La claims made, nella rc professionale, vive e lotta con noi

28 Settembre 2017

L'articolo affronta il tema caldo, e controverso, della validità nel nostro sistema di assicurazione della rc professionale obbligatoria, della clausola claims made. Si affronta in particolare la questione della ammissibilità nell'ordinamento del patto negoziale in parola alla luce delle ultime pronunce della Corte di Cassazione (nn. 10506 e 10509 del 28 aprile 2017) e della magistratura ordinaria, che si specchiano nei recenti provvedimenti legislativi, letti in un'ottica ammissiva della clausola (art. 11 l. n. 24/2017 e art. 1, comma 26 l. n. 124/2017).
Premessa

Se è vero che la recentissima legge n. 24 dell'8 marzo del 2017, entrata in vigore lo scorso 1 aprile (meglio nota come Legge Gelli), ha introdotto, assieme alla disciplina di numerosi aspetti legati alla materia della responsabilità sanitaria, un obbligo assicurativo per aziende ed operatori sanitari, seppur demandato ai decreti attuativi previsti dall'art. 10 della stessa legge, è altrettanto vero che, quanto ai contenuti del predetto obbligo assicurativo, permangono importanti sacche di incertezza e rilevanti conflitti interpretativi, fonte possibile di grave destabilizzazione nel mercato della assicurazione della responsabilità civile professionale.

Esempio di questa accresciuta incertezza disciplinare sono le alterne vicende (e travagliate vicissitudini) che coinvolgono una clausola contrattuale divenuta cardine del sistema della assicurazione per la responsabilità degli esercenti le professioni intellettuali.

Alludiamo al patto che da tanti anni oramai disciplina i contratti assicurativi in questione sotto il profilo del regime temporale applicabile, e che fa perno sulla generazione dell'obbligo di garanzia in capo l'assicuratore per la richiesta danni denunciata in pendenza del contratto.

La clausola, meglio nota come claims made, a lungo ritenuta illegittima sotto vari profili giuridici da parte della dottrina e della giurisprudenza, ha avuto di recente importanti riconoscimenti da parte del legislatore culminati con la sua materiale traduzione nell'ordinamento.

Che tuttavia la questione permanga assai controversa, e che ancora lontano appaia un approdo interpretativo uniforme e condiviso nonostante i provvedimenti normativi degli ultimi tempi, è testimoniato dalle due recentissime sentenze “gemelle” rese dalla Suprema Corte di Cassazione lo scorso 28 aprile (Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017 n. 10506 e Cass. civ., sez. III, 28 aprile n. 10509).

Va detto subito che le due decisioni sono state rese in esito alla Camera di consiglio convocata in data antecedente alla promulgazione della l. n. 24 e che, pertanto, i principi ivi esposti dovranno trovare una riconduzione logica e normativa sul piano dispositivo, con riguardo proprio alle importanti novità introdotte in particolar modo dall'art. 11 della legge 24/2017.

Resta però evidente, dal tenore delle due decisioni che ci apprestiamo a commentare, che numerose rimangono ancora le “sacche di resistenza” ideologiche e giuridiche a sbarrare la strada al pieno riconoscimento di un criterio di delimitazione del rischio assicurativo riconosciuto valido a livello internazionale, ma che, benché appunto ammesso di recente nel nostro ordinamento, vede ancora posti in dubbio i suoi canoni definitori, ritenuti non conformi ai principi cardine del codice civile.

Le due sentenze, nell'affrontare la tematica della legittimità della clausola claims made alla luce dei principi nomofilattici resi dell'altrettanto recente decisione a Sezione Unite della Suprema Corte di Cassazione lo scorso 6 maggio 2016 (Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 2016 n. 9140), giungono in ogni caso a riaffermare l'illegittimità della struttura distintiva della clausola in esame, non solo nel contesto del caso specifico, ma, con argomentazione di sistema e quindi astrattamente applicabile alla generalità dei contratti.

Non bastasse, uscendo dallo stretto ambito della assicurazione della rc professionale medica, di recente il legislatore ha pensato bene di intervenire con una regolazione parziale nella disciplina temporale della assicurazione obbligatoria professionale, introducendo (comma 26, art. 1, l. n. 124 del 4 agosto 2017, nota come “Legge Concorrenza”) un obbligo per le imprese di assicurazione di prevedere «l'offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura».

L'incrocio tra disciplina normativa e sentenze rese nel medesimo periodo al più alto livello di giurisdizione hanno creato qualche complessità interpretativa che vorremmo provare a risolvere con questo contributo.

Una cosa deve essere detta fin da subito.

Uscendo dalle secche di una sterile contrapposizione ideologica, la clausola contrattuale, liberamente negoziata fra le parti, definita claims made appare oggi tutt'altro che esclusa dal panorama disciplinare dell'obbligo assicurativo per le polizze professionali, ma semmai rinvigorita dalle stesse emanazioni legislative non certamente superabili con alcune pronunce rese in epoca antecedente alla promulgazione della Legge Gelli ovvero da posizioni dottrinali che non danno, a nostro giudizio, la giusta valenza ai recentissimi provvedimenti normativi (v. M.LIGUORI, Clausola Claims Made bye-bye: l'assicurazione obbligatoria della rc dei professionisti vira inaspettatamente verso la loss occurrance, in Ridare.it).

