Prevedibilità ed evitabilità del danno nella condotta omissiva: responsabilità del Ministero della Giustizia per la sparatoria in Tribunale

Cristina Cataliotti
27 Novembre 2015

Le sentenze del Tribunale e della Corte d'Appello di Bologna individuano il soggetto responsabile dell'ingresso all'interno del Tribunale di Reggio Emilia di un'arma e della conseguente consumazione di una strage durante una separazione. Attribuiscono la colpa al Procuratore Generale della Corte d'Appello, in base al principio di immedesimazione organica, al Ministero della Giustizia, che risponde del fatto dei propri dipendenti. L'autore affronta il tema della prevedibilità ed evitabilità del danno, quali elementi costitutivi della condotta omissiva nella fattispecie dell'illecito aquiliano. Esamina, quindi, in chiave critica, la natura da riconoscersi ai Palazzi di Giustizia ai fini della valutazione dei rischi per la salute umana ad essi connessi e gli strumenti più idonei a neutralizzarli. Estremamente significativo è anche il tema dei criteri di quantificazione del danno patito dalle vittime. Mentre la sentenza di primo grado aveva previsto importi eccedenti i massimi contemplati dalle Tabelle di Milano, la Corte d'Appello riconduce i risarcimenti entro i limiti tabellari, confermando un orientamento ormai consolidato e consacrato in giurisprudenza.
Elementi della responsabilità aquiliana

Gli elementi costitutivi della responsabilità aquiliana, sono:

  • la condotta lesiva che può integrarsi in un'azione ovvero in un'omissione, purchè riferibile al soggetto responsabile;
  • il danno che deve potersi qualificare come ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l'ordinamento;
  • l'antigiuridicità che deve connotare il comportamento del responsabile come contra ius o contra un interesse legittimo qualificato;
  • il nesso causale che presuppone che la condotta costituisca la “condicio sine qua non” dell'evento, cioè in quanto senza di essa l'evento non si sarebbe verificato. Richiede, altresì, che l'evento, al momento della condotta, fosse prevedibile come verosimile conseguenza della condotta. La giurisprudenza interpreta tale formula in senso lato, per cui anche i danni mediati indiretti sono risarcibili se rientrano nella serie delle conseguenze normali del fatto, in virtù di un giudizio di probabile verificazione rapportato all'apprezzamento dell'uomo di ordinaria diligenza;
  • l'elemento psicologico che può consistere in dolo o colpa.

Affronterò, di seguito, il tema dell'omissione, tenendo conto del fatto che la ricostruzione del nesso causale nell'illecito omissivo sconta un'iniziale difficoltà: l'assenza di un comportamento da valutare.

Il dato fattuale è inesistente.

Si vedrà come per accertare la causalità omissiva debba farsi ricorso alla formula del controfattuale, ipotizzando cosa sarebbe successo in presenza di una condotta attiva di un soggetto diligente.

Il comportamento di questo soggetto funge da modello. I parametri della diligenza sono ragguagliati a valori medi, in base al soggetto incolpato. Se è un esperto, la diligenza deve essere quella elevata di un professionista. Gli indici possono essere desunti da norme specifiche (causalità specifica) o dalla perizia, prudenza, diligenza (causalità generica). In quest'ultimo caso si può attingere da dati di esperienza (es. best practices) o del comune agire avveduto.

Omissione: presupposti per l'imputabilità

Quanto alla condotta consistente in un non facere, occorre, anzitutto, precisare che non attivarsi per impedire l'evento fonte di danno ingiusto, equivale a cagionarlo. Detta regola viene tratta dall'art. 40 c.p., norma che si ritiene estensibile all'area dell'illecito civile. L'omissione in senso proprio ricorre nelle ipotesi di inerzia di un soggetto a fronte di una situazione che egli avrebbe potuto modificare.

Diverse sono le tesi in materia di imputabilità ad un soggetto di una condotta omissiva integrante la fattispecie di cui all'art. 2043 c.c.:

  1. la prima ritiene necessaria la previsione, da parte della legge o di una fonte ad essa equiparata, di un «obbligo giuridico di impedire l'evento», a carico di un soggetto specifico che ne sia titolare nonchè la violazione di detto obbligo;
  2. la seconda ritiene che spetti al giudice stabilire se, nei singoli casi concreti, il comportamento posto in essere da un soggetto, a precindere dal fatto che fosse dovuto o meno, sia idoneo a violare il principio del neminem laedere. Tale orientamento muove dall'idea che, mentre nel sistema penale rilevano soltanto le fattispecie previste espressamente dalla legge come reato, nel sistema civile, in virtù del principio di atipicità dell'illecito, rileva “qualunque” fatto che cagioni ad altri un danno ingiusto. Quest'ultimo viene dunque ad essere considerato l'essenza della fattispecie e la responsabilità civile assume la natura di clausola generale, dai contenuti di volta in volta individuati dal giudicante;
  3. la terza, a mio parere preferibile rispetto alle precedenti, ritiene che non si debba andare alla ricerca di un “obbligo giuridico di impedire un evento”, quanto, piuttosto di un “dovere di azione”, da intendersi come una “condotta dovuta”, in virtù delle più diversificate fonti, da parte di un soggetto determinato.

