiato. Qui, il più drastico giudizio negativo si fonda invece sulla sola valutazione del rapporto “interno” tra le parti del contratto assicurativo e sulla considerazione della sostanziale inconciliabilità della clausola con la – del tutto naturale – possibilità che l'assicurato (medico o struttura) rechi danni a terzi anche negli ultimi mesi, o giorni, od ore precedenti la scadenza del contratto. Danni per i quali la richiesta di risarcimento perverrà, probabilmente (e fisiologicamente), in epoca successiva a quella scadenza, lasciando l'assicurato medesimo esposto ad un rischio la cui copertura costituisce portato naturale di quel tipo di garanzia assicurativa (almeno secondo il paradigma dell'art. 1917 c.c.).

Insomma, una claims senza postuma, e quindi senza copertura – in fatto – dei sinistri “terminali” (intendendosi per tali quelli relative a condotte tenute in prossimità della scadenza di polizza) sarebbe ingiustamente limitativa delle naturali aspettative di garanzia di chi paga un premio per esser manlevato, in corso di polizza, dalle proprie responsabilità.

A rinforzo di tale tesi la sentenza sviluppa, suggestivamente, alcuni interessanti argomenti:

  • la clausola claims made con esclusione delle richieste postume attribuirebbe all'assicuratore un vantaggio ingiusto e sproporzionato, riducendo il periodo di copertura assicurativa e, comunque, ponendo «l'assicurato in una posizione di indeterminata soggezione» senza alcuna contropartita; ciò in quanto tale clausola finirebbe per escludere tutti i danni causati dall'assicurato nella prossimità della scadenza del contratto e per determinare «.. uno iato tra il tempo per il quale è stipulata l'assicurazione (e verosimilmente pagato il premio), e il tempo nel quale può avverarsi il rischio».
  • la clausola farebbe poi – ingiustamente – dipendere la prestazione dell'assicuratore della responsabilità civile non solo da un evento futuro ed incerto ascrivibile all'assicurato, ma anche dalla richiesta di risarcimento (che è pur sempre evento futuro ed incerto ma dipendente dalla volontà del terzo danneggiato);
  • la claims, inoltre, condurrebbe ad una serie di conseguenze paradossali: la prima è che l'assicurato, in contrasto con il principio di cui all'art. 1904 c.c., avrebbe interesse a che il sinistro (intendendosi per tale la richiesta del terzo) si verifichi prima della scadenza della polizza. La seconda rinvenibile nel fatto che il medesimo assicurato, ove fosse consapevole di aver causato un danno, si troverebbe innanzi ad una insostenibile aporia, così testualmente descritta nella pronuncia: «se egli tace e aspetta che sia il danneggiato a chiedergli il risarcimento, perde la copertura; se sollecita il danneggiato a chiedergli il risarcimento, viola l'obbligo di salvataggio di cui all'art. 1915 c.c.»;
  • infine la claims made risulterebbe immeritevole di tutela in quanto costringerebbe l'assicurato a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti. Egli infatti non avrebbe alcun interesse ad adempiere spontaneamente la propria obbligazione risarcitoria prima ancora che il terzo gliene faccia richiesta (come correttezza e buona fede gli imporrebbero), dal momento che in tal caso l'assicuratore «potrebbe rifiutare l'indennizzo assumendo che mai nessuna richiesta del terzo è stata rivolta all'assicurato, sicché è mancata la condicio iuris cui il contratto subordina la prestazione dell'assicuratore».

In verità, per quanto si lascino apprezzare sul piano del “ragionamento fine”, i passaggi – sopra descritti –attraverso i quali la motivazione si snoda, presentano più di qualche falla e non convincono.

Analizziamoli partitamente, con spirito critico.