Nella trattazione che segue, dunque, abbiamo pensato di esaminare in sequenza cronologica tanto le recentissime decisioni della Suprema Corte di Cassazione, quanto gli effetti concreti della “Legge Concorrenza” per giungere ad una conclusione che possa apparire propositiva e positiva in ordine ad una questione assai complessa (la validità odierna della clausola claims made appunto nel nostro ordinamento) ma così rilevante nel panorama della offerta dei prodotti assicurativi finalizzati ad assolvere un obbligo di stipulazione delle garanzia posto oggi in capo tanto ai singoli professionisti che alle aziende sanitarie o socio sanitarie.

Le sentenze gemelle nn. 10506 e 10509 del 28 aprile 2017

Le vicende dalle quali originano le due decisioni in esame sono di fatto sovrapponibili.

I fatti di causa attengono, in entrambi i casi, ad una responsabilità per errore sanitario commesso all'interno di due aziende ospedaliere. In entrambi i casi le aziende provvedevano alla chiamata in garanzia della impresa di assicurazione la quale negava la copertura in forza della circostanza che il contratto fosse cessato al momento in cui l'assicurata ricevette la prima richiesta danni.

Le polizze in forza delle quali era stata invocata in giudizio l'obbligo di garanzia, contenevano entrambe la clausola denominata claims made contestata, circa la sua efficacia e validità, dall'azienda sanitaria presso la Suprema Corte.

In particolare, si noti che in entrambe i casi l'errore clinico (e quindi l'antecedente causale) era stato commesso nel lasso temporale tra la data di stipula della polizza e la sua cessazione. Analogamente, le prime richieste danni (e con esse le denunce di sinistro) erano però intervenute in seguito alla cessazione della polizza per la sua naturale scadenza.

Per queste ragioni, l'impresa di assicurazione in entrambi i giudizi contestava l'operatività della polizza, ritenendo che tanto la prima richiesta danni quanto la successiva denuncia da parte dell'azienda assicurata fossero intervenute tardivamente rispetto al termine estintivo dell'efficacia temporale della polizza.

La questione approda così per entrambe le procedure avanti la Suprema Corte che, decidendo con due motivazioni specchiate, ritiene in entrambe i casi illegittima la clausola in argomento secondo il principio di diritto che «la clausola c.d. claims made, inserita in un contratto di assicurazione della responsabilità civile stipulato da un'azienda ospedaliera, per effetto della quale la copertura esclusiva è prestata solo se tanto il danno causato dall'assicurato, quanto la richiesta di risarcimento formulata dal terzo, avvengano nel periodo di durata dell'assicurazione, è un patto atipico immeritevole di tutela ai sensi dell'art. 1322, comma 2, c.c., in quanto realizza un ingiusto e sproporzionato vantaggio dell'assicuratore, e pone l'assicurato in una condizione di indeterminata e non controllabile soggezione».

Approdate, per effetto di contrapposte censure, alla attenzione della Suprema Corte, le due vicende vengono quindi risolte con la esclusione di validità delle due clausole connotate dalla delimitazione della garanzia alla condizione che la prima richiesta danni pervenga in pendenza di polizza e non, come nei casi esaminati, successivamente alla sua naturale cessazione.

A ben vedere, dunque, più che una sentenza sulla “meritevolezza” della singola clausola regolatrice della fattispecie concreta, appare una decisione orientata ad escludere in radice la valenza disciplinare ed integrale della struttura della clausola così detta claims made, perché, come vedremo in dettaglio, l'argomentare critico alla sua valenza appare coinvolgere l'intero impianto formativo e caratteristico della clausola in questione, col fine di renderla sempre e comunque invalida a prescindere dalla analisi del singolo caso.

Non altrimenti potrebbe essere intesa l'affermazione di immeritevolezza di una clausola che «escluda l'indennizzabilità delle richieste postume», condizione che costituisce definizione ed essenza strutturale tipica della clausola claims made, senza la quale condizione il patto semplicemente non ha ragione di esistere.

Negarne infatti la validità in assenza di postuma equivale ad escluderla sempre e comunque dal nostro sistema assicurativo.

Per affrontare il tema a la valutazione (a nostro giudizio) assai critica delle due sentenze, occorre ripercorrere l'iter argomentativo delle decisioni in commento le quali, ovviamente, attingono in premessa alle indicazioni nomofilattiche recentissime delle Sezioni Unite della stessa Corte (Cass. civ., 6 maggio 2016 n. 9140, v. su questa Rivista l'ampio spazio dedicato alla decisione: M.HAZAN, La claims made è salva! ma non troppo......; M.RODOLFI, La claims made: tra liceità e meritevolezza, quanti problemi per gli operatori del diritto, il legislatore e le associazioni di categoria; C.ALTOMARE, Sezioni Unite n. 9140/2016: perché non si scioglie ancora il nodo della claims made; F.MARTINI, Le criticità sulla "claims made” dopo le Sezioni Unite: i nodi vengono (subito) al pettine, commento a Trib. Milano, sez. I, sent., 15 giugno 2016, n. 7149).

Ma proprio l'esame delle premesse e delle conseguenze da esse tratte nella motivazione delle sentenze in commento, legittimano, a nostro giudizio, alcune perplessità nella linearità logico-deduttiva e giuridica delle stesse, finendo con il dare conferma alla nostra convinzione circa la “vitalità” della clausola in parola.