Detto comportamento può ricondursi:

  • alla legge (dovendosi intendere: leggi in senso formale o in senso materiale, atti generali e astratti del potere esecutivo- regolamenti, decreti ministeriali, ordinanze prefettizie etc., atti normativi emanati da organi degli enti locali, regioni, province, comuni - ovvero fonti di diritto privato, come un contratto o un atto unilateralecon il quale si assume l'obbligo di impedire una classe di eventi) (Cfr. Cass. civ., 13 maggio 1983, n. 2991; cfr. altresì Cass. civ., 13 aprile 1977, n. 1391; Trib. Napoli, 24 maggio 1978, n. 3264);
  • ad un rapporto tra il titolare dell'interesse leso ed il soggetto chiamato a rispondere della lesione (Cfr. Cass. civ., 14 gennaio 1971, n. 66. Più di recente cfr. anche Cass. civ. 11 marzo 1991, n. 2555; Cass. civ., 28 aprile 1979, n. 2488; Cass., 15 febbraio 1976, n. 4643);
  • a precedenti attività o comportamenti leciti che abbiano determinato una situazione di pericolo (Cfr. Cass. civ., 25 settembre 1998; Cass. civ. 14 ottobre 1992, n. 11207).
  • alla creazione giurisprudenziale.

Sono talmente tante le pronunce esistenti in materia, che hanno affrontato e risolto casi diversificati, da essere indotti a propendere per la configurabilità di un sistema aperto ed integrabile di volta in volta (Cfr.per tutte Cass. civ., 25 settembre 1998, n. 9590; In dottrina: per la tesi estensiva in materia di responsabilità omissiva, che giunge a individuare quale fonte del dovere giuridico di agire per impedire l'evento dannoso l'instaurazione dei cc.dd. rapporti di cortesia, cfr.G. Alpa , Colpa omissiva e principi di responsabilità civile, in Giur. it. e Il problema dell'atipicità dell'illecito, Napoli, 1979 e C. Castronovo, Obblighi di protezione e tutela del terzo).

Il problema da affrontare diviene a questo punto quello di stabilire in che modo sia possibile passare da un'azione dovuta ad una condotta omissiva, che rilevi quale elemento costitutivo della fattispecie.

La chiave per risolvere il dilemma, a mio parere, è riconducibile ai concetti di prevedibilità ed evitabilità dell'evento che, attraverso i passaggi logici che vedremo, vengono a costituire i requisiti essenziali ai fini dell'imputazione della condotta omissiva nella reponsabilità aquiliana.

Prevedibilità ed evitabilità del danno

È ragionevole ritenere che una responsabilità da omissione sia configurabile, secondo l'ordinario criterio della colpa, quando il danno possa essere concretamente prevenuto ed evitato, con giudizio ex ante fondato sulla prevedibilità dello stesso.

Se così non fosse si finirebbe per introdurre un'atipica forma di responsabilità oggettiva per qualsiasi evento dannoso derivante da inerzia a fronte di un'azione dovuta.

Da qui la necessità che il fatto sia prevedibile, perché ciò che è imprevedibile è anche, per definizione, non prevenibile (Cfr. Cass. civ., sez. I, n. 10723/1996; Cass.,sez. III, n. 12124/2003; Cass., sez. III n. 11609/2005).

Occorre a questo punto porsi una domanda: quando un danno può ritenersi prevedibile e quando evitabile?

  • Prevedibile: allorchè si riescano a configurare uno o più rischi di verificazione dello stesso a seguito di una condotta obbligatoria e non posta in essere.
  • Evitabile: allorchè si riescano ad individuare, in relazione al caso concreto, le misure e cautele adeguate ed idonee ad impedire che esso si concretizzi, neutralizzando il relativo rischio. Tanto più il danno prevedibile è grave, tanto più scrupolosa sarà l'individuazione e l'attuazione degli interventi finalizzati a scongiurarlo.
Nesso di causalità tra omissione ed evento

Una volta accertata l'esistenza di un obbligo giuridico di agire, per la configurabilità della fattispecie, bisognerà verificare se l'azione omessa avrebbe impedito l'evento.

