La compensatio lucri cum damno

Andrea Penta
26 Febbraio 2016

La compensatio lucri cum damno non può essere elevata a principio giuridico autonomo del nostro ordinamento, quanto, piuttosto, va considerata uno strumento di analisi del danno, che può concretarsi in un criterio o in un mezzo di valutazione in via equitativa del danno stesso. In tale ottica, si inserisce nel novero di quegli strumenti che la tradizione interpretativa e dottrinale mette a disposizione del giudice nella sua funzione di liquidatore del danno in via equitativa. In questa sua veste, il giudice non assume il ruolo - non suo - di perito contabile che iscrive a bilancio le poste del danno e dell'eventuale vantaggio allo scopo di ottenerne algebricamente il risultato che corrisponde al danno effettivamente patito dal danneggiato; piuttosto, seguendo il suo prudente apprezzamento, egli valuterà il danno ed eventualmente, ove ne ricorrano i già ricordati presupposti - e cioè il vantaggio per il danneggiato e la unicità del nesso eziologico - in una prospettiva di valutazione equitativa del danno, avrà a disposizione lo strumento della compensatio lucri cum damno, allo scopo di soddisfare efficacemente la fondamentale funzione equilibratrice alla quale deve sempre tendere il risarcimento del danno.
Premessa

La Terza Sezione civile, all'esito dell'udienza pubblica del 19 dicembre 2014, ha pronunciato l'ord. n. 4447/2015, depositata il 5 marzo 2015, con la quale, dopo aver ascritto, in una fattispecie di sinistro sciistico mortale, l'area del danno risarcibile alla disciplina del diritto dello Stato membro nel cui territorio si è verificato il danno (nel caso di specie, l'Italia), ha precisato che residuava stabilire se, in base all'ordinamento italiano, all'ambito del danno (patrimoniale) risarcibile a seguito di fatto illecito appartenesse o meno la prestazione previdenziale indennitaria, erogata a seguito dell'evento dannoso ed in funzione di sostentamento della vittima del sinistro o dei suoi aventi causa.

Indi, la Corte, premesso che nella fattispecie vengono in rilievo prestazioni di natura indennitaria (quali la pensione di reversibilità e la rendita agli orfani) erogate da un ente previdenziale tedesco, ha riportato i due orientamenti contrastanti formatisi al suo interno sul tema della cumulabilità o meno del risarcimento del danno patrimoniale conseguente al fatto illecito e delle prestazioni erogate dall'assicuratore sociale o dall'ente previdenziale e, quindi, dell'applicabilità o meno (recte, della portata) del principio della compensatio lucri cum damno nell'ambito delle conseguenze risarcitorie da fatto illecito.

Pertanto, rilevata l'esistenza di un contrasto di giurisprudenza tra le sezioni semplici e, quindi, ritenuti sussistenti i presupposti di cui all'art. 374, comma 2, c.p.c., ha rimesso gli atti al Primo Presidente, perché valutasse l'opportunità di assegnare il ricorso alle Sezioni Unite.

In data 17 novembre vi è stata l'udienza pubblica e si è in attesa della decisione (rel. Vivaldi).

L'orientamento prevalente della Suprema Corte

Con la sentenza Cass., 30 settembre 2014, n. 20548, la stessa Sezione Terza Civile di questa Corte (est. Scarano L.A.) aveva riacceso il dibattito sulla questione, statuendo che il principio della compensatio lucri cum damno trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l'incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito. In quest'ottica, il Collegio, nel caso di specie, aveva statuito che non potesse detrarsi dal complessivo risarcimento quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all'invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall'atto illecito e non hanno finalità risarcitorie.

L'approdo decisorio che caratterizza la menzionata decisione, lungi dal risultare isolato, viene ad inserirsi in un cospicuo filone giurisprudenziale ampiamente nutrito di numerose altre pronunce, fra cui si segnalano Cass., sez. 3, sent., 10 marzo 2014, n. 5504; Cass., sez. 3, sent., 11 febbraio 2009, n. 3357; Cass., sez. 3, sent., 25 agosto 2006, n. 18490; Cass., sez. 3, sent. 19 agosto 2003, n. 12124; Cass., sez. 3, sent.31 maggio 2003, n. 8828; Cass., sez. 3, sent., 25 marzo 2002, n. 4205; Cass., sez. 3, sent., 27 luglio 2001, n. 10291; Cass., sez. 3, sent., 10 febbraio 1998, n. 1347; Cass., sez. 3, sent., 18 novembre 1997, n. 11440; Cass., sez. lav., sent., 21 agosto 1996, n. 7694; Cass., sez. 3, sent.14 marzo 1996, n. 2117.