L'esame delle decisioni “gemelle”

Nella premessa argomentativa delle due decisioni “gemelle” del 2017 (Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017 n. 10506 e Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017 n. 10509) la Corte riassume proprio i canoni di “legittimità condizionata” della clausola claims made, alla luce delle regole dettate dalle sezioni Unite e rammentando che con la sentenza n. 9140 è stato definitivamente stabilito che:

«(a) la clausola claims made, nella parte in cui consente la copertura di fatti commessi dall'assicurato prima della stipula del contratto, non è nulla, e non rende nullo il contratto di assicurazione per inesistenza del rischio, ai sensi dell'art. 1895 c.c.;

(b) la clausola claims made, nella parte in cui subordina l'indennizzabilità del sinistro alla circostanza che il terzo danneggiato abbia chiesto all'assicurato il risarcimento entro i termini di vigenza del contratto, delimita l'oggetto di questo, e non la responsabilità dell'assicuratore, e di conseguenza non è vessatoria;

(c) la clausola claims made, pur non essendo vessatoria, potrebbe tuttavia risultare in singoli casi specifici non diretta a "realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l'ordinamento giuridico", ai sensi dell'art. 1322 c.c.».

La valutazione di meritevolezza, dunque, che in estrema sintesi attiene al profilo residuale di legittimità della clausola in parola, va compiuta in concreto e non in astratto, valutando:

  • se la clausola subordini l'indennizzo alla circostanza che sia il danno, sia la richiesta di risarcimento da parte del terzo avvengano nella vigenza del contratto;
  • la qualità delle parti;
  • la circostanza che la clausola possa esporre l'assicurato a "buchi di garanzia".

Per sostenere dunque che le due clausole esaminate (analoghe nella regolamentazione) non superino il vaglio di meritevolezza richiesto dall'art. 1322 c.c. e che non possano essere ritenute valide nella disciplina temporale della copertura a favore delle aziende sanitarie che le avevano invocate, la Corte rammenta che tale valutazione «non si esaurisce nella liceità del contratto, del suo oggetto o della sua causa. Secondo la Relazione al Codice civile, la meritevolezza è un giudizio (non un requisito del contratto, come erroneamente sostenuto da parte della dottrina), e deve investire non il contratto in sé, ma il risultato con esso perseguito».

Richiamando una serie di decisioni del supremo Collegio che nel tempo si sono cimentate nel vaglio di “meritevolezza” di svariate clausole contrattuali atipiche, la Corte riduce tale annosa esperienza alla considerazione che sono stati sempre ritenuti immeritevoli contratti o patti contrattuali i quali avevano per scopo o per effetto di:

«(a) attribuire ad una delle parti un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita per l'altra;

(b) porre una delle parti in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all'altra;

(c) costringere una delle parti a tenere condotte contrastanti coi superiori doveri di solidarietà costituzionalmente imposti».

Se questi dunque sono i te canoni di valutazione della meritevolezza alla quale si deve allineare l'interprete, la Corte ritiene conclusivamente che le pattuizioni in esame non potessero superare tale vaglio di legittimità alla luce di considerazioni che (è il nostro giudizio), partendo da una premessa ispiratrice incontrovertibile, cedono via via il passo sul piano prima di tutto logico ed empirico, che giuridico.

Vediamo dunque le ragioni, in dettaglio, che reggono le due sentenze del supremo Collegio e quelle del nostro dissenso.

La cronologia della vicenda esaminata nella sentenza Cass. civ., n. 10509/2017 (speculare a quella esaminata nella decisione Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017 n. 10506) ha una cadenza tipica tanto della casistica da colpa sanitaria, quanto di quella legata alle vicende contrattuali assicurative del ramo.

Si legge sul punto che «è incontroverso che quel contratto copriva il rischio di responsabilità civile, cui l'Azienda fosse rimasta esposta nell'esercizio della propria attività, ovvero lo svolgimento di prestazioni sanitarie. Come già detto, essa escludeva l'indennizzabilità delle richieste postume. È, infine, incontroverso che i sanitari dipendenti dell'Azienda causarono danno ad un paziente nel 2003; che il contratto di assicurazione scadde il 31 dicembre 2003; che il terzo danneggiato rivolse la sua richiesta di risarcimento all'Azienda nel 2005».

Se questa è la cadenza dei “fatti assicurativi” che caratterizzano la controversia sulla validità della polizza invocata in giudizio, la Corte ritiene che al vaglio di meritevolezza il patto non superi il primo degli indici suddetti di legittimità perché «la clausola claims made che escluda le richieste postume appare immeritevole di tutela, in quanto attribuisce all'assicuratore un vantaggio ingiusto e sproporzionato, senza contropartita».

Tale affermazione perentoria si basa sulla considerazione che «la clausola claims con esclusione delle richieste postume riduce infatti il periodo effettivo di copertura assicurativa, dal quale resteranno verosimilmente esclusi tutti i danni causati dall'assicurato nella prossimità della scadenza del contratto. È infatti praticamente impossibile che la vittima d'un danno abbia la prontezza e il cinismo di chiederne il risarcimento illico et immediate al responsabile».