E per fare ciò occorrerà verificare, sulla base di un giudizio probabilistico o, meglio ancora, di presunzione semplice, se il danno sia stato realizzazione del rischio o di uno dei rischi che il dovere di azione intendeva prevenire (Cfr.Cass. civ. 21 ottobre 2005, n. 20357; Cfr. anche Cass. civ., Sez. III, 28 gennaio 2013, n. 1871; Cass. civ. 11 gennaio 2008, nn. 567-585; Cass. civ., 30 giugno 2005, n. 13957; Cass. civ., 28 gennaio 2013, n. 1871).

La responsabilità dovrà dunque essere adeguata allo scopo della norma violata: il soggetto non risponderà dei danni derivati da situazioni non configurabili come di possibile accadimento (Cfr. Cass., 20 settembre 2006, n. 20328. In dottrina: Cfr. P. Trimarchi, Causalità giuridica e danno, in Risarcimento del danno contrattuale, a cura di Visentini, Milano, 1984, 3 ss; L. Castelli, in Commentario del Codice Civile, Dei Fatti Illeciti, art. 2043 c.c., Milano, 2011, pag. 448).

La prevedibilità dell'evento diviente quindi criterio fondamentale di individuazione, oltre che della condotta omissiva, anche del nesso causale tra questa ed il danno ingiusto.

Sentenza con cui il Ministero della Giustizia è stato condannato a risarcire gli eredi di una vittima di una sparatoria all'interno di un Palazzo di Giustizia

All'argomento oggetto di esame si attagliano perfettamente due sentenze che, in occasione di una sparatoria avvenuta all'interno del Tribunale di Reggio Emilia durante una separazione, hanno affrontato temi molto dibattuti ed attuali, ossia: quello della sicurezza all'interno dei Palazzi di Giustizia, del soggetto tenuto a garantirla e, conseguentemente, a risponderne in ipotesi di verificazione di fatti delittuosi. La prima è stata pronunciata dal Tribunale di Bologna (Tribunale di Bologna, 5 novembre 2013, n. 3180), la seconda, dalla Corte di Appello (App. Bologna, 11 agosto 2015, n. 1451) del medesimo Distretto Si è evidenziato che, nel caso de quo:

  1. il Ministero della Giustizia era tenuto a porre in essere adeguati controlli sul Palazzo di Giustizia;
  2. la circolare ministeriale 15/2000, indirizzata ai Presidenti ed ai Procuratori Generali di Corte d'Appello e contenente “indicazioni e suggerimenti in materia di impianti, opere e forniture relative alla sicurezza delle sedi giudiziarie” era rimasta lettera morta;
  3. la scelta di non installare metal detectors era dipesa, da un lato, dall'avere qualificato il Tribunale di Reggio Emilia come sede a “basso rischio”, dall'altro, da una volontà di contenimento della spesa;
  4. entrambe le considerazioni operate dal Ministero della Giustizia non potessero rilevare, posto che la percentuale di prevedibilità del rischio non ne escludeva la sussistenza e che la particolare natura del luogo ove si è consumato l'omicidio nonché il fatto che vi fosse stato un precedente per altro molto vicino nel tempo, avrebbero imposto di adottare adeguate misure di protezione;
  5. vi era stato comportamento omissivo del Procuratore Generale di Corte d'Appello per non avere predisposto i metal detectors che avrebbero impedito l'ingresso dell'arma;
  6. fosse configurabile il nesso causale tra omissione ed evento, anche in virtù della prevedibilità di quest'ultimo
  7. l'evento delittuoso non si sarebbe verificato, se l'arma non fosse entrata all'interno del Tribunale;
  8. il fatto dell'autore del reato non potesse essere valutato quale causa esclusiva ex art. 41, comma 2, c.p.
  9. il risarcimento del danno dovesse essere proporzionato alla tragicità dell'evento ed all'efferatezza del crimine, per di più in un luogo in cui si amministra la giustizia.
Prevedibilità ed evitabilità del danno nella sentenza del Tribunale di Bologna

La pronuncia de qua ha, dunque, stabilito che, se l'azione dovuta (installazione dei metal detectors e adeguato controllo all'interno del Tribunale) fosse stata posta in essere, l'evento non si sarebbe verificato.

La circostanza che il Tribunale fosse stato considerato a rischio, la natura particolare del luogo ed il precedente molto simile avvenuto in altro Tribunale poco prima, avrebbero dovuto portare a ritenere l'evento di prevedibile verificazione e a consentire di evitarlo, adottando la normale diligenza. Anzi, una diligenza adeguata al ruolo rivestito dal soggetto responsabile ed alla gravità del danno prevedibile.