a) Non è vero in primo luogo che, nel caso di specie, la mancata previsione di una garanzia postuma fosse priva di contropartita: la claims risultava, al contrario bilanciata da un'estensione a ritroso triennale della garanzia (estensione alla quale l'assicurato non avrebbe avuto diritto laddove il contratto fosse stato regolato secondo lo schema causale dell'art. 1917 c.c.). D'altro canto, sostenere che il premio sia stato corrisposto verosimilmente (!!!) per accedere ad una garanzia più ampia (del tipo loss) costituisce, in assenza di prova circostanziata del fatto, un autentico azzardo argomentativo. La costruzione dei modelli assicurativi della responsabilità civile varia, ovviamente, quanto alla quotazione del rischio, a seconda del maggior o minor ambito temporale della copertura (in base a calcoli attuariali idonei a rendere sostenibile, almeno in astratto, l'operazione). Il maggiore o minor premio pagato corrisponde, dunque, ad una maggiore o minore estensione temporale della polizza. Ma anche a seguire il ragionamento della Corte (si ripete, del tutto privo di qualsiasi aggancio fattuale), il pagamento di un premio di entità superiore al dovuto (perché calcolato in modo standardizzato per una polizza loss) in tanto potrebbe rilevare in quanto costituisca indiretta dimostrazione del fatto che l'assicurato sia stato indotto in errore o vi sia stato un dolo contrattuale (o, ancora, allorquando il contratto risulti rescindibile per lesione o, comunque, sia stato collocato violando le regole di buona fede, di correttezza, di trasparenza dell'informativa precontrattuale e di adeguatezza, anche ai sensi dell'art. 183 cod. ass.).

b) Parimenti criticabile pare l'assunto secondo il quale la clausola in questione porrebbe «l'assicurato in una posizione di indeterminata soggezione» facendo «dipendere la prestazione dell'assicuratore della responsabilità civile non solo da un evento futuro ed incerto ascrivibile a colpa dell'assicurato, ma altresì da un ulteriore evento futuro ed incerto dipendente dalla volontà del terzo danneggiato: la richiesta di risarcimento». Richiesta che, secondo l'estensore delle pronunzie, esulerebbe «.. del tutto dalla sfera di dominio, dalla volontà e dall'organizzazione dell'assicurato, che non ha su essa ha alcun potere di controllo». Pare, invece, a chi scrive che la richiesta del terzo costituisca – sempre e comunque – un elemento imprescindibile e connaturato alla stessa operatività dell'assicurazione della responsabilità civile. Ciò a prescindere dal fatto che l'assicurato non abbia (come di regola accade) o abbia un qualche potere di controllo o di orientamento circa la decisione del terzo di formalizzare o meno la sua richiesta risarcitoria. È solo tale richiesta a far scattare, in concreto, l'obbligo di protezione dell'assicuratore, anche sotto il profilo del sostenimento delle spese di resistenza alla pretesa del terzo. D'altra parte, ai sensi dell'art. 2952 c.c., la prescrizione del diritto all'indennizzo (recte: alla prestazione assicurativa di garanzia) decorre «dal giorno in cui il terzo ha richiesto il risarcimento all'assicurato o ha promosso contro di questo l'azione»; il che equivale a dire che è proprio da quel momento che l'assicurato/responsabile, giusto il principio generale di cui all'art. 2935 c.c., può far valere il proprio diritto alla garanzia. Insomma, porre la richiesta del terzo al centro della proposizione contrattuale nulla aggiunge e nulla toglie al normale (meglio: all'unico possibile) schema causale dell'assicurazione di rc!

c) Se possibile, ancora meno condivisibili appaiono le ulteriori osservazioni svolte nelle sentenze in commento a sostegno della censura di nullità ivi declinata. Ci riferiamo, in primo luogo, a quanto sostenuto dalla Cassazione a proposito del fatto che nella claims senza postuma «l'assicurato, in contrasto con il principio di cui all'art. 1904 c.c., avrebbe interesse a che il sinistro (intendendosi per tale la richiesta del terzo) si verifichi prima della scadenza della polizza». Al riguardo, va rilevato che la carenza di interesse porterebbe ad una declaratoria di nullità “secca”, ex lege (art. 1904 c.c.) del contratto, senza alcuna necessità di passare attraverso il tortuoso – e forse soltanto rimediale, in quanto volto a mantenere in vita una qualche copertura – filtro della “meritevolezza”; ma soprattutto, non vi è chi non veda come la sussistenza dell'interesse assicurativo è questione che va verificata, secondo la prescrizione di legge, non al momento del sinistro ma al momento «in cui l'assicurazione deve avere inizio». Ora, pure al cospetto di una clausola claims senza postuma, l'interesse dell'assicurato ad essere garantito è dato – geneticamente – dal fatto stesso della sua potenziale responsabilità e della conseguente esposizione alle richieste risarcitorie alla stessa correlate. In nessun caso, al momento della decorrenza della garanzia, egli potrebbe perdere il suo interesse ad esser garantito né, se non con provocazione del tutto agiuridica, potrebbe mai sostenersi che egli, nello stipulare la polizza, abbia addirittura (il contrario) interesse a che il sinistro si verifichi: il suo primo interesse è, e rimane, quello a che lo stesso non si verifichi affatto e che nessuna implicazione di responsabilità sia posta nella vigenza di polizza. Il contratto, dunque, nasce e prosegue senza che alcuna carenza di interesse possa essere valorizzata, tantomeno ai sensi e per gli effetti dell'art. 1904 c.c.

