Il principio della “compensatio lucri cum damno” nuovamente al vaglio delle Sezioni Unite

Giuseppe Chiriatti
29 Settembre 2017

La Cassazione torna sull'effettiva portata del principio della c.d. “compensatio lucri cum damno”; con ben quattro ordinanze, chiede al Primo Presidente di rimettere nuovamente la questione al massimo consesso di legittimità in composizione plenaria.
Introduzione

A distanza di un anno dalla pronuncia con cui le Sezioni Unite avevano ritenuto, per ragioni di mera rilevanza processuale, di non poter vagliare l'effettiva portata del principio della c.d. “compensatio lucri cum damno” (Cass. civ., Sez. Un., 30 giugno 2016 n. 13372), la Corte di Cassazione torna in argomento e, con ben quattro ordinanze (che, per contenuto, potremmo definire “gemelle”), chiede al Primo Presidente di rimettere nuovamente la questione al massimo consesso di legittimità nella sua composizione plenaria (La medesima questione, peraltro, è stata rimessa all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (Cons. St., sez. IV, ord., 6 giugno 2017, n. 2719). E ciò, riprendendo quasi pedissequamente il percorso argomentativo già posto alla base di Cass. civ., 13 giugno 2014 n. 13537, ovvero la pronuncia che aveva aperto l'ancora irrisolto contrasto giurisprudenziale, affermando – per la prima volta - che «dal risarcimento del danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto».

In particolare, quella pronuncia disattendeva il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il principio della compensatio lucri cum damno troverebbe applicazione solo quando il lucro sia conseguenza immediata e diretta dello stesso fatto illecito che ha prodotto il danno. Il che non potrebbe dirsi ove il vantaggio patrimoniale conseguito dal danneggiato sia costituito da trattamenti economici che, come nel caso della pensione di reversibilità, trovano il proprio titolo non nell'illecito ma inuna norma di legge e la cui erogazione è meramente occasionata dal verificarsi del fatto illecito (in tal senso, la successiva Cass. civ., 30 settembre 2014 n. 20548).

Gli argomenti a sostegno di Cass. civ. 13 giugno 2014 n. 13537

Chiamata a pronunciarsi sulla domanda risarcitoria svolta dal coniuge superstite di persona deceduta in un sinistro stradale, la III Sezione aveva ritenuto di dover tener conto, già solo ai fini della quantificazione del danno patrimoniale effettivamente patito, di quanto percepito dal danneggiato a titolo di pensione di reversibilità e, dunque, di decurtare tali somme dal compendio risarcitorio. In particolare, per giungere a tale conclusione, l'estensore di quella prima e isolata pronuncia (relatore, peraltro, di una delle ordinanze in commento) aveva mosso una monumentale critica all'interpretazione corrente del principio della compensatio lucri cum damno.

A dire dell'estensore, infatti, è sulla base di un'erronea applicazione di questo principio che la prevalente giurisprudenza di legittimità ha da sempre escluso che le somme percepite a titolo di pensione di reversibilità possano essere cumulate con il risarcimento integrale del danno patrimoniale.

In primo luogo, il relatore tiene a sgomberare il campo da qualsivoglia equivoco lessicale. Si legge infatti nella sentenza: «come messo in evidenza dalla dottrina prevalente da oltre un secolo, la compensatio lucri cum damno di compensazione non ha che il nome […] la c.d. compensatio lucri cum damno costituisce piuttosto una regola per l'accertamento dell'esistenza e dell'entità del danno risarcibile, ai sensi dell'art. 1223 c.c. Noti sono gli esempi addotti dalla dottrina storica al riguardo: al padrone d'un animale ucciso da un terzo non si dirà che si è impoverito dell'animale ma arricchito del valore della sua pelle: gli si dirà per contro che ha patito un danno pari al valore dell'animale meno il valore della pelle…».

