Il danno all'immagine della Pubblica Amministrazione

21 Maggio 2015

Il danno all'immagine costituisce una figura di costruzione giurisprudenziale e un autonomo strumento di tutela dell'identità e della reputazione della persona giuridica pubblica. La ratio dell'istituto è ravvisabile nel recupero della credibilità pubblica da parte dell'amministrazione, essenziale per un corretto dialogo con i cittadini. La disciplina della fattispecie è fondata sulla necessità dell'ordinamento di intervenire per ridurre ed eliminare i danni che derivano dalla lesione alla sua dignità e al suo prestigio. I margini di operatività sono dettati dalla L. n. 102/2009, che ha limitato l'esercizio dell'azione di risarcimento ai casi in cui l'illecito costituisce reato ex art. 314 e ss. c.p. ed ha sancito la possibilità che le procure della Corte dei Conti esercitino l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dalla L. n. 97/2001 (Cass., S.U., sent., 21 febbraio 2013, n. 4283).
Inquadramento

Il danno all'immagine costituisce una figura di costruzione giurisprudenziale e un autonomo strumento di tutela dell'identità e della reputazione della persona giuridica pubblica. La ratio dell'istituto è ravvisabile nel recupero della credibilità pubblica da parte dell'amministrazione, essenziale per un corretto dialogo con i cittadini. La disciplina della fattispecie è fondata sulla necessità dell'ordinamento di intervenire per ridurre ed eliminare i danni che derivano dalla lesione alla sua dignità e al suo prestigio. I margini di operatività sono dettati dalla L. n. 102/2009, che ha limitato l'esercizio dell'azione di risarcimento ai casi in cui l'illecito costituisce reato ex art. 314 e ss. c.p. ed ha sancito la possibilità che le procure della Corte dei Conti esercitino l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dalla L. n. 97/2001 (Cass., S.U., sent., 21 febbraio 2013, n. 4283). La giurisprudenza di legittimità (C. Cost., ord. 28 ottobre 2011, n. 286), nel caso di specie, riconosce alla responsabilità amministrativa una particolare connotazione derivante dalla combinazione di elementi restitutori e di deterrenza, considerato che il legislatore ha «delimitato sul piano oggettivo gli ambiti di rilevanza del giudizio di responsabilità, ammettendo la risarcibilità del danno per lesione dell'immagine dell'amministrazione soltanto in presenza di un fatto che integri gli estremi di una particolare categoria di delitti».

La Corte dei Conti, con sentenza delle sezioni riunite in sede giurisdizionale, n. 8/2015/QM del 19 marzo 2015, interviene nel dibattito giurisprudenziale in ordine alla configurabilità dell'istituto con riguardo ai reati comuni o ai reati propri, ovvero quelli in cui la peculiare qualifica dell'autore assume rilievo per la fattispecie criminosa, affermando, quale principio di diritto, che il danno all'immagine della P.A. può essere oggetto di un'azione risarcitoria da parte della Procura contabile esclusivamente in relazione a reati propri (artt. 314 - 335-bis c.p.).

La giurisprudenza contabile definisce il danno all'immagine come un pregiudizio il quale, pur non integrando una diminuzione patrimoniale diretta, è comunque suscettibile di valutazione patrimoniale, in quanto dal comportamento del convenuto è derivata una lesione di un bene giuridicamente rilevante.

La fattispecie in esame integra un nocumento alla reputazione e all'onorabilità dell'ente pubblico per effetto dell'illecito perpetrato da un suo funzionario, che ha, quale conseguenza diretta e immediata, l'incrinazione negli amministrati dei sentimenti di affidamento e di appartenenza alle istituzioni che giustifica la stessa collocazione dello Stato apparato e degli altri enti.

Secondo l'orientamento giurisprudenziale consolidato, esso è configurabile allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell'ente, equivalente ai diritti fondamentali della persona umana consacrati nella Costituzione, fra i quali l'immagine dell'ente stesso.

La condotta amministrativa antigiuridica aumenta le distanze tra i cittadini e l'amministrazione pubblica, che non viene più vista come un'organizzazione diretta al perseguimento dell'interesse collettivo, bensì come struttura atta al perseguimento di interessi di parte.

Parte della dottrina ravvisa il fondamento costituzionale dell'istituto nell'art. 97, comma 2, Cost.. Una parte minoritaria della giurisprudenza lo estende all'art. 54 Cost., poiché fa rientrare nella disciplina costituzionale del dovere di fedeltà alla Repubblica la tutela dell'immagine e del prestigio della PA.

Le regole per l'accertamento

L'accertamento del danno all'immagine ha subito un'evoluzione giurisprudenziale significativa nell'arco dell'ultimo decennio.