A detta del Collegio, «ciò determina uno iato tra il tempo per il quale è stipulata l'assicurazione (e verosimilmente pagato il premio), e il tempo nel quale può avverarsi il rischio» a maggior ragione se si considera che «questo iato temporale è inconciliabile con il tipo di responsabilità professionale cui può andare incontro il medico, la cui opera può talora produrre effetti dannosi a decorso occulto, che si manifestano a distanza anche di molto tempo dal momento in cui venne tenuta la condotta colposa fonte di danno».

Il nostro giudizio è che il ragionamento non colga il senso della ampiezza del rischio assicurato.

Ancorché fosse vera la riflessione che in prossimità della cessazione del contratto di fatto l'assicuratore si troverebbe meno esposto alla eventualità di una denuncia di sinistro per fatto accaduto nello stesso ristretto periodo (eventualità possibile ma non scontata), il ragionamento omette di tenere in alcuna considerazione il fatto che, di contro, il profilo di rischio dell'assicuratore è vieppiù (e per le stesse ragioni) coinvolto nella fase della “retroattività” temporale di copertura, estensione, volontaria e concordata, a fatti antecedenti la stipula della polizza eppure vincolanti per l'assicuratore stesso.

Delle due l'una: o la polizza – nella valutazione del “periodo effettivo di copertura” – va intesa nella sua globale estensione temporale, ovvero il giudizio di meritevolezza su tale criterio non è perseguibile in una visione (come tradisce la decisone in commento) del tutto parziale e “zoppa”.

È proprio tipico della struttura della clausola claims made identificare lo spazio di garanzia nella estensione a fatti accaduti in un'epoca in cui il premio non era stato pagato e la polizza non esisteva.

Non appare corretto – sul piano logico deduttivo prima ancora che giuridico – un ragionamento che valuti la portata temporale del rischio assunto dall'assicuratore (anche in rapporto al regime sinallagmatico col premio pagato) senza tenere conto della totalità del vincolo negoziale e quindi della reale esposizione cronologica.

È proprio tale disciplina della retroattività a rendere sostenibile, oltre che appetibile per l'assicurato, la polizza caratterizzata da tale disciplina. E questo proprio alla luce della ampia ed esauriente trattazione che si legge nella più volte citata decisione n. 9140 del 2016.

Nel caso trattato (lo si apprende tra le righe della decisione Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017 n. 10506) la polizza prevedeva una “retroattività” di tre anni a partire dalla data di accensione della copertura e appare dunque carente la considerazione di immeritevolezza qui analizzata, nella misura in cui abbia omesso ogni valutazione sulla portata riequilibratrice di questo lasso di tempo, rispetto allo iato temporale sul quale invece ha espresso un giudizio di negatività.

Non meno perplessità suscita il secondo motivo che, nell'argomentare delle due decisioni, porta alla declaratoria di immeritevolezza della clausola in esame.

Sostiene, infatti la Corte che «in secondo luogo, la clausola claims made che escluda le richieste postume appare immeritevole di tutela, in quanto pone l'assicurato in una posizione di indeterminata soggezione rispetto all'altra. La clausola claims made, infatti, fa dipendere la prestazione dell'assicuratore della responsabilità civile non solo da un evento futuro ed incerto ascrivibile a colpa dell'assicurato, ma altresì da un ulteriore evento futuro ed incerto dipendente dalla volontà del terzo danneggiato: la richiesta di risarcimento. L'avveramento di tale condizione, tuttavia, esula del tutto dalla sfera di dominio, dalla volontà e dall'organizzazione dell'assicurato, che non ha su essa ha alcun potere di controllo».

Questa osservazione appare in tutta la sua evidenza come una preconcetta ed ideologica mozione di avversità allo schema negoziale in esame.

Invero (ancorché possa non essere condiviso) lo schema tipico della clausola claims made pone proprio in evidenza non l'epoca della commissione dell'illecito (che costituisce l'elemento che caratterizza il contratto ai sensi dell'art. 1917 c.c.), bensì quello della prima richiesta danni che, anch'essa, potrebbe intervenire molto tempo dopo la commissione dell'illecito.

Che questo poi sia uno schema che sostiene più la posizione dell'assicurato (tutelato da una polizza da regime negoziale attuale) o dell'assicuratore (che usa questo strumento per l'esigenza amministrativa di attualizzare la finanziabilità del rischio), resta il fatto che l'uso commerciale della clausola e l'ampiezza della sua condivisione negoziata, ha portato col tempo a distribuire i profili di condivisibilità e sostenibilità in una realtà equilibrata e quindi legittimata.

Ma quello che ci pare assente nella valutazione delle sentenze in commento – a riguardo di questo secondo profilo di immeritevolezza denunciato – è ancora una volta una lettura ampia ed ispirata alle argomentazioni che pur reggono il dettato nomofilattico della più volte richiamata Cass. civ. n. 9140/2016 : la visione ammissiva e giustificata dell'intero impianto tecnico e giuridico della clausola claims made.

Basti leggere i seguenti passaggi della n. 9140/2016 che non trovano né indicazione, né, men che meno, ispirazione nelle motivazioni qui analizzate delle sentenze gemelle:

«Il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola claims made (a richiesta fatta) si caratterizza per il fatto che la copertura è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. sunset clause), laddove, secondo lo schema denominato "loss occurrance", o "insorgenza del danno", sul quale è conformato il modello delineato nell'articolo 1917 c.c., la copertura opera in relazione a tutte le condotte, generatrici di domande risarcitorie, insorte nel periodo di durata del contratto».