d) Curiosa e suggestiva risulta poi la tesi secondo la quale al cospetto di una clausola claims made (in assenza di postuma) l'assicurato, per ottener certezza di garanzia, dovrebbe (almeno per determinati sinistri) sollecitare il danneggiato a chiedergli il risarcimento prima della scadenza della polizza, rendendosi così responsabile di una violazione dell'obbligo di salvataggio; violazione che, ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 1914 e 1915 c.c. potrebbe addirittura condurre ad una perdita del diritto all'indennizzo (recte: alla garanzia, nell'assicurazione di rc). Al di là delle suggestioni, anche tale argomento prova troppo. Pur volendo prescindere dall'applicabilità o meno dell'art. 1914 c.c. all'assicurazione della responsabilità (tema attorno al quale si registra una qualche divisione in dottrina) è interessante osservare come lo stesso estensore della sentenza ebbe, in tempi non sospetti, a diversamente opinare, sino a sostenere che «La ritenuta applicabilità dell'art. 1914 c.c. all'assicurazione della responsabilità civile, con specifico riferimento all'obbligo di non aggravare il danno già verificatosi, non include né l'obbligo pattiziamente assunto dall'assicurato di dare tempestiva comunicazione all'assicuratore delle richieste risarcitorie fattegli pervenire dal danneggiato (trattandosi di comportamento che esula dalla sfera di incidenza sul danno, già verificatosi ed esauritosi nella dinamica del fatto dannoso) né l'obbligo di negare ad oltranza la propria responsabilità»(v. M.ROSSETTI, Natura e contenuto degli obblighi di avviso e di salvataggio, in Giust. Civ. 2009, pag. 2143). Insomma, l'obbligo di salvataggio sarebbe, tutt'al più, applicabile alle condotte che incidono sulla dinamica del danno e non invece su circostanze (quali la richiesta risarcitoria del terzo) che non integrano la fattispecie di responsabilità né il danno risarcibile (dato in premessa come già integralmente verificatosi). Volendosi poi calare – ad abundantiam – nel settore delle polizze professionali o sanitarie, a tutela anche esterna (nell'interesse prevalente del paziente, v. l'art. 3, comma 5, lett. e), d.l. 13 agosto 2011 convertito con modifiche dalla l. 14 settembre 2011, n. 148 prevede che «..a tutela del cliente, il professionista è tenuto a stipulare idonea assicurazione per i rischi derivanti dall'esercizio dell'attività professionale. Il professionista deve rendere noti al cliente, al momento dell'assunzione dell'incarico, gli estremi della polizza stipulata per la responsabilità professionale e il relativo massimale […]»), sarebbe davvero arduo sostenere che l'eventuale (e volontaria) sollecitazione del terzo (finalizzata a rinforzare la sua aspettativa di ristoro, tutelata proprio attraverso l'introduzione dell'obbligo assicurativo) abbia quale effetto la perdita del diritto alla garanzia assicurativa. L'ossimoro logico e finalistico, qui, si commenta da sé.