Talune pronunce del giudice contabile rilevano tale tipologia di danno indipendentemente dall'illecito penale, ovvero anche in assenza del predetto, ove l'illecito abbia una rilevanza e capacità lesiva per la sua intrinseca gravità e per il settore pubblico in cui interviene, da ingenerare una corale disapprovazione sociale e un persistente e diffuso senso di sfiducia della collettività nell'amministrazione.

Parte della giurisprudenza ancora l'accertamento della fattispecie ai seguenti criteri: oggettivo, soggettivo e sociale. Affinché ricorra tale fattispecie è sufficiente, infatti, che la condotta abbia una capacità offensiva intrinseca, sia connotata da dolo almeno contrattuale, abbia ad oggetto un bene - valore espressivo dell'immagine pubblica e procuri un certo allarme tra i consociati, il cosiddetto «clamor».

Altre pronunce vincolano la sussistenza della fattispecie in relazione ai reati contro la pubblica amministrazione. Altre ancora, affermano che la tutela del danno ricorra, allorquando esso derivi non solo ai predetti illeciti penali, ma anche ad ogni altro reato. Entrambi gli orientamenti escludono qualsivoglia forma di tutela nell'ipotesi di fatto illecito che non costituisca reato.

La Corte Costituzionale (C. Cost., sent.,15 dicembre 2010, n. 355), a tal proposito, interviene nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, argomentando che, al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilità per danni all'immagine dell'ente pubblico di appartenenza, configurabili soltanto a seguito di condanna penale definitiva del dipendente per i delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A., non sia possibile contemplare alcuna tutela risarcitoria nel caso di specie.

L'analisi ermeneutica del giudice di legittimità muove dall'esigenza ordinamentale di riduzione dei casi di responsabilità amministrativa, poiché l'assenza di limiti oggettivi potrebbe avere come conseguenza immediata un rallentamento nell'efficacia e nella tempestività dell'azione pubblica, a seguito dello stato di preoccupazione che deriverebbe in capo a coloro che esercitano l'attività amministrativa da un'applicazione estensiva dell'istituto.

La potenzialità dannosa va accertata nei singoli casi, poiché il danno all'immagine è conseguenza di condotte atipiche.

L'onere della prova grava sulla P.A. che deve comprovare siffatta voce di danno, mediante la produzione di articoli a stampa e/o con altri mezzi idonei a dimostrare il discredito subito, che ha arrecato un vulnus alla sua credibilità e autorevolezza (Tar Lombardia, Milano, sent., 20 marzo 2014, n. 736).

Il dibattito giurisprudenziale in ordine alla configurabilità dell'istituto con riguardo ai reati comuni o ai reati propri, ovvero quelli in cui la peculiare qualifica dell'autore assume rilievo per la fattispecie criminosa, viene superato dalla sentenza della Corte dei Conti, sezioni riunite in sede giurisdizionale, n. 8/2015/QM del 19 marzo 2015, che enuncia un principio di diritto, secondo il quale l'art. 17, comma 30-ter, D.L. n. 78/2009, convertito in L. n. 102/2009, deve intendersi nel senso che le Procure della Corte dei Conti possono esercitare l'azione per il risarcimento del danno all'immagine solo per i delitti di cui al capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale.

Il giudice contabile sostiene che «il legislatore ha voluto circoscrivere i reati ai soli delitti ex art. 314 e ss. c.p., da cui può derivare un vulnus all'immagine della P.A., poiché è stata esattamente individuata nell'art. 97 Cost. - che enuncia i canoni del buon andamento e dell'imparzialità e da cui discendono i principi di efficienza, efficacia ed economicità dell'agere amministrativo - la norma posta a tutela del bene da proteggere. Di conseguenza, fuori da tale ambito, ogni estensione dei casi previsti dalla normativa appare arbitraria».

Qualificazione del danno

La natura giuridica del danno all'immagine è ampiamente dibattuta.

In un primo momento, il giudice contabile (Corte dei Conti, S.U., sent. n. 10/QM/2003) ha fatto rientrare l'istituto nell'ambito del danno biologico e del danno esistenziale, sia pure depurato da aspetti «intimistici», inquadrando il caso di specie nella disciplina ex art. 2043 c.c.. Secondo tale orientamento, esso reca in sé una minaccia all'esistenza stessa dello Stato - comunità e impone una riorganizzazione con consequenziali costi per la collettività.

In un secondo momento, la fattispecie è stata fatta rientrare nell'alveo del danno morale ex art. 2059 c.c. .

Il dibattito giurisprudenziale sorto in ordine alla giurisdizione della Corte dei Conti a conoscere del danno morale ha portato a «superare» tale distinzione con il riconoscimento della natura giuridica di danno all'erario, ovvero di un danno derivante dagli esborsi economici dovuti per ripristinare l'immagine lesa della P.A., che consiste nella lesione della credibilità esterna dell'amministrazione e nella perdita di fiducia in capo ai consociati nella corretta e trasparente gestione e azione amministrativa.