In secondo luogo, ammonisce il relatore, l'affermazione secondo cui la regola della compensatio lucri cum damno opera soltanto ove danno e lucro scaturiscano in modo diretto ed immediato dal fatto illecito sarebbe «frutto di un equivoco a sua volta scaturente da un inconsapevole fraintendimento della dottrina tradizionale. Questa già alla fine dell'Ottocento aveva individuato, tra i presupposti della compensatio lucri cum damno, la necessità che danno e lucro derivassero dalla stessa condotta del responsabile». Nondimeno, nell'applicare il principio in esame, la giurisprudenza successiva sarebbe incorsa in un'autentica «metonimia, finendo con l'indicare la parte per il tutto: così l'originario requisito della “medesimezza della condotta”, da secoli fondamento della compensano lucri cum damno, si trasformò nella “medesimezza del fatto”, e questa a sua volta nella “medesimezza della fonte” tanto del lucro quanto del danno» La regola applicata dall'orientamento tradizionale, in definitiva, non sarebbe affatto fondata sulla “dottrina tradizionale” ma costituirebbe, piuttosto, una deviazione da quella.

In terzo luogo, sempre a dire dell'estensore, l'assunto secondo cui la regola della compensatio lucri cum damno non trova applicazione nel caso in cui l'illecito costituisca non causa ma una mera occasione per conseguire una determinata utilità (come, appunto, la pensione di reversibilità) «non è più coerente con la concezione di “causalità” che si è venuta sviluppando nella giurisprudenza di questa Corte ormai da molti anni in qua” secondo cui “occorre, per affermare l'esistenza d'un nesso di causalità giuridica tra condotta e danno, ricorrere al criterio della condicio sine qua non, in virtù del quale una condotta è causa di un evento tutte le volte che, senza la prima, il secondo non si sarebbe verificato». Pertanto, «negare che, ai fini della liquidazione del danno civile, l'uccisione d'una persona possa dirsi “causa” della percezione della pensione di reversibilità da parte del coniuge della vittima è affermazione incoerente sia col diritto della responsabilità civile, sia col suddetto criterio causale della condicio sine qua non».

Da ultimo, il relatore denuncia «il quarto vulnus dell'orientamento che nega la compensatio tra risarcimento del danno patrimoniale da uccisione del congiunto e pensione di reversibilità … anch'esso di tipo sistematico», e cioè quello «più macroscopico ed inaccettabile». L'orientamento che nega la compensazione tra il danno ed i benefici erogati dall'ente previdenziale o dall'assicuratore sociale, infatti, finirebbe per abrogare in via di fatto l'azione di surrogazione spettante a quest'ultimo, atteso che, «una volta che il responsabile del sinistro sia costretto a pagare l'intero risarcimento senza tener conto del beneficio previdenziale od assicurativo percepito dalla vittima per effetto dell'illecito, non potrebbe poi essere costretto dall'ente previdenziale od assicurativo a rifondergli le somme da questo pagate alla vittima». Con l'effetto che sarebbe l'erario, e dunque la collettività, a dover sopportare l'indebito arricchimento del danneggiato.

In conclusione, «l'orientamento il quale nega la compensatio lucri cum damno tra risarcimento del pregiudizio patrimoniale da morte del congiunto e percezione della pensione di reversibilità:

(a) è incoerente con le regole unanimemente applicate dalla giurisprudenza di legittimità in tutti gli altri settore della responsabilità civile;

(b) adotta una nozione di “causalità” datata, e non coerente con la regola della condicio si ne qua non;

(c) priva di fatto, e senza giustificazione, l'assicuratore sociale o l'ente previdenziale dell'azione di surrogazione, con pregiudizio per l'economia di tali enti e, di conseguenza, per la collettività intera».

L'ordinanza interlocutoria n. 4447/2015 e la pronuncia della Sezioni Unite n. 13372/2016

Successivamente a quella sentenza, la Sezione III fu chiamata a pronunciarsi sui limiti entro i quali un Ente Previdenziale Straniero (nella specie, tedesco) possa agire in surrogazione nei confronti del responsabile di un illecito avvenuto in territorio italiano al fine ottenere la rifusione delle somme pagate in favore del coniuge e dei figli della vittima deceduta (nella specie, a titolo di pensione di reversibilità e di rendita orfani).