e) Singolare, infine, e contraddittorio risulta l'argomento immediatamente successivo (nell'ordine espositivo seguito nella motivazione): quello secondo il quale il pagamento spontaneo del danneggiato, da parte dell'assicurato, non costituirebbe più violazione dell'obbligo di salvataggio bensì, addirittura, adempimento di quel dovere di solidarietà sancito dalla costituzione Ci troviamo, invero, a fronte di una condotta che - certamente più pregiudizievole per l'assicuratore rispetto alla mera sollecitazione alla formalizzazione della richiesta risarcitoria – non soltanto non violerebbe alcunché ma, al contrario, sarebbe da considerarsi quale comportamento commendevole ed auspicato (il che di per sé tradisce una incongruenza logica con quanto sostenuto al punto che precede). Sennonché tale pagamento – per giusto, etico e dovuto che sia - sarebbe – secondo la Suprema Corte – incompatibile con la formula claims, (a prescindere dalla previsione o meno di una postuma): ciò in quanto, in assenza di formale richiesta risarcitoria del terzo (la claims, appunto) l'assicuratore potrebbe rifiutare l'indennizzo sostenendo non essersi verificata la condicio iuris alla quale il contratto subordina la prestazione dell'assicuratore. Sembra tuttavia che una tale prospettazione, specie nei moderni assetti delle relazioni assicurative (sempre più incentrate alla tutela degli assicurati e degli aventi diritto, come ben statuito dalla nuova formulazione dell'art. 3 cod. ass.) sia davvero esasperatamente formalistica e non accettabile (dal momento che il pagamento spontaneo presuppone pur sempre una richiesta risarcitoria del danneggiato, almeno implicita). In caso contrario si trarrebbe di un vero e proprio cadeaux, in quanto tale ovviamente non coperto dalla polizza. La possibile criticità si potrebbe tutt'al più collocare (se del caso) nella eventuale violazione del patto di gestione della lite, ove prevista dalla polizza; ma questa è, ovviamente, altra e diversa questione, che nulla ha a che vedere con la validità, o meno, della claims.

Fuori tempo: l'anacronismo della Cassazione (tra l'assicurazione obbligatoria degli avvocati e la “Legge Gelli”)

Chi scrive non ha mai, in precedenza, nascosto il proprio scetticismo (v. M.HAZAN, La claims made è salva! (ma non troppo….) in Ridare.it) rispetto a taluni venti giurisprudenziali, tesi a sgretolare antiche certezze contrattuali nel nome di una progressiva invasione dei principi costituzionali di matrice pubblica nella sfera del diritto della negoziazione privata. Ci riferiamo alla spinta accelerazione giustizialista che, caratterizzando molti tra gli approcci giurisprudenziali e dottrinali del nuovo millennio, sembra voler fare aggio della teoretica classica del diritto dei contratti, segnando una progressiva crisi dell'autonomia contrattuale ed attestando un qualcerto tramonto dell'idea dellasanctity of contract. Assecondando tale tendenza, l'elaborazione pattizia, lungi dal mostrarsi intangibile, finirebbe per essere infiltrata dai principi fondanti il contesto ordinamentale in cui si cala, sino a poter esser non soltanto integrata (laddove lacunosa, ex art. 1374 c.c.) ma financo modificata in ossequio ad una vaga regola di solidarietà e proporzionalità (di posizione tra i paciscenti, v. E.CAPOBIANCO, Integrazione e correzione del contratto tra regole e principi, in Correzione ed integrazione del Contratto, a cura di F. Volpe, Bologna, 2016).

I moderni assetti ordinamentali sembrerebbero dunque non accontentarsi che il contratto realizzi un serio assetto di interessi tra le parti, ma pretenderebbero che tale assetto sia sempre equo e che il contratto medesimo tenda ad un risultato giusto (“Qui dit contractuel, dit juste” ).

È in questo contesto che si pone, del resto, la questione di meritevolezza che, introdotta dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 9140/2016), incontra un suo ulteriore, e in qualche modo diverso, sviluppo proprio nelle due pronunce in commento.

Sennonché, anche a voler ragionare in quest'ottica pancostituzionalista, non vi è dubbio che le nuove suggestioni giurisprudenziali non possano non misurarsi:

a) con i nuovi approdi del diritto positivo: piaccia o non piaccia, il diritto “vigente” dovrebbe ancor prevalere su quello “vivente”;

b) con le diverse logiche e dinamiche sostanziali proprie dei sistemi dell'assicurazione obbligatoriamente assicurata, nell'ambito dei quali i principi dell'equilibrio e della solidarietà devono a loro volta confrontarsi - più che con l'interesse specifico sotteso a ciascun singolo contratto – con quello della generale sostenibilità dei sistemi medesimi.

Ecco dunque che le argomentazioni spese dalle due pronunce gemelle del 28 aprile, già di per loro non troppo soddisfacenti, finiscono per decolorarsi e molto, innanzi ad alcuni recentissimi interventi normativi.