«Nel giudizio di responsabilità amministrativa l'art. 17, comma 30-ter, D.L. n. 78/2009, convertito in L. n. 102/2009, che circoscrive la possibilità del P.M. presso il giudice contabile di agire per il risarcimento del danno all'immagine degli enti pubblici, introduce una condizione di mera proponibilità dell'azione di responsabilità davanti al giudice contabile e non una questione di giurisdizione, perché per incardinare la giurisdizione della Corte dei Conti è necessaria e sufficiente l'allegazione di una fattispecie oggettivamente riconducibile allo schema del rapporto d'impiego o di servizio del suo preteso autore e afferisce al merito ogni problema relativo alla sua effettiva esistenza (Cass. civ., S.U., sent., 10 marzo 2014, n. 5490)».

In atto, la dottrina prevalente (F. Caringella, Manuale di diritto Amministrativo, Dike) afferma che il pregiudizio in esame può essere inquadrato negli ambiti di seguito indicati:

  • in seno alla categoria del danno patrimoniale ingiusto per violazione di un diritto fondamentale della persona giuridica pubblica ex art. 2043 c.c. ed ex art. 2 Cost.;
  • in seno al danno esistenziale, inteso come tutela della propria identità, del proprio nome e della propria reputazione e credibilità;
  • in seno alla categoria del danno - evento e non del danno - conseguenza, poiché esso deve essere ammesso in sé senza dimostrazione alcuna di perdite patrimoniali, ovvero per la lesione grave a un diritto costituzionalmente protetto;
  • in seno alle fattispecie per le quali il giudice valuta in via equitativa ex art. 1226 c.c. secondo parametri di tipo oggettivo, soggettivo e sociale;
  • in seno alle fattispecie per le quali sussiste l'onere per l'attore di indicare le presunzioni, gli indizi e gli altri parametri che intende utilizzare sul piano probatorio.

Diversamente, la prevalente giurisprudenza fa rientrare il danno all'immagine nel novero del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., poiché esso consiste nella diminuita reputazione dell'ente presso i consociati conseguente alla lesione di diritti fondamentali della persona e afferma che il risarcimento sembra fondato non sull'offesa ex se inferta al diritto inviolabile, bensì sulle ripercussioni negative (perdita di prestigio) prodotte nella sfera esistenziale dell'ente. Esso, quindi, costituirebbe un danno - conseguenza, anziché un danno - evento, poiché per la sua configurazione non è sufficiente l'esistenza del reato (danno – evento), bensì occorre che da esso sia derivata, come conseguenza diretta, la lesione (danno – conseguenza), ovvero «in un accadimento collegato alla lesione della situazione protetta, sulla base di un nesso di causalità» (V. Raeli, Il danno all'immagine della PA tra giurisprudenza e legislazione, in Federalismi.it n. 14/2014).

Quantificazione del danno

Il D.L. n. 78/2009, convertito in L. n. 102/2009, art.17, comma 30-ter, ha introdotto la configurabilità di un danno all'immagine per la P.A. collegato a fattispecie criminose.

Tuttavia, l'ordinamento disciplina ulteriori ipotesi speciali di danno all'immagine della P.A.:

  • la L. n. 15/2009, all'art. 7, lett. e) conferisce al governo il compito di introdurre a carico del dipendente responsabile, l'obbligo di risarcimento del danno patrimoniale, pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché del danno all'immagine subito dall'amministrazione. L'art. 69, D.lgs. n. 150/2009 ha novellato il D. lgs. n. 165/2001 e ha introdotto l'art. 55 quinquies, che disciplina il danno all'immagine come voce autonoma e distinta dal danno patrimoniale, riconosciuto nel compenso corrisposto a titolo di retribuzione;
  • il D.lgs. n. 33/2013 stabilisce che l'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti dalla norma o la mancata predisposizione del programma triennale per la trasparenza e l'integrità costituiscono elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale ed eventuale causa di responsabilità per danno all'immagine dell'amministrazione.

Entrambe le disposizioni legislative introducono fattispecie tipizzate dell'istituto, ma non indicano la quantificazione del danno.

L'art. 1, comma 62, della L. n. 190/2012, che ha introdotto, il comma sexies, all'art. 1, L. n. 20/1994, sancisce che «nel giudizio di responsabilità l'entità del danno all'immagine della pubblica amministrazione derivante dalla commissione di un reato contro la stessa pubblica amministrazione accertato con sentenza passata in giudicato si presume, salva prova contraria, pari al doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente».

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