Ebbene, sulla scorta di quanto disposto dall'art. 93 Reg. CE 1408/1971 nonché di quanto sancito dalla giurisprudenza comunitaria (C.G.CE del 21 settembre 1999, C-397/96), il Collegio aveva ritenuto che il diritto di surrogazione dell'assicuratore sociale è disciplinato dalle norme dello Stato al quale appartiene l'ente surrogante ma che, nondimeno, l'esercizio della surrogazione non può mai eccedere l'ammontare del danno causato dal responsabile, liquidato secondo la legge del luogo dove è avvenuto il fatto illecito.

Ebbene, dovendosi applicare in quel caso le norme di diritto italiano (l'illecito era infatti avvenuto in Italia), bisognava dunque comprendere se, proprio a seguito del contrasto giurisprudenziale aperto da Cass. civ., n. 13537/2014, il riconoscimento di una rendita in favore dei superstiti da parte dell'Ente Previdenziale tedesco avesse già eliso di per sé l'ammontare del danno. E ciò al fine di verificare entro quali limiti fosse consentito all'assicuratore ricorrente di esercitare il diritto di surrogazione riconosciutogli dalla legge tedesca.

La III Sezione (Cass. civ., ord. 5 marzo 2014, n. 4447) richiedeva, pertanto, al Primo Presidente di sottoporre alle Sezioni Unite la questione «concernente la portata del principio della c.d. compensatio lucri cum damno nell'ambito delle conseguenze risarcitorie da fatto illecito, nella specie rilevante, segnatamente, in relazione alla limitazione del diritto al risarcimento del danno della vittima (o dei suoi aventi causa), in funzione del quale diritto l'assicuratore sociale/ente previdenziale può esercitare l'azione di surrogazione ad esso spettante (nel caso all'esame, secondo il diritto tedesco) nei confronti del responsabile civile».

Tuttavia, come anche anticipato in esordio, le Sezioni Unite hanno ritenuto di non poter affrontare il quesito.

A parere del Supremo consesso di Legittimità, infatti, la questione sottoposta al suo vaglio, per come formulata, rischiava di esser priva di rilevanza processuale.

In particolare, stando a quanto emergeva dagli atti, l'Ente tedesco pretendeva di voler surrogarsi quando oramai i danneggiati erano già stati tacitati d'ogni pretesa dall'assicurazione del responsabile dell'illecito. Il che, rileva il Collegio, aveva fatto venir meno qualsiasi pretesa azionabile nei confronti dell'autore dell'illecito anche da parte di soggetti terzi che volessero agire in surroga.

Si legge, in particolare, nella pronuncia: «proprio questo è il punto decisivo della questione: la surrogabilità eventuale deriva, infatti, dalla risarcibilità o meno del danno […] ciò che si vuol dire è che nell'esame concreto della pretesa azionata è stata bypassata la premessa maggiore dello sviluppo argomentativo, vale a dire l'esame dell'entità del danno e della sua risarcibilità [...] ne deriva che anche il tema della compensatio lucri cum damno, pur di estremo interesse sul piano giuridico, si presenta in concreto quanto meno prematura per le ragioni già evidenziate. L'individuazione dei presupposti di applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, che è strettamente connesso con il tema della cumulabilità di varie voci di danno ai fini dell'applicabilità del principio del risarcimento del danno effettivo, presuppone pur sempre l'esistenza (e l'entità) di un danno risarcibile; e solo su questo eventualmente sarebbe esercitabile la surroga».

Le ordinanze gemelle del 22 giugno 2017: alcune note critiche in tema di surrogazione

Èin tale contesto giurisprudenziale che intervengono, dunque, le quattro recentissime ordinanze interlocutorie che richiedono nuovamente l'intervento delle Sezioni Unite.

Come anticipato, esse riprendono quasi pedissequamente il percorso argomentativo fatto proprio da Cass. civ., n. 13537/2014, concludendo che il giudice civile, già in fase di quantificazione del danno effettivamente patito, dovrebbe tener conto di tutte le utilità percepite dal danneggiato in occasione dell'illecito.

Ora, non si rinvengono ragioni processuali che consentano alle Sezioni Unite, ove nuovamente interessate, di eludere la trattazione del tema. Ed infatti, a differenza di quanto avvenuto nel precedente del 2016 (in cui l'assicuratore agiva in via surrogatoria per ottenere il risarcimento di danni già integralmente liquidati in sede stragiudiziale in favore del danneggiato), i procedimenti da cui traggono origine le ordinanze in commento vertono proprio sull'accertamento giudiziale del danno effettivamente patito dal danneggiato e, dunque, richiedono un chiarimento delle Sezioni Unite circa l'effettiva portata del principio della compensatio lucri cum damno (e, in particolare, se tale principio costituisca una mera applicazione dell'art. 1223 c.c.).