Ci riferiamo, ovviamente, alla nuova assicurazione obbligatoria degli avvocati (disciplinata dal D.M. 22 settembre 2016) e, soprattutto, alla legge 24/2017, nella parte in cui disciplina l'assicurazione obbligatoria del rischio clinico e della responsabilità sanitaria. Entrambe le coperture “di legge” risultano regolate, sotto il profilo dell'estensione temporale, in modo sostanzialmente analogo, ritagliato sulla formula claims made ma senza alcuna previsione di postuma (eccezion fatta per il caso in cui il professionista – legale o medico – cessi definitivamente la sua attività) .

Più precisamente, quanto al D.M. Giustizia (steso in attuazione del d.l. n. 138/2011 sulle assicurazioni professionali obbligatorie nonché dell'art. 12 della legge 31 dicembre 2012, n. 247) lo stesso regola il tema dell'«efficacia nel tempo della copertura assicurativa» stabilendo che l'assicurazione debba «prevedere, anche a favore degli eredi, una retroattività illimitata e un'ultrattività almeno decennale per gli avvocati che cessano l'attività nel periodo di vigenza della polizza». Nonostante le indicazioni delle Sezioni Unite (ed, oggi, della terza sezione della Suprema Corte), dunque, è stato introdotto un regime di operatività temporale diverso da quello codicistico (art. 1917 c.c.) e senza alcuna previsione di garanzia “postuma”, salvo in caso di cessazione dell'attività professionale da parte dell'avvocato (così detta sunset clause). L'idea che pareva sottendere tal disposizione era che la tutela esterna del cliente (a vedersi tutelato da qualsiasi danno occorsogli in costanza di incarico) fosse presidiata dalla necessaria continuità dell'obbligo assicurativo, inteso dalla disciplina di legge quale condizione di esercizio dell'attività professionale forense. Il che significava che il cliente medesimo potesse via via contare su polizze che, pur eventualmente diverse, si succedevano nel tempo con egual periodo di retroattività decennale, coprendo in fatto l'esigenza di tutela lungo tutto l'arco del rapporto intrattenuto con il professionista.

Ora, il D.M. di cui sopra era antecedente rispetto alla data (20 gennaio 2017) in cui si è discussa e decisa la causa che ha esitato nelle due sentenze in commento, pubblicate poi soltanto il successivo 28 aprile 2017. Perché, dunque, la Suprema Corte non ne ha tenuto conto? Perché mai non ha voluto prendere atto del fatto che in quel sistema, presidiato dall'obbligo assicurativo in capo agli avvocati, non fosse stata in alcun modo prevista quella garanzia postuma che sarebbe invece, secondo la Cassazione, coessenziale all'assicurazione di responsabilità civile?

Volendo provare a fornire una risposta minimamente plausibile, si potrebbe ipotizzare che il D.M. 22 settembre 2016, costituendo normativa attuativa di secondo livello, non fosse considerato di per sé dotato di forza tale da superare la tesi propugnata da Cass. civ., Sez. Un., n. 9140/2016), secondo la quale l'assicurazione professionale obbligatoria (proprio perché introdotta - con norma primaria - anche e soprattutto a tutela del paziente) sarebbe sempre e comunque da ricondursi necessariamente entro lo schema dell'art. 1917 c.c. Rimane il fatto che, nello spendersi così dichiaratamente e diffusamente a favore della tesi dell'immeritevolezza della claims senza postuma, la Suprema Corte avrebbe forse fatto meglio a prendere espressa posizione sul punto e sul contrasto tra quanto dalla stessa affermato e lo stato di una disciplina normativa comunque in vigore all'epoca della decisione.

Ma non solo.

Al di là del tema afferente all'assicurazione obbligatoria degli avvocati, in quello stesso 20 gennaio 2017 la Cassazione avrebbe potuto (ci sia concesso: dovuto) avere in mente lo stato di (fortissimo) avanzamento dei lavori sulla riforma della responsabilità sanitaria e della sua assicurazione: lavori che già avevano dimostrato l'orientamento del legislatore (qui del legislatore primario..) di riproporre, nella sostanza, uno schema di operatività temporale della garanzia simile a quello del D.M. 22 settembre 2016 (e quindi, ancora, una volta senza alcuna previsione di postuma). Anche su tale punto, invece, le sentenze in commento tacciono: il che pare discutibile, atteso che le stesse trattano proprio di assicurazione della responsabilità sanitaria delle strutture.