La “prevedibilità dell'evento”, richiamata dal Giudice di primo grado per individuare il nesso eziologico, gli ha consentito poi di affermare anche la colpa del Ministero di Grazia e Giustizia, essendo il profilo di causalità e quello di colpevolezza, come abbiamo visto, complementari.

Conferma in sede di appello della condanna del Ministero della Giustizia per la sparatoria all'interno del Palazzo di Giustizia (App. Bologna, 11 agosto 2015, n. 1451)

La successiva sentenza pronunciata dalla Corte di Appello di Bologna (v. Sparatoria in Tribunale: è il Ministero della Giustizia che deve risarcire i parenti, in Ri.Da.Re.), ha confermato quella di prima grado, ribadendo la responsabilità ex art. 2043 c.c. del Ministero della Giustizia, con sola riduzione degli importi riconosciuti agli appellati, contenuti nei limiti previsti dalle Tabelle di Milano.

Tale pronuncia ha ricalcato sostanzialmente i passaggi logici della sentenza del Tribunale di Bologna, discostandosene in un punto che vale la pena sottolineare, in relazione al tema che ci interessa.

Mentre il Giudice di primo grado ha individuato la fonte dell'azione dovuta, il Giudice di secondo grado non l'ha ritenuto indispensabile. In sostanza, ha motivato la sentenza lasciando intendere che, sia volendo aderire alla seconda che volendo propendere per la terza delle tesi sopra viste con riguardo ai presupposti dell'imputabilità della condotta omissiva, si perviene ad identico risultato.

Se è vero, infatti, che il Ministero della Giustizia era obbligato a garantire la sicurezza all'interno dei Tribunali, in virtù di una specifica normativa contemplante detto obbligo è altresì vero che allo Stato debba ricondursi, con riferimento al caso specifico, una condotta lesiva del principio del neminem laedere di cui all'art. 2043 c.c..

Principio che, secondo la stessa Corte d'Appello, non può applicarsi in maniera differente ad un soggetto pubblico rispetto ad uno privato, se non ammettendo come conseguenza di accordare al primo un ingiustificato trattamento di privilegio.

E - cosa importante - anche il Giudice del gravame è arrivato a ritenere prevedibile l'evento, in funzione della particolare natura del luogo in cui si è verificato, essendovi un rischio. A prescindere dall'intensità dello stesso.

Valutazione del rischio all'interno dei Tribunali

Il Ministero della Giustizia aveva basato le proprie difese, sia in primo grado che in appello, sulla discrezionalità da parte della Pubblica Amministrazione e del Procuratore Generale di operare scelte di sicurezza in ragione della specificità di questo o quell'Ufficio giudiziario.

Più precisamente, aveva evidenziato la necessità di procedere alla qualificazione dei «diversi livelli di rischio (basso, medio, alto) ai quali sono esposte le singole sedi giudiziarie” e, solo a seguito di tale operazione, di verificare “di quali misure dotare l'immobile al fine di ritenerlo sufficientemente protetto dai rischi individuati a livello locale».

Nel caso specifico, il Tribunale di Reggio Emilia era stato classificato come ufficio «a basso rischio», ossia ufficio con un livello di rischio assimilabile a «quello di un qualunque altro ufficio pubblico» e, per il quale, non sarebbe stato necessario l'utilizzo di impianti metal detector.

Questi ultimi venivano previsti come strumenti di protezione, per altro meramente facoltativi, nei soli casi «di rischio medio alto della sede giudiziaria».

Tali affermazioni hanno stimolato nella difesa dei danneggiati diverse domande: nel momento in cui si ipotizza un rischio acchè qualcuno entri armato all'interno di un Tribunale, come può pensarsi di non neutralizzarlo con un minimo sforzo, ossia approntando dei mezzi di controllo all'ingresso? Come può accettarsi che l'esigenza di salvaguardare la salute e la vita umana – diritti garantiti dalla Costituzione - debba soccombere rispetto all'opportunità di contenere dei numeri di bilancio? Come può ritenersi che il rischio di animosità durante una separazione che si svolge a Reggio Emilia sia più basso rispetto al rischio di animosità di una separazione (piuttosto che di uno sfratto, di un fallimento…) che si svolge a Milano, Torino o Roma…o in qualsiasi altro Tribunale di Italia? Non sono forse gli stessi i sentimenti che entrano in gioco, a prescindere dalla circostanza che si tratti di un piccolo o di un grande Foro? Come può essersi sottovalutato che a distanza di pochi anni a Varese era successo un fatto analogo, per non dire identico, sempre nell'ambito di una separazione? Non era forse questo un precedente che avrebbe dovuto indurre ad adottare maggiori accorgimenti e cautele? Come può accettarsi che fatti di una tale gravità non solo accadano, ma addirittura si ripetano?