Nell'attesa che la questione venga effettivamente rimessa alle Sezioni Unite, sia dunque qui consentito di svolgere alcune considerazioni circa l'impianto motivazionale posto alla base di Cass. civ., n. 13537/2014 e delle ordinanze gemelle del 22 giugno 2017.

In particolare, è proprio partendo dall'ultima delle censure mosse all'orientamento giurisprudenziale prevalente (e cioè che lo stesso comporterebbe l'abrogazione di fatto dell'azione di surrogazione spettante all'assicuratore privato o sociale che abbia indennizzato il pregiudizio patito dal danneggiato), che le ordinanze in commento risultano affette da una prima contraddizione logica.

Ed infatti, ove solo si consideri che l'istituto della surrogazione comporta il trasferimento, in capo all'assicuratore, dei medesimi diritti risarcitori spettanti al danneggiato/assicurato verso i terzi responsabili (ex multis, Cass. civ., 24 novembre 2005 n. 24806, in Giust. Civ. Mass. 2005, fasc. 7/8), ben si comprenderà come un pregiudizio al diritto di surrogazione potrebbe derivare proprio dall'applicazione della tesi propugnata dalle ordinanze in commento.

Si consideri quest'esempio.

Immaginiamo che la vittima dell'illecito abbia subito un danno pari a 1.000 e che tale pregiudizio sia stato interamente indennizzato dall'assicuratore.

Ora, stando all'orientamento tradizionale, diremmo che il danneggiato ha un credito verso il responsabile pari a 1.000 e che l'assicuratore potrà recuperare integralmente quanto pagato, surrogandosi nel diritto risarcitorio che il danneggiato vanta nei confronti del responsabile (1.000).

Ove invece accedessimo alla tesi secondo cui la compensatio lucri cum damno opera già solo nella fase di liquidazione del danno, nulla sarebbe dovuto dall'autore del fatto, atteso che il pregiudizio sarebbe già stato integralmente “compensato” dall'indennizzo assicurativo.

Ebbene, pare evidente che in questa seconda ipotesi difetterebbe a priori l'oggetto stesso del fenomeno surrogatorio (ovvero l'eventuale diritto risarcitorio del danneggiato verso il responsabile) e che, conseguentemente, l'assicuratore non potrebbe in alcun modo recuperare presso il responsabile quanto già pagato al danneggiato/assicurato.

Oltretutto, la tesi secondo cui il pagamento dell'assicuratore elide il danno procurato dall'autore dell'illecito, non collima con un dato formale che pare indiscutibile: non può revocarsi in dubbio, infatti, che l'assicuratore sia tenuto a pagare sulla base di un titolo contrattuale/legale autonomo rispetto all'illecito e che, dunque, con il pagamento dell'indennizzo estingua la propria obbligazione e non anche quella risarcitoria del responsabile.

Ci pare dunque di poter affermare, ed è questa la prima critica, che le pronunce in commento finiscano addirittura col contraddire le ragioni di equità di cui le stesse si fanno portatrici.

Piuttosto, dovremo rilevare come il rischio paventato dalle ordinanze in commento (e cioè quello di indebite locupletazioni del danneggiato con pregiudizio delle ragioni dell'assicuratore) sia già ben presidiato dalla disciplina codicistica.

Invero, non possiamo ignorare come l'applicazione pretoria di tale disciplina ammetta che il diritto di surroga dell'assicuratore possa infine risultare pregiudicato.