Rimane il fatto che il 1 aprile 2017 la legge Gelli ha visto la luce, dando vita al regime di estensione temporale della garanzia regolato dal citato art. 11.

Tale formulazione legislativa avrebbe forse potuto esser un poco più esplicita, evitando di dar fiato alle più disparate voci che vorrebbero interpretarne, più o meno fantasiosamente, il contenuto. Ed invero l'art. 11 tratta espressamente solo della retroattività obbligatoria decennale e della sunset clause, senza (apparentemente) occuparsi del regime “mediano”, ossia della sorte dei sinistri che si verificano durante il vigore della polizza nell'ambito di attività professionali che non siano, nel mentre, cessate. Dobbiamo forse concludere che per quei sinistri valga davvero la previsione “di base” del codice civile e dunque il così detto regime act committed di cui all'art. 1917 c.c.?

La risposta non può che esser data in termini negativi; vediamo subito perché.

Segue: La claims made nella legge 24/2017

Quale, invero, secondo la legge di riforma, la sorte degli eventi occorsi in costanza di polizza rispetto ai quali la richiesta risarcitoria pervenga in epoca successiva alla sua scadenza? Il fatto che il legislatore si sia occupato soltanto delle ipotesi di cessazione delle attività professionali non significa affatto che al di fuori di quei casi valga il regime ordinario di legge, stabilito dall'art. 1917 c.c. e incentrato sull'obbligo, per la compagnia, di tenere indenne il proprio assicurato lungo tutto l'arco prescrizionale del diritto risarcitorio del terzo danneggiato, se derivante da un evento verificatosi durante la vigenza della polizza. Ben al contrario, è proprio la particolare previsione della sunset clause a chiarire, sia pur indirettamente, che, al di fuori delle ipotesi di cessazione dell'attività professionale, il regime di operatività temporale della polizza non può che essere quello di una claims made classica, con estensione retroattiva e nessuna postuma. Ciò, in quanto se il regime della polizza fosse quello di una loss occurrence o di una act committed, non vi sarebbe stato alcun bisogno di prevedere una sunset clause, dal momento che tutti i sinistri causati nella vigenza della polizza dal medico cessato sarebbero stati naturalmente ricompresi in garanzia, giusta l'applicazione dell'art. 1917 c.c. Ma vi è un'altra considerazione che merita di esser svolta. I regimi della loss occurence o dell'act committed (meglio, la formula dell'art. 1917 c.c.) stridono ove posto in correlazione all'impostazione generale del nuovo sistema assicurativo: un sistema caratterizzato in modo sensibile dall'azione diretta, ossia dal diritto attribuito al danneggiato di svolgere le proprie pretese direttamente all'impresa assicuratrice del responsabile. Questa facilitazione (sostanziale e non solo procedurale) costituisce, di per sé, straordinaria garanzia di tutela per il paziente, consentendogli di rivolgersi alla “tasca capiente” assicurativa, senza dover passare per il tramite dell'assicurato e della sua denuncia di sinistro (o successiva chiamata in causa, ex art. 1917 c.c.). Il meccanismo codicistico di partenza, invece, esclude (salvo casi particolari) questo rapporto diretto tra danneggiato e impresa assicurativa, fondandosi invece su di una triangolazione relazionale in cui la denunzia di sinistro (e la comunicazione all'assicuratore della richiesta risarcitoria del terzo) valgono, da un lato, a consentire di attivare la garanzia (ex art. 1913 c.c.) e, dall'altro, a sospendere il decorso prescrizionale della diritto alla manleva (che è altro e diverso rispetto al diritto risarcitorio che il terzo danneggiato può, nel sistema della legge Gelli, azionare direttamente nei confronti dell'impresa assicurativa). Insomma, il contesto in cui la norma si cala è del tutto diverso e peculiare rispetto a quello stabilito dall'art. 1917 c.c. Di più: l'azione diretta, per poter essere utilmente sfruttata, deve esser esercitata dal terzo danneggiato in modo lineare e senza intoppi, avendo la possibilità di individuare agevolmente la copertura assicurativa (e l'impresa) alla quale rivolgere l'azione diretta. In questo senso, esattamente come accadeva un tempo con il contrassegno nella rc auto, il danneggiato deve esser posto in condizione di individuare subito la polizza che copre, al momento della richiesta risarcitoria, la struttura o il medico. Ed a tal fine soccorrono le previsioni dell'art. 10 comma 4 e 10 comma 7 della legge Gelli, che introducono veri e propri obblighi di pubblicità delle polizze tempo per tempo vigenti. Ora, se il terzo danneggiato dovesse ogni volta sforzarsi di reperire gli estremi (e prima ancora, individuare) la polizza in vigore al tempo della causazione di un dato danno (magari emerso a distanza di anni dall'evento che ne ha dato origine), ebbene, il sistema assicurativo “diretto” rischierebbe di esserne compromesso, sino ad esporre il danneggiato medesimo ad eccezioni di carenza di legittimazione passiva antinomiche rispetto all'agilità risarcitoria che il sistema medesimo vorrebbe invece presidiare. Assai più logico, invece, ritenere che il danneggiato possa rivolgersi all'impresa assicurativa che, prestando la copertura al momento della richiesta, garantisce anche gli eventi occorsi durante il periodo di retroattività. Ecco dunque che l'azione diretta –sulla quale il nuovo sistema assicurativo si appoggia - sembra presupporre che sia proprio la richiesta del terzo (specie se effettuata ai sensi e per gli effetti dell'art 12) a determinare l'ambito di operatività della garanzia, nel senso che la stessa vale per le richieste pervenute in costanza di polizza (della polizza resa pubblica ex artt. 10 comma 4 e 10 comma 7…) a prescindere dal fatto che l'evento si sia verificato durante la vigenza della garanzia o in epoca precedente. E così vale a seguire, per tutte le polizze successivamente stipulate, in regime di obbligatoria continuità. Ciò non tradisce affatto le aspettative di tutela del terzo danneggiato, che vengono presidiate, a livello di sistema, proprio da tale previsione dell'obbligo di copertura in continuità del rischio clinico. Ma neppure quelle dell'assicurato, che, di anno in anno ove assolvesse all'obbligo di copertura posto a suo carico, conterebbe su di una garanzia con retroattività tale da assorbire tutte le “nuove” richieste (da far valere sulle coperture dell'annualità in corso) relative a fatti avvenuti nella vigenza di polizze precedentemente scadute. Non crediamo, perciò e conclusivamente, di errare nell'affermare che il regime temporale disegnato dall'art. 11 della legge 24/2017 sia da intendersi come ritagliato attorno allo schema della claims made, con la particolarità che, qui, la richiesta idonea a determinare l'impegno dell'assicuratore sarà, nella maggior parte dei casi, l'azione diretta del terzo danneggiato.