Stupisce quindi che una premessa di tale portata, che ammette nell'ordinamento una clausola rivolta al passato ed espressamente assente per il futuro, non abbia trovato ingresso nella valutazione dei casi oggi esaminati ed in alcun passaggio motivo delle due sentenze Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017 n. 10506 e Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017 n. 10509.

Ma vi è di più. Prosegue la motivazione della sentenza n. 9140 che «mette conto nondimeno rilevare, per una migliore comprensione degli interessi in gioco, che la sua introduzione (della clausola claims made ndr), circoscrivendo l'operatività della assicurazione a soli sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all'assicurato il risarcimento del danno subito, e il danneggiato assicurato ne dia comunicazione alla propria compagnia perché provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l'altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere».

Ebbene, questo essenziale passaggio – che di fatto sdogana nel nostro ordinamento la clausola in parola (ovviamente se ben delineata sotto il profilo della meritevolezza) – pone altresì alcune chiare indicazioni che ci paiono non adeguatamente considerate nelle decisioni in commento.

La Corte del 2016 ha chiaramente stabilito:

- che possa esistere una polizza che subordini la copertura non alla commissione del fatto ma alla sua denuncia conseguente alla prima richiesta danni;

- che ove la richiesta danni giunga alla cessazione del contratto, la stessa sia esclusa dalla copertura;

- che le parti possano concordare – si badi bene, solo a fronte di una volontà negoziale calibrata nel costo della polizza stessa – una “c.d. sunset clause”, vale a dire una sorta di postuma;

- che ove questa condizione non venga richiesta e negoziata, non di meno viene a mancare la legittimità dell'impianto del patto in parola;

- che, infine, la clausola esaminata ha una chiara valenza pratica macroeconomica per l'assicuratore, ammissibile e condivisibile nel nostro sistema.

Ci pare insomma che l'aver esteso il giudizio di meritevolezza alla presenza di una copertura postuma, ignorando la efficacia protettiva concreta e pratica di una ampiezza temporale di quella pregressa sia artificio non sostenibile, quanto meno sulla base dei principi nomofilattici di cui alla richiamata sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 9140/2016, alla quale pure le due decisioni qui esaminate mostrano di volersi ispirare.

Quanto poi alla terza ragione di immeritevolezza di una clausola che escluda le richieste postume, le due sentenze gemelle attingono ragione dalla considerazione che «la clausola in esame infatti, elevando la richiesta del terzo a "condizione" per il pagamento dell'indennizzo, legittima l'assicuratore a sottrarsi alle proprie obbligazioni ove quella richiesta sia mancata: con la conseguenza che se l'assicurato adempia spontaneamente la propria obbligazione risarcitoria prima ancora che il terzo glielo richieda (come correttezza e buona fede gli imporrebbero), l'assicuratore potrebbe rifiutare l'indennizzo assumendo che mai nessuna richiesta del terzo è stata rivolta all'assicurato».

Ma, per il vero, tale ragione appare essere più che altro una considerazione di sistema sulla applicazione di una norma pattizia alle vicende contrattuali possibili.

Il punto è, e deve rimanere, se una clausola siffatta risponda a criteri di derogabilità rispetto alla tipicità del patto in questione sotto l'aspetto della meritevolezza perché idoneo a realizzare interessi meritevoli di tutela.

Ebbene, in una visione più ramificata delle molteplici affermazioni contenute nella sentenza che ha dipanato un contrasto più che decennale in dottrina ed in giurisprudenza (appunto la Cass. civ., Sez. Un., n. 9140 del 2016) si è affermata la legittimità generale della clausola in argomento e si sono indicati canoni di meritevolezza primariamente nell'ottica della capacità protettiva della retroattività (con favor per le clausole così dette “pure”).

La sentenza quadro del 2016 non ha dunque minimamente posto in dubbio la natura della clausola “a prima richiesta”, ma ne ha confermato semmai l'impianto tipico che, per definizione ed essenza stessa del patto, non può in alcun modo prevedere una postuma, cosa che renderebbe inefficace l'impianto stesso della condizione tanto contestata.

Dire che la clausola claims made è conforme al nostro ordinamento solo se prevede una postuma equivale a rendere inesistente la clausola stessa che ha l'unica caratteristica di legare il sinistro alla prima contestazione della vittima e non mai al fatto.

La copertura per il periodo posteriore alla sua cessazione può risiedere solo (con l'accordo delle parti e con il pagamento di un premio aggiuntivo), come detto, in una “ultrattività o sunset clause”, ma tale evenienza non deve intaccare mai aprioristicamente la validità di un impianto negoziale altrimenti legittimo.

Un passaggio che “tradisce” una valutazione più ideologica che sostanziale del patto esaminato sta nella osservazione che si legge nella motivazione, laddove si riferisce che «la clausola claims made è un patto atipico, sorto in un ordinamento giuridico il cui diritto assicurativo è stato in passato, e resta ancor oggi, molto distante da quello italiano: per genesi, sviluppo e contenuto. In quanto patto atipico, alle parti è consentito adottarla solo se intesa a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo il nostro ordinamento giuridico».