La trama, fortemente unitaria, del percorso motivazionale che informa le predette decisioni può essere ricondotta ad un unico minimo denominatore, fondato sul rilievo che il principio della compensatio lucri cum damno, in virtù del quale il risarcimento non deve costituire fonte di lucro per il danneggiato, è suscettibile di applicazione soltanto nell'ipotesi in cui danno e lucro scaturiscano ambedue in modo “immediato e diretto” dal fatto illecito. Tale condizione, tuttavia, non si verifica nel caso di percezione di emolumenti previdenziali o assicurativi da parte della vittima o dei suoi prossimi congiunti, poiché, in tal caso, mentre il danno scaturisce dal fatto illecito, il diritto agli emolumenti previdenziali od assicurativi sorge direttamente dalla legge.

L'indirizzo minoritario

All'illustrato filone giurisprudenziale, largamente predominante si contrappone motivatamente altro orientamento di legittimità, di cui è espressione particolarmente compiuta Cass., Sez. 3, sentenza 13 giugno 2014, n. 13537. Quest'ultima decisione, in un caso di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, ha statuito che dall'ammontare del risarcimento deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento.

Nell'ambito dell'articolato iter motivazionale che ha condotto all'enunciazione dell'indicato principio di diritto ed alla correlativa negazione della cumulabilità del risarcimento del danno con gli eventuali benefìci assistenziali o previdenziali percepiti dai congiunti della persona defunta in conseguenza del fatto illecito, la Corte non ha trascurato di puntualizzare, in via di opportuna premessa, come la sentenza “capostipite” da cui ha preso sviluppo il predominante orientamento avversato, rappresentata da Cass., sez. 3, sent., 7 febbraio 1958, n. 370, riguardasse in realtà un caso di “compensazione” non fra danno da morte e benefici previdenziali, ma fra debito risarcitorio e vantaggio acquistato dal parente della vittima per effetto dell'accettazione dell'eredità del defunto. È chiaro che non si può far luogo alla compensazione se il lucro ripete la sua fonte e la ragione giuridica da titolo diverso (nella specie, successione ereditaria) dal fatto illecito e la morte rappresenta solo la condizione perché quel titolo spieghi la propria efficacia.

Le critiche mosse all'orientamento prevalente

Nell'analizzare i vulnera che l'orientamento tradizionale presenterebbe sul piano logico, dogmatico e sistematico, la sent. n. 13537/2014 evidenzia, in primo luogo, come, sotto un profilo prettamente logico, la compensatio lucri cum damno non possa essere intesa come una vera e propria “compensazione” fra crediti e debiti, «perché è assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sé solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno». In realtà, si osserva, «la c.d. compensatio lucri cum damno costituisce piuttosto una regola per l'accertamento dell'esistenza e dell'entità del danno risarcibile, ai sensi dell'art. 1223 c.c.». I concetti di “lucro” e di “danno”, pertanto, non andrebbero concepiti come un credito ed un debito geneticamente e contenutisticamente autonomi, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte; del “lucro” derivante dal fatto illecito occorrerebbe, invece, stabilire unicamente se esso costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell'art. 1223 c.c.. Dubbi sussistono in ordine alla riconducibilità dell'istituto in esame a quello della compensazione disciplinato dagli artt. 1241 ss. c.c.. Invero, mentre nella compensazione, quale causa di estinzione dell'obbligazione, la reciprocità di debiti e crediti presuppone l'esistenza di due separati ed autonomi patrimoni appartenenti a due soggetti diversi, la “compensazione” da operarsi tra lucro e danno, invece, è riferibile ad un unico assetto patrimoniale. Il fatto illecito, infatti, ha contemporaneamente cagionato un danno e corrisposto un vantaggio nella sola sfera giuridica del soggetto danneggiato, sicché manca in assoluto il riferimento ad un elemento di reciprocità tra due posizioni debitorie.

In secondo luogo, la menzionata sentenza rileva come, sul piano dogmatico, l'affermazione secondo cui la regola della compensatio opera soltanto se “danno” e “lucro” scaturiscano in modo diretto ed immediato dal fatto illecito appaia frutto di un inconsapevole fraintendimento della dottrina tradizionale. Quest'ultima, infatti, aveva individuato la necessità che danno e lucro derivassero dalla stessa condotta del responsabile. Successivamente, la medesimezza della condotta, applicata sempre più tralatiziamente la regola che su di essa si imperniava, si era trasformata, dapprima, nella “medesimezza del fatto”, e, poi, nella “medesimezza della fonte” tanto del lucro quanto del danno. Ma è ovvio che altro è affermare che danno e lucro, per essere compensati, devono scaturire da una unica condotta del danneggiante, ben altro è sostenere che debbano scaturire dalla stessa causa. Mentre, infatti, la prima concezione ammetteva il concorso di cause, la seconda lo esclude.