Il che non significa che la garanzia postuma non possa esser comunque introdotta: una previsione di tal tipo potrebbe invero esser facoltativamente prevista dalle parti, dando – peraltro – vita ad un (forse) non virtuoso meccanismo di coassicurazione indiretta del medesimo rischio.

In conclusione: la sopravvivenza (ed, anzi, il rafforzamento) della claims made, nei nuovi scenari di diritto positivo

Giunti a conclusione di questo intervento crediamo di poter dire che, proprio sull'abbrivio della legge Gelli (entrata in vigore dopo le decisioni in commento, ancorché prima della loro materiale pubblicazione), il grande battage mediatico che quelle decisioni hanno suscitato - sino a porre in dubbio la validità ontologica della claims made - sia da considerarsi fuori luogo e financo abortito sul nascere. Ciò almeno nel campo delle assicurazioni obbligatorie.

Volendo, infatti e per un attimo, tornare alla prima tra le argomentazioni spese dalla Cassazione per “affossare” la claims senza postuma (quello sbilanciamento di posizione, in assenza di qualsiasi contropartita per l'assicurato), non possiamo non osservare come la riforma normativa ragioni in termini non di dettaglio ma di sistema, contribuendo a pieno titolo al consolidamento di un nuovo comparto ordinamentale in qualche modo a sé stante: quello del diritto della responsabilità obbligatoriamente assicurata. La “contropartita” a cui la Cassazione anela è prevista, ab ovo, nel sistema della legge Gelli e consiste nell'imporre, sempre e comunque, una retroattività decennale omnicomprensiva (che certo non è poca cosa, nell'ambito di sinistri tipicamente lungolatenti quali quelli afferenti al rischio clinico). L'obbligo ad assicurarsi in regime di continuità, quale condizione (de facto e deontologica) dell'esercizio della professione sanitaria finisce, di poi, per evitare in concreto quei “buchi” di copertura a cui già le Sezioni Unite avevano guardato con sospetto: e ciò tanto nell'interesse del paziente/danneggiato che dell'assicurato.