Ma, come detto, il nostro Ordinamento ha ammesso l'impianto della clausola in parola con l'entrata in vigore dell'art. 11 della l. n. 24 del 2017.

La legge “Gelli” e la validazione della clausola claims made

Se, infatti, queste due decisioni appena analiticamente esaminate ci riportano alla incertezza interpretativa del giorno prima della sentenza n. 9140/2016, viene da chiedersi oggi se e quale effetto pratico la stessa potrà avere nel mercato e nell'attuale contenzioso di settore, tenendo conto delle recentissime novità normative che hanno interessato proprio e primariamente l'assicurazione della responsabilità civile da colpa in sanità.

Alludiamo quindi alla disposizione contenuta nell'art. 11 l. 8 marzo 2017 n. 24 il quale dispone che «la garanzia assicurativa deve prevedere una operatività temporale anche per gli eventi accaduti nei dieci anni antecedenti la conclusione del contratto assicurativo, purché denunciati all'impresa di assicurazione durante la vigenza temporale della polizza».

Aggiungiamo, in questa analisi, la valenza dispositiva dell'art. 1 comma 26 l. 4 agosto 2017 n. 124 (Legge Concorrenza), come si dirà al termine della presente trattazione, che riguarda non solo la disciplina della responsabilità professionale sanitaria.

Di fatto il Legislatore ha introdotto nel nostro ordinamento una figura tipizzante di clausola difficilmente attaccabile sul piano della sua legittimità.

Che per tipicità legale di un accordo si voglia, infatti, intendere «l'astratto modello regolamentare di una data operazione economica ricorrente nella vita di relazione» (BIANCA, Il Contratto), ovvero «la traduzione sul piano normativo di un dato tipo sociale, ossia di uno schema di operazione economica già affermatosi nella prassi» (GITTI, Riv.Dir.Civ., 2008), è chiara la indicazione normativa offerta dalla legge appena entrata in vigore:

  1. lo schema tipico della assicurazione, resa (si badi) obbligatoria, della responsabilità civile in sanità è quello strutturato con la clausola claims made (con retroattività decennale);
  2. viene altresì confermata la struttura tipica della polizza che preveda l'obbligo di denuncia «durante la vigenza temporale della polizza», senza alcuna previsione dunque di postume o dilatazioni temporali successive alla estinzione del patto;
  3. unica condizione in cui per legge andrà accesa una garanzia postuma (di dieci anni) è quella in cui (il medico) cessi definitivamente la propria attività.

Proprio quest'ultimo passaggio della legge induce una ulteriore riflessione sulla correttezza dell'impianto ora tipico della claims made perché attiene alla considerazione pratica che (a maggior ragione in vigenza di un obbligo assicurativo) di nessuna postuma dovrebbe aver bisogno l'assicurato (azienda o persona fisica) che, proprio assolvendo a detto onere di legge, abbia provveduto a contrarre una nuova polizza successivamente alla estinzione della precedente.

L'ulteriore efficacia pratica e protettiva sta semmai proprio nel fatto che la claims made induce necessariamente l'assicurato a contrarre la polizza successivamente alla data certa della estinzione della precedente, sapendo infatti che da quel preciso giorno – e per qualunque momento sia stato commesso l'errore – avrà bisogno di dotarsi di altro contratto e di altra copertura.

Appare opportuno chiedersi ancora, a fronte della portata potenzialmente “detonante” delle due decisioni in commento, che ne sarà del contenzioso oggi pendente sulla validità della clausola claims made che (come avviene sempre) non preveda alcuna condizione di operatività postuma.

Che effetto avranno, ancora, le considerazioni espresse dalle due decisioni ove si volesse sindacare la “meritevolezza” della clausola al di fuori della disciplina della assicurazione della responsabilità sanitaria e quindi rivolgendo lo sguardo a tutte le altre ipotesi di coperture della rc professionale ?

Il nostro giudizio è che le due sentenze, per le ragioni che abbiamo provato ad illustrare, non offrono spunti per un condivisibile sindacato di “meritevolezza” perché, come abbiamo detto, si collocano in parte fuori dal solco nomofilattico della sentenza n. 9140/2016, laddove invece tale sentenza ammetteva a sistema in via astratta la clausola pattizia, alla sola condizione che fosse adeguato il tempo della retroattività.

Neppure le due sentenze appaiono fornire un contributo adeguato alla valutazione di meritevolezza laddove ignorano un ulteriore provvedimento normativo, questa volta ad esse antecedente, che per la prima volta invero codificava (seppure in decretazione delegata) la valenza di una clausola claims made con retroattività limitata e nessuna postuma.

Il Decreto Ministeriale (DM Giustizia) del 22 settembre 2016, concernente le “Condizioni essenziali e massimali minimi delle polizze assicurative a copertura della responsabilità civile e degli infortuni derivanti dall'esercizio della professione di avvocato” (in esecuzione di quanto disposto dal d.l. n. 13 agosto 2011 n. 138, convertito con modificazioni dalla l. 14 settembre 2011, n. 148 e successive modifiche) disciplina oggi gli obblighi assicurativi posti in capo alla categoria professionale dei legali.