Ed infatti, secondo un principio giurisprudenziale consolidato, la surrogazione dell'assicuratore è soggetta ad apposita denunciatio e, fintanto che questa non sia pervenuta al responsabile, non può dirsi perfezionato alcun fenomeno surrogatorio; con la conseguenza che, fino a quel momento, il danneggiato (che ha già ricevuto l'indennizzo assicurativo) resterebbe ancora pienamente legittimato a chiedere e ottenere il risarcimento integrale del danno, pregiudicando così il diritto di surrogazione dall'assicuratore (in tal senso Cass. civ., 19 agosto 2003, n. 12101, in Giust. Civ. 2004, I, 1549)

Nondimeno, in una simile evenienza l'assicuratore avrebbe a sua volta titolo per richiedere all'assicurato il risarcimento del danno arrecato al diritto di surrogazione, e ciò sulla base di una norma troppo spesso trascurata, nella prassi quanto nelle trattazioni sistematiche dell'argomento, e cioè l'art. 1916 comma 3 c.c.. Sulla base di tale norma, infatti, alcune risalenti pronunce di legittimità hanno riconosciuto la responsabilità dell'assicurato il quale, dopo aver già percepito l'indennizzo erogatogli dell'assicuratore e prima che quest'ultimo si fosse surrogato, abbia agito per il risarcimento integrale del danno (Cass. civ., 15 aprile 1980 n. 2445), raggiunto con il responsabile una transazione (Cass. civ., 28 gennaio 1978, n. 421) e, ancora, lasciato estinguere il diritto risarcitorio per prescrizione (Cass. civ., 8 giugno 1992, n. 7057).

Pertanto, se da un lato è ben possibile che il danneggiato cumuli l'indennizzo e il risarcimento, dall'altro l'ordinamento già prevede un rimedio a tutela del conseguente pregiudizio patito dall'assicuratore. La previsione di uno specifico rimedio risarcitorio nella disponibilità dell'assicuratore, peraltro, parrebbe muovere contro la tesi secondo cui il principio indennitario sarebbe inderogabile (in tal senso, Cass. civ., 11 giugno 2014 n. 13233, in Ridare.it. con commento di HAZAN M., La natura della polizza infortuni, il principio indennitario ed il (divieto) di cumulo di risarcimento e indennizzo, 3 marzo 2015) e, anzi, confermerebbe l'opinione di chi, avversando quella tesi, ha rilevato che «l'art. 1916, pur naturalmente orientato a evitare il cumulo di indennizzo e risarcimento, non lo esclude in termini assoluti» (sia concesso rinviare a HAZAN M., CHIRIATTI G., L'occasione per ripensare le polizze indennitarie, www.insurancetrade.com, 25 luglio 2014).

Ciò detto, il ragionamento sotteso al le pronunce in commento pare affetto da un'ulteriore contraddizione logica.

Ed infatti, anche a voler ammettere che il principio della compensatio lucri cum damno costituisca una mera «regola per l'accertamento dell'esistenza e dell'entità del danno risarcibile, ai sensi dell'art. 1223 c.c.», a quel punto il giudice dovrebbe tener conto, già solo ai fini della liquidazione del risarcimento del danno effettivamente patito, di qualsivoglia utilità che il danneggiato abbia percepito in conseguenza del sinistro, ivi compreso, ad esempio, il capitale percepito in qualità di beneficiario di una polizza stipulata sulla vita del de cuius deceduto nell'illecito.

Eppure la prassi giurisprudenziale (ivi compresa Cass. civ. n. 13537/2014 che ha ispirato le ordinanze in commento) ammette pacificamente la possibilità, per il danneggiato, di cumulare il risarcimento con il capitale percepito in forza di una polizza vita.

Ebbene, la ragione per cui tale cumulo è ammesso dev'essere rinvenuta nel fatto che all'assicurazione sulla vita non si applica l'art. 1916 c.c., avendo la stessa una funzione previdenziale e non indennitaria.

Ecco definitivamente disvelarsi l'equivoco posto alla base dell'intero impianto motivazionale delle ordinanze in commento: la corretta quantificazione del danno risarcibile ai sensi dell'art. 1223 c.c. costituisce un momento del tutto autonomo rispetto al successivo ed eventuale esercizio del diritto di surrogazione (ove effettivamente previsto in favore dell'assicuratore sociale o privato che abbia effettuato un pagamento in conseguenza del sinistro). Ed anzi, sono le stesse Sezioni Unite a rimarcare tale aspetto proprio nella pronuncia del 2016, laddove è espressamente scritto - in un obiter dictum - che «le questioni della surrogabilità e dei suoi limiti costituiscono un posterius rispetto a quello prioritario dell'entità del danno e della sua risarcibilità».