Quando, poi, si tratti di struttura sanitaria, ossia di un ente gestore del rischio di rango ed importanza talvolta non inferiore a quello di una compagnia assicurativa, pare evidente che i timori, da più fronti sollevati, di una insanabile asimmetria relazionale tra le parti risultano per lo più infondati. A maggior ragione laddove si consideri come i capitolati di polizza, specie nel comparto pubblico ed in contesti di bando, sono realizzati (con claims made variamente configurata ed anche senza postuma) non secondo i desiderata della compagnia ma in conformità alle indicazioni della struttura sanitaria. La quale ultima, peraltro, potrebbe - a fortiori - decidere di non acquistare alcuna garanzia postuma, ed abbassare il valore del premio, coprendo – o meglio gestendo – in proprio quei rischi e ricorrendo a quelle “analoghe misure” che la legge consente loro di adottare. Il caso esaminato dalle sentenze in commento rappresenta, dunque, un tipico esempio di ragionevole e consapevole condivisione, tra parti tra loro niente affatto sbilanciate, di obiettivi di copertura circoscritti in funzione delle esigenze e delle disponibilità della struttura assicurata.

La legge Gelli, insomma, ci consente di riportare la trattazione entro binari giuspositivi ed attuali, respingendo le sollecitazione di una giurisprudenza di legittimità non al passo coi tempi. Una giurisprudenza la quale, peraltro, nelle due decisioni in oggetto, sembra aver travalicato i confini delle sue attribuzioni, venendosi ad occupare di una questione di stretto merito, quale deve intendersi (quasi tautologicamente….) la valutazione di meritevolezza di un patto atipico. Ne è dato comprendere, secondo quelle stesse sentenze, se la presenza di una garanzia postuma limitata nel tempo (un anno? due? dieci?) possa superare la censura dalle stesse così fortemente propugnata.

Ci sia, peraltro, consentito di osservare – qui ed ancora una volta – come l'introduzione di un sostegno assicurativo obbligatorio a condizioni di premio sostenibile (ed in assenza di obbligo a contrarre) rischierebbe - in assenza di claims (o in presenza di un obbligo di postuma)- di trasmutarsi in un chimerico esercizio di stile nel campo del rischio clinico; in un settore, cioè, in cui la naturale lungolatenza dei sinistri impone, tutto al contrario, la presenza di un meccanismo claims, in assenza del quale l'operazione assicurativa non sarebbe probabilmente neppure ipotizzabile. Di fronte alla particolare incertezza correlata all'an ed al quomodo delle cangianti opzioni risarcitorie correlate ad un medesimo evento, specie se relativo ad un danno alla persona (diretto o di rimbalzo…), la tecnica assicurativa ha dovuto dunque “fare i conti” con l'esigenza di trovare strumenti di copertura idonei a render sostenibile e soprattutto prevedibile l'impegno di garanzia, circoscrivendone i limiti temporali onde evitare di:

  • esporre le imprese ad obblighi di indennizzo la cui modulazione in concreto non sia allineata al valore del premio percepito (allorquando il sinistro sia liquidato, ad anni di distanza, in base a parametri risarcitori di molto superiori rispetto a quelli utilizzati al tempo della stipula);
  • esporre le imprese ad uno stallo bilancistico, con la necessità di mantenere le proprie riserve “aperte” ad libitum (in funzione del momento in cui il danneggiato deciderà – se deciderà - di formalizzare le proprie pretese e del tempo occorrente per liquidarle..);
  • costringere l'assicurato ad un non sempre agevole sforzo di collocamento dell'evento di danno entro polizze molto risalenti nel tempo, con applicazione di massimali forse divenuti del tutto insufficienti alla bisogna.

Diversamente opinare, ed affermare l'impossibilità di derogare al modello codicistico e di controllare le code impreviste dei sinistri, avrebbe il solo effetto di allontanare gli assicuratori dal mercato e vanificare la stessa finalità dei nuovi obblighi assicurativi: “Afteral: how to calculate the dark? (v. Jap Spier, LongTail (Liability) Risks and Claims Made Policies, in The geneva papers on risk and insurance , n. 23 (April 1998),152-168)”

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