Pronta è arrivata la risposta a tali quesiti dal Tribunale di Bologna che ha riconosciuto che i Tribunali non possono essere parificati a qualsiasi luogo pubblico. In essi l'animosità, la litigiosità, i motivi di attrito e di scontro, raggiungono livelli massimi. Vi si consumano tragedie umane, si frantumano delle vite, i sentimenti e le sensazioni risultano spesso amplificati.

E, sempre seguendo una logica ferrea, il Tribunale di Bologna ha stabilito che il rischio c'era, era stata individuato, basso o alto che fosse, c'era” e la predisposizione del metal detector avrebbe impedito l'ingresso dell'arma e la consumazione dell'illecito”.

Quindi: i Palazzi di Giustizia devono essere considerati luoghi a rischio in virtù della loro particolare natura, alcun senso riveste la distinzione tra “rischio basso, medio o alto” ed i metal detectors dovrebbero essere approntati in ogni Tribunale d'Italia, rappresentando strumento di protezione dall'ingresso di armi.

La Corte di Appello, nel confermare la sentenza di primo grado, ha ribadito che, in ragione della natura di “luoghi sensibili” (in quanto luoghi utili a risolvere le controversie) da proteggere dei Palazzi di Giustizia, in cui si possono consumare gesti eclatanti e talvolta abietti, i vertici delle Istituzioni deputate al mantenimento della sicurezza pubblica dovrebbero farsi interpreti delle esigenze specifiche di tali realtà organizzative.

Conclusioni

Sulla base di tutto quanto sopra esposto, ritengo sia possibile trarre le seguenti conclusioni: una volta individuata una posizione giuridica che contenga a carico dell'omittente l'obbligo di adottare condotte a protezione di terzi – obbligo che può costituirsi in virtù di un'espressa previsione normativa così come di una particolare relazione di fatto - che ne giustifichi ed imponga l'intervento precauzionale, sulla base della prevedibilità ed evitabilità del danno, il verificarsi di quest'ultimo configura responsabilità.

In materia di sicurezza occorre partire da un presupposto: ogni scelta o decisione diretta a garantire la sicurezza deve essere ponderata attenendosi quanto più possibile ai principi di efficacia, efficienza, ottimizzazione, utilizzo di risorse adeguate.

La sicurezza consiste nel contemperare i rischi cui si è esposti con lo sforzo diretto ad approntare misure idonee a scongiurarli o ridurli il più possibile.

E' compito dello Stato, che dovrebbe garantire il diritto alla sicurezza ed alla protezione della persona umana, nonché il diritto alla vita, eliminare le condizioni perché né l'una né l'altro vengano calpestati nel modo più brutale, in luoghi in cui si amministra la giustizia.

Guida all'approfondimento
  • M. Barcellona, Trattato della Responsabilità Civile, 2011;
  • S. Ruscica, I Diritti della personalità, Milano, 2013;
  • P. Cendon, Trattato breve dei Nuovi Danni, Figure emergenti di Responsabilità, Milano, 2014;
  • L. Tramontano, Codice Penale commentato con diritto e giurisprudenza, Treviso, 2014;
  • M. Carleo, Responsabilità della Pubblica Amministrazione, Ri.Da.Re;
  • La giurisprudenza sull'inosservanza della Pubblica Amministrazione delle regole nella gestione dei propri beni, Il Sole 24 ore, quotidiano on-line;
  • D. Chindemi, Obbligo di correttezza e buona fede nell'Amministrazione finanziaria, in Danno e responsabilità, 1 aprile 2014;
  • M.C. Cavallaro, Clausola di buona amministrazione e risarcimento del danno, in Giustamm.it;
  • G. Falcon, La responsabilità dell'amministrazione e il potere amministrativo, in Diritto processuale amministrativo;
  • Viola, Giurisdizione condizionata e azione risarcitoria nei confronti della p.a.: le incertezze della Corte Costituzionale: le incertezze della Corte Costituzionale, in Giustamm.it, pubblicato il 1 ottobre 2008;
  • Vacca, Ontologia della situazione giuridica soggettiva sottesa all'azione di risarcimento del danno conseguente all'inadempimento da parte della pubblica amministrazione dell'obbligo di esercitare il potere amministrativo, in Lexitalia.it.

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