Sul piano sistematico, la decisione in esame ritiene che l'orientamento tradizionale, nell'affermare che soltanto il diritto al risarcimento è conseguenza del fatto illecito, mentre il diritto alla pensione di reversibilità ha per fonte una norma di legge ed il fatto illecito (rispetto a tale diritto) costituirebbe al più una “mera occasione”, non risulti più coerente con la concezione di causalità che si è venuta sviluppando nella giurisprudenza della Corte - fondata sul criterio della condicio sine qua non -, in virtù del quale «tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota» (ex multis, Cass., sez. 3, sent., 13 settembre 2000, n. 12103). In quest'ottica, il nesso di causalità andrebbe inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento potrebbe anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (Cass., sez. 3, sent. 21 dicembre 2001, n. 16163, Rv. 551313).

In tale prospettiva, non sarebbe corretto interpretare l'art. 1223 c.c. in modo “asimmetrico”, ritenendo che il rapporto fra illecito ed evento possa anche non essere diretto ed immediato quando si tratta di accertare il danno, ed esigendo, all'opposto, che lo sia quando si deve accertare l'eventuale vantaggio originato dal medesimo fatto illecito.

Sempre sul piano sistematico, si osserva, infine, che l'orientamento che nega la compensazione fra il danno ed i benefici percepiti dall'ente previdenziale o dall'assicuratore sociale «finisce per abrogare in via di fatto l'azione di surrogazione spettante (ex artt. 1203 e 1916 c.c., o in virtù delle singole norme previste dalla legislazione speciale) a quest'ultimo», posto che il responsabile del sinistro, se obbligato a corrispondere alla vittima l'intero risarcimento senza poter tener conto dei benefici previdenziali od assicurativi dalla stessa conseguiti per effetto dell'illecito, non potrebbe poi essere costretto dall'ente previdenziale od assicurativo a rifondergli le somme da questo pagate alla vittima stessa.

L'angolo prospettico dal quale analizzare il problema

Così tratteggiate le fondamentali coordinate argomentative della sent. n. 13537/2014, va, altresì, sottolineato come la stessa ripercorra, condividendole, le tappe motivazionali di una serie di precedenti decisioni, espressamente richiamate, che convergono nel riconoscere come l'indennizzo corrisposto incida, in realtà, sull'entità del danno patrimoniale.

In particolare, il secondo, minoritario, orientamento, contrario alla cumulabilità del risarcimento del danno con eventuali benefici assistenziali o previdenziali percepiti dai congiunti della persona defunta in conseguenza del fatto illecito, si fonda sul seguente sillogismo:

  • il beneficio erogato dall'assicuratore sociale (o dall'ente previdenziale) ha lo scopo di attenuare il danno patrimoniale subìto dai familiari della vittima;
  • di conseguenza, esso elide in parte qua il danno subito da questi ultimi;
  • ergo, non tanto di compensatio lucri cum damno si dovrebbe parlare in casi simili, quanto di inesistenza stessa in concreto del danno patrimoniale, per la parte elisa dal beneficio assicurativo.

Si richiamano, in particolare, Cass., sez. 3, sent., 15 aprile 1988, n. 3806; Cass., sez. lav., sent., 24 maggio 1986, n. 3503; Cass., sez. 3, sent., 16 novembre 1979, n. 5964, tutte in tema di detraibilità della capitalizzazione della rendita Inail dal risarcimento del danno da corrispondere all'infortunato, al fine di evitare una sua ingiustificata locupletazione; corollario di tale impostazione è che, in parte qua, il responsabile sarà obbligato nei soli confronti dell'istituto assicuratore e non più verso il danneggiato, essendo stato costui già risarcito dall'Istituto. Nel senso che l'ammontare corrisposto per contratto da compagnie private di assicurazione ovvero erogato per legge da istituto previdenziale delimiti l'ambito del danno patrimoniale da lucro cessante risarcibile, incidendo sulla relativa entità effettiva, cfr. Cass., sez. 3, 15 aprile 1998, n. 3806, in Gius. Civ. Mass. 1998, 804, e, più di recente, Cass., sez. 3, 13 giugno 2014, n. 13537.

La funzione del risarcimento del danno

Come è noto, la manualistica classica colloca il risarcimento del pregiudizio sofferto nell'ambito delle sanzioni (civili) riparatorie, il cui scopo è quello di reintegrare il danno provocato dalla violazione della situazione giuridica soggettiva.

È altrettanto noto che, in disparte le opinioni contrarie (minoritarie), la funzione del risarcimento del danno è squisitamente compensativa, nel senso che:

  1. la tutela risarcitoria non può avere funzione punitiva;
  2. il danneggiato non può arricchirsi in occasione dell'illecito;
  3. il danneggiante non è tenuto a versare oltre quanto ripara il pregiudizio.