Tale obbligo sarà assolto alla entrata in vigore della disposizione tenendo conto che (art. 2. “Efficacia nel tempo della copertura assicurativa”) «l'assicurazione deve prevedere, anche a favore degli eredi, una retroattività illimitata e un'ultrattività almeno decennale per gli avvocati che cessano l'attività nel periodo di vigenza della polizza».

Appare questa norma specchiarsi nella disposizione di cui all'art. 11 l. n. 24/2017 (con la sola eccezione della retroattività illimitata in luogo di quella decennale), ivi compresa la previsione di una postuma esclusivamente legata alla ipotesi della cessazione della attività.

La Legge annuale per il mercato e la concorrenza (l. n. 24 del 4 agosto 2017)

A questo punto della trattazione, occorre esaminare il testo del comma 26 dell'art. 1 della Legge Concorrenza appena entrata in vigore per il quale, con riferimento alla copertura assicurativa obbligatoria per i professionisti (l. 14 settembre 2011, n. 148 e successive modifiche) è previsto che «In ogni caso, fatta salva la libertà contrattuale delle parti, le condizioni generali delle polizze assicurative di cui al periodo precedente prevedono l'offerta di un periodo di ultrattività della copertura per le richieste di risarcimento presentate per la prima volta entro i dieci anni successivi e riferite a fatti generatori della responsabilità verificatisi nel periodo di operatività della copertura. La disposizione di cui al periodo precedente si applica, altresì, alle polizze assicurative in corso di validità alla data di entrata in vigore della presente disposizione. A tal fine, a richiesta del contraente e ferma la libertà contrattuale, le compagnie assicurative propongono la rinegoziazione del contratto al richiedente secondo le nuove condizioni di premio».

Ebbene, occorre prima di tutto esaminare gli effetti cogenti di tale disposizione.

1) Le legge introduce, si badi bene, un obbligo di “offrire” tra le condizioni generali e le variabili assicurative possibili in una polizza che vada ad assolvere l'obbligo assicurativo di legge in capo ai professionisti, una condizione di “ultrattività” decennale;

2) l'opzione di estendere la cronologia assicurativa alla “ultrattività” deve essere proposta dall'assicuratore in sede di prima stipula delle prossime polizze, ovvero nel caso in cui “a richiesta del contraente” la polizza sia in essere alla data di entrata in vigore della disposizione (28 agosto scorso);

3) tale condizione è dunque rimessa alla “libertà contrattuale delle parti” – come ribadito in ben due passaggi della norma – e quindi è libera tanto nella valutazione del premio da proporre, quanto nella sua accettazione da parte del contraente professionista;

4) la norma in argomento, pertanto, non deroga in nulla alla disciplina contenuta nell'art. 11 della Legge Gelli che anzi prevede, in aggiunta, la protezione di una postuma obbligatoria nel caso di definitiva cessazione dell'attività professionale.

Non si condivide pertanto l'assunto interpretativo dato alla norma appena emanata secondo il quale la stessa avrebbe di fatto escluso la clausola claims made dal nostro panorama assicurativo, riportandoci ad una cogenza inderogabile del regime “loss occurrance (o del fatto generatore intervenuto in pendenza di polizza) come è stato affermato anche in questa Rivista (M. LIGUORI, Clausola Claims Made bye-bye: l'assicurazione obbligatoria della rc dei professionisti vira inaspettatamente verso la loss occurrance, in Ridare.it, 4 settembre 2017).

Le prime ragioni del dissenso risiedono nello stesso testo letterale esaminato.

La locuzione legata alla salvezza della libertà contrattuale delle parti è tutt'altro che una clausola di stile, ma una franchigia ineludibile da far valere prima di tutto nella stessa interpretazione letterale del testo appena entrato in vigore.

Tuttavia, la conferma definitiva della mera proponibilità della opzione legata alla ultrattività della polizza sta essenzialmente nella natura del contratto in esame: invocare la possibilità per il professionista assicurato di denunciare il sinistro anche dopo lo spirare del termine della polizza è una disciplina negoziale (facoltativa si ribadisce) che è applicabile solo al regime governato dalla clausola claims made.

Una polizza stipulata in regime “loss occurrance”, infatti, prevede in garanzia il solo momento del fatto generatore dell'illecito (l'antecedente causale), indipendentemente dal momento in cui il danneggiato agirà per il risarcimento e, pertanto, non necessita di una clausola che disciplini la ultrattività per la semplice ragione che la stessa facoltà è insita già nella struttura stessa del contratto.

Prevedere insomma l'obbligo di proporre una condizione di ultrattività (con maggiorazione di premio rispetto) per una polizza a copertura della rc professionale, equivale ad ammettere che il regime negoziale tipico di questa tipologia di contratti è quello proprio governato dalla clausola claims made.

Ultima considerazione circa la non vincolatività della ultrattività in parola nei testi di polizza sta nel fatto che un professionista che doverosamente assolva al proprio onere di stipulare una copertura per la propria responsabilità per la durata della propria attività non necessita di una clausola di ultrattività in quanto alla cessazione di un contratto, ne stipulerà un altro con lo stesso o con altro operatore assicurativo che gli garantirà il periodo temporale successivo in una condizione di continuità di copertura che proprio la clausola claims made (con adeguata ed efficace retroattività) potrà garantirgli.