Piuttosto occorrerebbe verificare, di volta in volta, se le prestazioni erogate dall'assicuratore privato o sociale in favore del danneggiato in seguito (o in occasione) del sinistro abbiano natura indennitaria (vadano cioè a indennizzare il pregiudizio patito dal danneggiato) e, in quanto tali, siano assistite da un diritto di surrogazione in favore dell'ente erogatore.

In tale prospettiva, non è forse un caso che, alla fine di un percorso logico minato dalle criticità sopra evidenziate, le ordinanze nn. 15536 e 15537 si premurino comunque di affermare che pensione di reversibilità e indennità di accompagnamento (ovvero le prestazioni sociali percepite dai danneggiati nei rispettivi giudizi de quo) abbiano natura indennitaria e, nel dubbio, abbiano posto un ulteriore e specifico quesito sul punto : in Cass. civ., ord. n. 15536/2017 «Se il risarcimento del danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, e consistito nella perdita dell'aiuto economico offertole dal defunto, va liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità attribuita al superstite»; in Cass. civ., ord. n. 15537/2017: «Se il risarcimento del danno patrimoniale patito dalla vittima di lesioni personali, e consistente nelle spese da sostenere per l'assistenza personale ed infermieristica, vada liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della indennità di accompagnamento».

Trattasi, all'evidenza, di passaggio logico per nulla necessitato nell'economia del ragionamento fatto proprio dalle ordinanze in commento; ed infatti, lo si è visto, ove davvero si dovesse tener conto - già sul piano della liquidazione del danno - di tutte le prestazioni percepite in occasione del sinistro, la natura delle stesse sarebbe irrilevante.

Eppure, la proposizione di questi ulteriori quesiti ci avvicina proprio a quello che, a parere di chi scrive, dovrebbe essere l'effettivo ed unico tema di indagine da sottoporre al vaglio delle Sezioni Unite e cioè se prestazioni dai contorni non facilmente afferrabili (quali, appunto, reversibilità e accompagnamento) abbiano effettivamente una funzione indennitaria.

Natura della pensione di reversibilità e dell'indennità di accompagnamento

Nell'affermarlo, le ordinanze nn. 15536 e 15537 muovono da un approccio che potremmo definire “sostanzialistico”.

Quanto alla reversibilità, può leggersi infatti nell'ordinanza 15536: «non vi è ragione per escludere che il valore capitalizzato della pensione di reversibilità debba sottarsi dal risarcimento del danno patrimoniale derivato dall'uccisione d'un congiunto, e consistito nella perdita degli emolumenti da questi erogati al superstite ... la c.d. pensione di reversibilità (rectius, assicurazione pubblica a beneficio dei congiunti superstiti, contro il rischio di morte del lavoratore o del pensionato) ha finalità di preservare i congiunti del de cujus dalle conseguenza patrimoniali sfavorevoli cui essi sono esposti nel momento in cui viene a mancare la principale fonte di reddito del nucleo familiare» (alle medesime conclusioni era giunta Cass. civ., n. 13537/2014).

In termini non poi differenti si esprime poi l'ordinanza 15537 che riconosce espressamente una funzione indennitaria tanto all'indennità di accompagnamento di cui all'art. 5, l. n. 222/1984 quanto a quella di cui all'art. 1, l. n. 508/1988: «tanto la prima quanto la seconda di tali indennità», si legge nell'ordinanza, «sono connesse alle persone “che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l'aiuto permanente di un accompagnatore”. Si tratta dunque di un emolumento vòlto a ristorare un pregiudizio patrimoniale: giustappunto, quello consistente nella necessità di dovere retribuire un collaboratore od assistente per fronteggiare le necessità della vita quotidiana».

Ora, per quanto tali affermazioni possano apparire in prima battuta condivisibili, non possiamo ignorare, tuttavia, come tra i corpi normativi che istituiscono e disciplinano le prestazioni di cui si discute, solo la l. n. 222/1984 preveda espressamente un'azione di surroga in favore dell'ente erogatore (e cioè INPS); non così la l. n. 508/1988 (che istituisce una prestazione ulteriore rispetto a quella di cui all'art. 5 l. n. 222/1984) e neppure il r.d.l. n. 636/1939 (che istituisce il trattamento di reversibilità). Con la conseguenza che tali due ultime prestazioni sarebbero prive di quel pendant - l'azione di surrogazione, appunto - che è tipico delle prestazioni indennitarie.

Invero, con riguardo alla pensione di reversibilità, la già richiamata Cass. civ., n. 13537/2014 ritiene che INPS abbia diritto di surrogarsi sulla scorta del comma 4 dell'art. 1916 c.c. che estende le norme in materia di surrogazione «anche alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e contro le disgrazie accidentali».

Ebbene, tale conclusione non convince per i seguenti motivi.

In primo luogo, la portata della norma non è mai risultata particolarmente chiara né la relazione al codice civile offre specifiche indicazione in merito.

Ad ogni modo, rileveremo come l'evento morte da cui origina l'erogazione dell'emolumento non deve essere necessariamente determinato da un infortunio o da causa accidentale. Ed anzi, noteremo come il trattamento di reversibilità acceda ad altro tipo di assicurazione, la c.d. IVS (invalidità – vecchiaia – superstiti), la cui natura è pacificamente ritenuta previdenziale al pari di un'assicurazione sulla vita. Proprio in tal senso, occorre altresì segnalare come l'erogazione della reversibilità presupponga che la vittima dell'illecito, al momento del decesso, sia già pensionata o comunque abbia contribuito a tale assicurazione nei limiti minimi previsti dalla legge (artt. 13 e ss. r.d.l. cit.); e ancora, non potrà ignorarsi come l'ammontare della prestazione è determinato, oltre che con riguardo all'entità della pensione già percepita o del montante contributivo versato in vita dal de cuius, anche in ragione dei redditi prodotti dal superstite (art. 42 l. n. 335/1995) e ciò induce a ritenere che tale trattamento, più che a ristorare un danno (che peraltro potrebbe anche mancare), risulti piuttosto finalizzato a proteggere il superstite dall'insorgenza di un eventuale stato di bisogno.

Da ultimo, rileveremo come il legislatore, ove ha voluto, ha ritenuto di introdurre una specifica ipotesi surrogatoria per consentire ad INPS di recuperare, presso il responsabile, l'importo di alcune prestazioni che accedono all'assicurazione IVS. È questo appunto il caso dei trattamenti previsti dalla l. n. 222/1984 (già sopra richiamata). Il che confermerebbe, a contrario, che in difetto di una specifica previsione, le prestazioni che accedono a quell'assicurazione obbligatoria non sono soggette a surrogazione.

Alla luce di quanto sopra, pertanto, sussisterebbero numerosi argomenti per asserire che il trattamento di reversibilità assolva ad una funzione non indennitaria ma previdenziale e che, conseguentemente, tale prestazione possa essere cumulata dal superstite con l'eventuale risarcimento del danno.

Non meno problematica risulta, poi, l'inquadramento dell'indennità di accompagnamento.

Anche tale prestazione, lo si è detto, non è espressamente assistita da un diritto di surrogazione in favore dell'assicuratore sociale.

Ebbene la mancata previsione di un diritto di surrogazione dovrebbe trovare la sua giustificazione nel fatto che tale prestazione, per quanto erogata da un assicuratore sociale, viene riconosciuta al di fuori di un rapporto assicurativo tra ente e beneficiario, tant'è che l'erogazione di tale beneficio è finanziata dal gettito fiscale generale mediante trasferimenti in bilancio di INPS.

Nondimeno nel 2010, il legislatore ha introdotto (per tutti i trattamenti di invalidità civile, ivi compresa l'indennità di accompagnamento di cui all'art. 1 l. n. 508/1988) una non meglio specificata azione di recupero in favore di INPS.

Dispone, infatti, l'art. 41 l. 183/2010: «Le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente, corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi, sono recuperate fino a concorrenza dell'ammontare di dette prestazioni dall'ente erogatore delle stesse nei riguardi del responsabile civile e della compagnia di assicurazioni».

In particolare, stando a quanto espresso da INPS nella circolare n. 152 del 27 novembre 2014 (n. 152), l'Istituto avrebbe oggi diritto di ripetere presso il responsabile (e presso il suo assicuratore della rc) l'importo erogato alla vittima, e ciò senza alcuna possibilità di sottrarre dal risarcimento dovuto al danneggiato quanto da questi percepito a titolo di invalidità. Si legge infatti nella circolare citata che «l'azione di recupero delle somme erogate a titolo di provvidenze di invalidità civile in conseguenza di fatto illecito di terzi (art. 2043 c.c.) costituisce, in capo all'Istituto, un diritto autonomo e distinto da quello dell'assistito, a differenza dell'azione di cui agli artt. 1916 c.c. e 14 della l. n. 222/1984, che prevedono la surroga dell'Istituto nei medesimi diritti dell'assicurato verso i terzi responsabili e quindi la successione nel lato attivo di un rapporto obbligatorio».

Ora, un simile ragionamento potrebbe condurre ad alcune conseguenze tanto inique quanto quelle paventate dalle ordinanze in commento. Ed infatti, se da un lato l'esercizio dell'azione di recupero consentirebbe all'Istituto previdenziale di ottenere la rifusione di quanto pagato al danneggiato, dall'altro esporrebbe il cittadino al rischio di una triplice imposizione patrimoniale, atteso che il responsabile del danno, dopo aver contribuito alla fiscalità generale (da cui vengono attinte le risorse necessarie per l'erogazione delle invalidità) ed aver risarcito il danno alla vittima, potrebbe essere ulteriormente percosso patrimonialmente per restituire ad Inps quanto, da quest'ultimo, riconosciuto in favore dell'invalido.

Trattasi, all'evidenza, di uno scenario che si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), atteso che ogni qualvolta il danneggiato acceda ad un trattamento per cui è previsto il recupero, il patrimonio del responsabile civile rischia di essere gravato di un'ulteriore posta di danno che di fatto andrebbe ad arricchire il danneggiato. Oltretutto, ove accedessimo alle conclusioni di INPS, e cioè che l'art. 41 conferisce all'Istituto un diritto proprio di richiedere al responsabile il rimborso di quanto versato al danneggiato, tali somme risulterebbero al quel punto dovute a prescindere dall'accertamento del danno secondo le regole civilistiche.

Pertanto, aldilà dell'atecnica formulazione della norma («le pensioni, gli assegni e le indennità, spettanti agli invalidi civili ai sensi della legislazione vigente, corrisposti in conseguenza del fatto illecito di terzi, sono recuperate…»), un'interpretazione costituzionalmente orientatadella stessa imporrebbe quantomeno di inquadrare tale nuova azione nell'alveo dell'istituto della surrogazione.

Conclusioni

Alla luce di quanto sopra, pare che il percorso motivazionale posto alla base di Cass. civ., n. 13537/2014 e poi ripreso dalle ordinanze in commento sia affetto da alcuni vizi logici che finirebbero col frustrare le istanze di equità di cui le stesse si fanno dichiaratamente portatrici.

Ed anzi, rileveremo come l'applicazione pretoria della disciplina codicistica sia ben in grado di presidiare il rischio paventato nelle pronunce in commento e cioè quello di indebite locupletazioni in favore dei danneggiati (rischio tanto più “inaccettabile”, per citare Cass. civ., n. 13537/2014, ove tali locupletazioni finiscano col gravare sull'erario).

Resta piuttosto da chiarire, a fronte di un dettato normativo non sempre chiaro e spesso affetto di atecnicismi (vedi il recupero ex art. 41 l. 183/2010), il concreto atteggiarsi di alcune prestazioni pubblicistiche, per comprendere quali tra di esse abbiano effettivamente natura indennitaria e, in quanto tali, possano essere “scorporate” dal compendio risarcitorio consentendo all'assicuratore sociale di ottenerne la rifusione, in via surrogatoria, presso il responsabile. Ma se all'esito di tale indagine risultasse che alcune di esse non hanno natura indennitaria (come appunto nel caso della reversibilità che, a parere di scrive, non è assistita dal diritto di surrogazione), l'interprete non potrà spingersi fino a stravolgere il dato di diritto positivo sulla base di valutazione macro-economiche che, a tutto voler concedere, spettano al legislatore.

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