Queste regole di governo della materia si esemplificano nell'affermazione che «il risarcimento non deve né arricchire, né impoverire il danneggiato». Tale principio è anche detto “principio di indifferenza”, perché per la vittima dovrebbe essere pecuniariamente indifferente non patire il danno, ovvero patire il danno ma intascare il risarcimento.

Va, peraltro, segnalato, in senso contrario, la Cass., sez. 3, sent., 10 febbraio 2009, n. 3357, a mente della quale non rileverebbe che, in conseguenza del cumulo della pensione di reversibilità e del risarcimento, la vittima si venga a trovare in una situazione patrimoniale più favorevole di quella in cui si sarebbe trovata in assenza dell'illecito.

In conclusione

La compensatio si inserisce nel novero di quegli strumenti che la tradizione interpretativa e dottrinale mette a disposizione del giudice nella sua funzione di liquidatore del danno in via equitativa. Invero, in una prospettiva di valutazione equitativa del danno, il giudice avrà a disposizione tale strumento, allo scopo di soddisfare efficacemente la fondamentale funzione equilibratrice alla quale deve sempre tendere il risarcimento del danno.

Si tratta, in definitiva, di identificare l'esatto perimetro del “danno risarcibile”.

Esistono nell'ordinamento previsioni normative che sembrano deporre in favore della soluzione condivisa dall'orientamento minoritario:

  • artt. 1149 (compensazione tra il diritto alla restituzione dei frutti e l'obbligo di rifondere al possessore le spese per produrli) e 1479 c.c. (compensazione tra minor valore della cosa e rimborso del prezzo, nel caso di vendita di cosa altrui);
  • art. 1592 c.c. (compensazione del credito del locatore per i danni alla cosa con il valore dei miglioramenti);
  • l. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 1-bis, (compensazione del danno causato dal pubblico impiegato con i vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione);
  • art. 2497, comma 1, c.p.c. (vantaggi compensativi in tema di responsabilità della società cd. capogruppo di una holding).

Da tali disposizioni si potrebbe ricavare un principio generale che - messa da parte la compensatio lucri cum damno - comunque osta a che il danneggiato incameri l'integralità del risarcimento (e, quindi, cumuli, ad esempio, danno e trattamento pensionistico) là dove parte del pregiudizio sia stato altrimenti ristorato (c.d. aliunde perceptum).

È anche vero, peraltro, che, se si intende il danno come evento concretamente lesivo di un singolo bene o interesse del soggetto, indipendentemente dalle altre conseguenze (anche favorevoli) che quel medesimo evento lesivo ha prodotto nella sfera patrimoniale del danneggiato complessivamente intesa, ne deriva che, quando per circostanze sia pure fortuite esso sia cessato o diminuito, ci si trova di fronte, piuttosto che ad un lucro da compensarsi, a cessazione o diminuzione del danno.

Viceversa, se si prende in considerazione il danno all'esito di un giudizio ipotetico, quale espressione della differente situazione patrimoniale in cui il soggetto danneggiato si sarebbe trovato se il fatto in questione non si fosse verificato, avrà allora senso applicare il principio della compensatio, in quanto, ai fini dell'individuazione del danno risarcibile, si dovrà tener conto di tutte le conseguenze derivate dall'illecito.

Ma allora, più che alla distinzione tra i diversi concetti di danno, sarebbe utile far riferimento alla nozione di oggetto o misura del risarcimento.

In conclusione, al di fuori dei casi espressamente disciplinati dalla legge (si pensi alla “speciale elargizione” prevista dalla l. 13 agosto 1980, n. 466) e dell'ipotesi peculiare della pensione privilegiata, la scelta dovrà concentrarsi sull'inquadramento dell'istituto nell'ambito dell'art. 1223 c.c. o dell'art. 2041 c.c.. Da questo punto di vista, non può dimenticarsi che il principio della compensatio lucri cum damno è nato come espressione del più ampio e generale principio che vieta di locupletarsi cum aliena jactura (secondo la quale il danno non deve essere fonte di lucro e la misura del risarcimento non deve superare quella dell'interesse leso).

Incertezze potrebbero, infine, residuare nel caso in cui le poste compensative del risarcimento e dell'indennizzo (lato sensu) non avessero la stessa natura giuridica (in relazione alla fonte) e, quindi, concernessero beni non omogenei (ad esempio, non potrebbe operare la compensazione qualora la polizza coprisse voci di pregiudizio patrimoniale – spese mediche, perdita di guadagno -, laddove il danno azionato in via risarcitoria contro il responsabile attenesse a profili non patrimoniali), nel qual caso potrebbe ugualmente (cioè anche a voler prestare adesione alla tesi contraria al cumulo) dubitarsi sulla sovrapponibilità delle due forme di ristoro (sulla omogeneità delle poste da porre in compensazione si segnala Cass., sez. 3, sent., 6 ottobre 1997, n. 9704 e Cass., sez. 3, sent., 19 giugno 1996, n. 5650).

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