Riflessi giurisprudenziali

Se, dunque, possiamo oggi ritenere che la clausola claims made sia da considerare lo strumento tipizzato della polizza (obbligatoria) a copertura della rc del professionista e delle strutture sanitarie e socio sanitarie (in virtù del dettato normativo dato dall'incrocio tra l'art. 11 l. n. 24/2017 e dell'art. 1 comma 26 l. n. 124/2017), resta da vedere, stante la posizione sopra commentata ancora fortemente critica della Cassazione verso questa regola, come si stia muovendo oggi la giurisprudenza di merito.

Va detto che un primo puntuale esempio di disapplicazione dei principi espressi nelle due decisioni in commento si rinviene nella sentenza appena resa dal Tribunale di Napoli (Trib. Napoli, 4 maggio 2017 n. 5156) in una ipotesi in cui la clausola in argomento prevedeva una retroattività di circa sei anni e la denuncia di sinistro (conseguente a prima richiesta danni) era intervenuta dopo la cessazione del contratto.

Si legge nella motivazione di questa ben articolata decisione (inedita oggi) che «Nella specie, dunque, esclusa – alla stregua dell'orientamento giurisprudenziale appena richiamato (Cass. civ., Sez. Un., n. 9140 del 2016, ndr) - la vessatorietà della clausola di cui si tratta … deve parimenti escludersi la sussistenza, con riguardo alla clausola in esame, della possibilità di un sindacato negativo in termini di meritevolezza, atteso che la clausola era, con tutta evidenza, destinata ad operare anche con riferimento alle richieste risarcitorie avanzate, nel corso del periodo di validità della stessa, a fronte di comportamenti dell'assicurato antecedenti alla stipulazione, cosicché, ferma restando la limitazione dell'oggetto della polizza agli eventi, errori od omissioni accaduti o commessi non prima del 30 agosto 2002 (con una retroattività, dunque, di circa sei anni rispetto all'epoca di conclusione della polizza), non è possibile ravvisare alcuna mancanza di corrispettività tra pagamento del premio e diritto all'indennizzo».

Quanto sopra nonostante la presa visione da parte del giudice estensore proprio di Cass. civ., sez. III, 28 aprile 2017 n. 10506, ritenuta “radicalmente priva di rilevanza”, in ragione della diversità della clausola in fatto afferente ad un diverso sindacato di meritevolezza.

Proseguendo in questo senso hanno ritenuto valida la clausola claims made anche nel regime che prevede l'obbligo di denuncia in pendenza di contratto, la stessa Suprema Corte (Cass. civ., ord. 25 maggio 2017 n. 13158 – retroattività biennale e denuncia post cessazione polizza), la Corte di Appello di Bari, (App. Bari, sent. 30 agosto 2017 n. 1200– retroattività di circa tre anni denuncia successiva alla cessazione della polizza), la Corte di Appello di Lecce (App. Lecce, sent. 4 settembre 2017 n. 869– denuncia di sinistro avvenuta cinque anni dopo la cessazione del contratto).

Conclusioni

In conclusione le due sentenze “gemelle” che non hanno mancato di suscitare un certo allarme nel mercato assicurativo per il loro impatto potenzialmente demolitivo della clausola claims made appaiono già “antiche” nel contesto disciplinare futuro – nell'ottica della resa a regime degli obblighi assicurativi previsti dalla recente normativa nazionale - e di non efficace impatto nel solco intertemporale dell'odierno contenzioso e dei giudizi di legittimità delle clausole claims made oggi portate alla attenzione dei giudici di merito.

Ciò in quanto, innanzitutto, come abbiamo cercato di argomentare più sopra, le due decisioni si traducono in una errata ed incompleta valutazione della disciplina negoziale (sul piano del sinallagma fattuale) che regola la condizione pattizia in questione e, non di meno, prendono spunto da una parziale visione dei principi normativi e nomofilattici proposti dalla decisione di Cass. civ., Sez. Un., n. 9140/2016, arrivando ad affrancarsi dalla sua posizione adesiva verso le caratteristiche primarie di questa clausola

,

oggi strumento di equilibrio economico attuariale tra rischio assicurabile e sostenibilità della spesa.

La clausola claims made è oggi elevata a strumento tipico di regolazione del contratto assicurativo e del suo regime temporale, dai provvedimenti normativi emanati negli ultimi mesi che hanno sdoganato, anche oltre lo schema tipizzante dell'art. 1917 c.c., una condizione che preveda l'obbligo di richiesta danni e di denuncia del sinistro in pendenza di polizza alla condizione che la retroattività che assorbe il momento commissivo dell'illecito sia adeguata ed efficace per l'assicurato, sia essa almeno decennale (art. 11 l. n. 24/2017), ovvero illimitata (art. 3 D.M. 22 settembre 2016).

È giunto forse il momento di mettere la parola fine alla lunga diatriba (per certi aspetti eccesiva), dalle sfumature spesso ideologiche, che ha accompagnato negli ultimi anni la questione della validità nell'ordinamento della clausola claims made.

Ove lo stesso patto – liberamente negoziato tra le parti si ribadisce – sia strutturato in maniera da garantire una adeguata copertura temporale, regolata in un modulo ampio nel contesto della retroattività, dovrà essere dichiarato valido ed efficace, nonché idoneo a disciplinare pienamente l'obbligo di continuità assicurativa oggi decretato in capo ai professionisti.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario