I “danni punitivi” nella rc auto e nella rc sanitaria: cosa cambia dopo le Sezioni Unite?

Maurizio Hazan
01 Agosto 2017

Commento dell'attesissima sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 con cui la Suprema Corte ha preso finalmente posizione sull'annosa questione dei così detti “danni – recte: risarcimenti – punitivi”.
Alcuni temi generali

Anche quest'anno le Sezioni Unite della Cassazione hanno atteso il mese di Luglio per regalarci una nuova lettura per l'estate, non esattamente da ombrellone.

Nel 2015 si trattò del danno da morte, tema appassionante ma non certo vacanziero (Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015 n. 15350. Si vedano su questa sentenza i commenti di F.ROSADA, Perdita della vita e diritto al conseguente risarcimento del danno: questione chiusa; P.ZIVIZ, Il danno da perdita della vita: ritorno al passato; M. HAZAN, Game Over! Il danno da perdita della vita non è risarcibile, tutti su Ridare.it ). E anche questa volta l'argomento non è tra i più leggeri. Ci riferiamo alla – attesissima – sentenza n. 16601 del 5 luglio 2017 con cui la Suprema Corte, a ranghi compatti e dopo lunghissima gestazione, ha preso finalmente posizione sull'annosa questione dei così detti “danni – recte: risarcimenti – punitivi”; questione niente affatto trascurabile, in quanto, potenzialmente idonea ad incidere severamente, a seconda della soluzione offerta, sugli assetti generali del sistema del risarcimento del danno, tanto più nell'ambito delle responsabilità obbligatoriamente assicurate (rc auto e, dopo la legge 24/2017, rc sanitaria).

L'impianto motivazionale della pronuncia si snoda – con un certo stile – attraverso passaggi raffinati, complessi e tecnicamente impegnativi (data l'enorme mole di spunti teorici di volta in volta stimolati). Ma non è questa, ovviamente, la sede per scandagliarli tutti in dettaglio.

Qui occorre rimanere ancorati sulle coordinate “fondamentali” della questione, onde provare a comprendere:

a) quali siano le conclusioni alle quali la Cassazione perviene;

b) in che termini tali conclusioni impattino su taluni temi di teoria generale del risarcimento del danno;

c) quali siano, se vi sono, i riflessi procurati dalla sentenza sugli assetti dei sistemi di responsabilità obbligatoriamente assicurata.

A tal fine è necessario muovere, preliminarmente, da un inquadramento generale – seppur davvero semplificato o financo “liofilizzato” – della tematica.

Con la proposizione (semanticamente incerta) “danni punitivi” si intendono quei compendi economici posti a carico dei responsabili civili a titolo di sanzione per la (gravità) della condotta dagli stessi tenuta, a prescindere da (o meglio, in aggiunta a) quanto da loro dovuto al danneggiato per la riparazione, in senso stretto, del danno da quest'ultimo effettivamente patito (inteso come danno conseguenza, da provarsi nella sua piena interezza).

La stessa ambiguità della formula tradisce la difficoltà di correttamente inquadrare il fenomeno, dal momento che la traslitterazione pedissequa del sintagma statunitense (punitive damages) rischia di perdere, nel nostro linguaggio giuridico, di aderenza, confondendo presupposto e conseguenza della proposizione punitiva: ciò che è danno non è mai, in sé e per sé, “punizione” per chi lo cagiona ma ragione della sua condanna al risarcimento o, semmai, della sanzione alla quale egli sarebbe sottoposto.

A prescindere da tali insidie logico/lessicali, la possibilità di aggravare la posizione del responsabile civile ponendo a suo carico obblighi di pagamento aggiuntivi rispetto alla misura del danno effettivamente cagionato nasce dall'esperienza nordamericana (si veda sul punto G.PONZANELLI, I punitive damages nell'esperienza nord- americana, in Riv. dir. Civ., 1983, 435”), incline a favorire tali atteggiamenti punitivi nei casi in cui la condotta del danneggiante sia stata di gravità tale da eccedere i parametri di un'ordinaria negligenza o colpa. In realtà, tali approcci sanzionatori statunitensi sono assai meno frequenti di quanto non si vociferi, come ben osservato da M. Galanter & D. Luban, secondo i quali “All these perceptions, however, are myths. Only a small proportion of punitive awards arise in strict liability (POETIC JUSTICE Punitive Damages and legal Pluralism pp. 1393 e ss, 1993. E nello stesso senso si veda Sebok, Punitive Damages from myth to theory, in 92 Iowa L. Rev., 2007, 957, 1008 dove si legge che nel periodo che va dal 1985 in poi, giudici e giurie hanno complessivamente accordato un risarcimento punitivo in una percentuale di casi che, a seconda dello studio considerato, va dal 2% al 9% dei casi).

Rimane il fatto che la suggestività del tema, afferente anche al confine tra responsabilità civile e responsabilità penale, ha sviluppato, anche qui da noi, fecondi dibattiti. Vi è, dunque chi (e ci sia perdonata l'assoluta leggerezza di tale semplificazione…) ha provato a sostenere che, a fronte di condotte particolarmente riprovevoli, il Giudicante – anziché limitarsi a liquidare, a titolo di risarcimento, l'esatta misura del danno inferto al danneggiato – possa “punire” il responsabile, condannandolo al pagamento di una somma ulteriore a titolo di vera e propria pena civile. Così, ad esempio, al cospetto di un fatto/reato, specie se di particolare gravità, e tanto più se commesso con efferatezza, la condanna in sede civile potrebbe esorbitare il puro ristoro del danno conseguenza patito dal danneggiato, sino ad assumere una funzione deterrente/sanzionatoria (nei confronti del responsabile), rimessa al potere di valutazione equitativa del giudicante. Insomma, secondo i sostenitori del “danno punitivo” la distanza tra il sistema penale e quello civile non sarebbe poi così netta, potendosi attribuire anche al secondo funzioni sanzionatorie tipiche del primo.

In questa prospettiva, dunque, la misura della condanna del responsabile, a parità di danno, diventerebbe cangiante in funzione della maggior o minor gravità della condotta o l'intensità del dolo, con buona pace di quelle esigenze di certezza e prevedibilità che, invece, sembrerebbero connotare i più recenti e consolidati approcci giurisprudenziali in tema di risarcimento del danno (tanto più nel campo del danno alla persona, sempre più incentrato su criteri risarcitori a matrice tabellare).

In realtà, l'avventurosa evocazione di una punizione “risarcitoria” o di una sanzione di diritto civile aveva fino ad oggi incontrato il fermo diniego della nostra Corte di Legittimità, sin qui piuttosto salda nell'affermare l'estraneità al risarcimento del danno dell'idea di punizione, attesa la funzione riparatoria e compensativa della responsabilità civile (in opposizione a quella sanzionatoria, propria del diritto penale). Il tutto ponendosi in linea di sostanziale continuità con quanto stabilito sin dalla Relazione al Codice Civile (p. 181) nella quale si legge testualmente – e in particolare nei lavori relativi all'art. 2056 c.c. – che nella definizione delle regole della responsabilità civile “non si è accolto […] il principio di commisurare il risarcimento al grado della colpa”.

L'affermazione di un correlato principio di indifferenza della condotta del danneggiante, rispetto al risarcimento del danno, non è, peraltro, del tutto corretta.

Se può, infatti, sostenersi che l'istituto del risarcimento del danno miri a compensare il danneggiato e non a punire il responsabile, non può comunque negarglisi una funzione anche deterrente, in funzione del tipo di condotta in concreto tenuta.

Come ben sottolineato dalla dottrina d'oltreoceano (v. Galanter secondo cui «even though damages are labeled as compensatory, the focus is not entirely on the victim's loss, but also on the conduct of potential wrongdoers») non vi è dubbio che le fattispecie di responsabilità possano essere influenzate, nelle loro conseguenze risarcitorie, dalle modalità di causazione del danno. Ciò non solo, e non tanto, perché la gravità della condotta potrebbe effettivamente aggravare il danno (aumentando l'incidenza della sofferenza della parte lesa, ad esempio) quanto, e soprattutto, perché a fronte di determinati comportamenti un danno non (altrimenti) risarcibile diventerebbe tale. In questo senso si considerino, anzitutto, le previsioni dell'art. 2059 c.c. (cuore ed epicentro del sistema del risarcimento del danno non patrimoniale), nella parte in cui correla la rilevanza (anche penale) dell'illecito - non a “punizioni” bensì - al ristoro di danni (non patrimoniali ma effettivi) altrimenti non risarcibili, in quanto ritenuti dall'ordinamento non meritevoli di tutela in assenza di idonea e specifica previsione legislativa. Ma, per rimanere nel campo degli illeciti aquiliani, non possono dimenticarsi le previsioni degli artt. 2045 e 2046 c.c.

Ebbene secondo l'art. 2046 c.c. «non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità d'intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d'incapacità derivi da sua colpa». Fatta salva la responsabilità para oggettiva di chi abbia la sorveglianza dell'incapace (ex art. 2047 c.c.), l'incapace medesimo non risponde del danno (in termini di vero e proprio risarcimento) salvo la sua condotta abbia determinato colpevolmente il proprio stato di incapacità.

A mente dell'art. 2045 c.c., dipoi, «quando chi ha compiuto il fatto dannoso vi è stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona e il pericolo non è stato da lui volontariamente causato né era altrimenti evitabile, al danneggiato è dovuta un'indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice». Nella relazione del Guardasigilli (798) è ben specificato che nella fattispecie prevista dalla norma «A rigore, per quanto non vi sia stato eccesso e si sia rispettata la proporzione tra pericolo e danno, il fatto compiuto in situazione di necessità è imputabile perciò cosciente e volontario; da ciò deriverebbe la conseguenza che il danno deve essere risarcito secondo i criteri ordinari. Ma per riguardo alle particolarità del caso, mentre la legge penale dichiara non punibile l'autore (art. 54 c.p.), quella civile sancisce soltanto una attenuazione di responsabilità, nel senso che al danneggiato è dovuta una indennità che sarà determinata dal giudice secondo equità (art. 2045), costituendo in sostanza un dovere del soggetto di contribuire, con il sacrificio parziale proprio, alla salvezza altrui se questa non si possa altrimenti ottenere» (Relazione del Ministro Guardasigilli Dino Grandi al Codice Civile del 4 aprile 1942).

Insomma, il nostro ordinamento, in tema di responsabilità, giunge sovente a considerare la condotta del responsabile ma non al fine di aggravare la condanna con una pena aggiuntiva quanto per espandere (o meno) la proposizione risarcitoria a (veri e propri) danni normalmente non risarcibili. Ed il fatto che, in talune ipotesi, la posizione del danneggiato sia comunque tutelata attraverso la possibilità di liquidare, in luogo del risarcimento, un equo indennizzo, dimostra come la traiettoria seguita dal legislatore non sia affatto punitiva quanto piuttosto compensatoria.

Anche nel campo del diritto della responsabilità contrattuale esistono nell'ordinamento previsioni normative che a diverso titolo sembrano fare riferimento alla condotta del responsabile per la liquidazione del danno risarcibile. Si pensi, al riguardo, all'art. 1225 c.c., in base al quale «Se l'inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l'obbligazione». Come chiarito dalla giurisprudenza, la prevedibilità non costituisce un limite all'esistenza del danno, ma alla misura del quantum (Cass. civ., Sez. Lav. 31 luglio 2014 n. 17460); il che fa emergere ancora una volta che la condotta (dolosa) vale – anche qui - non a punire ma a consentire il risarcimento di un danno (effettivo) altrimenti non ristorabile.

Tornando a temi più attuali, le stesse Sezioni Unite, occupandosi proprio del danno da morte immediata, avevano incidentalmente evidenziato, solo due anni orsono, come «la progressiva autonomia della disciplina della responsabilità civile da quella penale» avesse comportato «l'obliterazione della funzione sanzionatoria e di deterrenza (v., tra le tante, Cass. civ., n. 1704 del 1997, Cass. civ. n. 3592 del 1997, Cass. civ. n. 491 del 1999, Cass. civ. n. 12253 del 2007, Cass. civ. n. 6754/2011) e l'affermarsi della funzione reintegratoria e riparatoria (oltre che consolatoria), tanto che si è ritenuto non delibabile, per contrarietà all'ordine pubblico interno, la sentenza statunitense di condanna al risarcimento dei danni "punitivi" (Cass. civ., n. 1183 del 2007, Cass. civ., n. 1781 del 2012), i quali si caratterizzano per un'ingiustificata sproporzione tra l'importo liquidato ed il danno effettivamente subito».

Sennonché, a dispetto di una tale perentorietà, la questione è stata riportata in emersione in considerazione della progressiva - eppur asistematica - infiltrazione, nel nostro ordinamento civilistico, di regole sparse e francamente sanzionatorie, tese più a punire l'autore di una condotta dannosa che a risarcire la vittima dell'illecito. Di qui il dubbio che l'ontologica incompatibilità del sistema di diritto civile con la funzione afflittiva dei c.d. danni punitivi non fosse in realtà tale. O almeno, non potesse più esser ritenuta tale, al cospetto della più recente evoluzione normativa.

La sentenza in pillole

Proprio traendo spunto da quelle disposizioni di contenuto sanzionatorio (oggi a diverso titolo reperibili in diversi comparti ordinamentali) l'ordinanza di rimessione 16 maggio 2016 n. 9978 chiedeva alle Sezioni Unite di prender definitiva posizione sul punto e di chiarire se «la funzione riparatoria-compensativa sia davvero l'unica attribuibile al rimedio risarcitorio e se sia condivisibile la tesi che ne esclude, in radice, la natura punitiva deterrente». E da queste medesime trame scaturisce la sentenza che oggi si commenta.

La vicenda da cui la stessa trae linfa è - ancora una volta (come già nel 2007) - afferente ad un giudizio di delibazione di tre sentenze di condanna pronunciate negli Stati Uniti d'America: sentenze il cui contenuto sarebbe stato, secondo i ricorrenti, manifestamente sproporzionato e dunque punitivo.

Ora, le Sezioni Unite, pur negando in radice – nel caso di specie – qualsiasi profilo di esorbitanza (e quindi di sanzione) del compendio risarcitorio in concreto liquidato dalle sentenze statunitensi (rispetto al danno dedotto in giudizio) ha comunque ritenuto opportuno entrare in argomento onde provare a risolvere, in termini generali, la questione dei punitive damages, in quanto considerata di massima e prioritaria importanza sistematica.

Quali, dunque, le conclusioni alle quali la Corte approda?

Invertendo il trend – e sostanzialmente ribaltando i propri precedenti assunti – le Sezioni Unite sostengono a chiare lettere che, contrariamente a quanto in passato ritenuto, la funzione sanzionatoria del risarcimento del danno non sarebbe più incompatibile con i principi generali del nostro ordinamento «giacché negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento». Più precisamente, ed ancora una volta testualmente, la Suprema Corte giunge ad affermare che accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo/riparatoria dell'Istituto «(che immancabilmente lambisce la deterrenza) è emersa una natura polifunzionale … che si proietta verso più aree, tra cui sicuramente principali sono quella preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva». A far da puntello “pratico” a tale idea vi è una poderosa ricognizione casistica proprio di quel panorama normativo a cui si faceva poc'anzi riferimento e dei numerosi esempi delle prestazioni sanzionatorie di diritto civile di cui il nostro ordinamento è andato via via arricchendosi in numerosi ed eterogenei comparti (in materia di brevetto e marchio, condominiale, lavoristica, di abuso del processo, diffamazione a mezzo stampa, di subfornitura, di ritardo nel pagamento nelle transazioni commerciali, di locazione ecc. …).

Insomma, e qui sta la grande novità proposta dalle Sezioni Unite, il risarcimento del danno, superati i barrages di principio posti dalla più consolidata giurisprudenza precedente, potrebbe aver anche funzione sanzionatoria, in funzione della maggiore gravità della condotta del danneggiante.

Una tale apertura, ove fraintesa o strumentalmente distorta, potrebbe dar la stura ad un nuovo modo di concepire la responsabilità civile, aprendo la via a condanne esemplari spinte dalla volontà del Giudicante di punire condotte percepite soggettivamente come particolarmente gravi e sconvenienti, a prescindere dalla misura del danno effettivamente inflitto.

Se così fosse, la faticosa ricerca di una misura e di una regola liquidativa che sappia correttamente calibrare le relazioni risarcitorie (nella moderna società del rischio) rischierebbe di esser vulnerata dalla più totale anarchia giustizialista, ammantata da mozioni etiche facili a trasmodare in derive.

In verità le Sezioni Unite, ben consce di tale insidia, si sono subito affrettate a temperare l'apparente portata espansiva della nuova vocazione punitiva, ponendo sicuri recinti e precisi limiti al suo espandersi.

In questo senso va apprezzato, diremmo quasi incorniciato, il passaggio motivazionale in cui viene chiarito che la riconosciuta funzione (anche) sanzionatoria della responsabilità civile non può spingersi tanto in là da consentire di sostenere che «l'istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimenti che vengono liquidati». Ben al contrario, le Sezioni Unite sono perentorie nel privare il Giudice Civile di qualsiasi potere equitativo eversivo, vincolando il suo esercizio sanzionatorio all'esistenza di specifiche norme che lo autorizzino: «ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa in forza del principio di cui all'art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25) che pone una riserva di legge quanto a nuove prestazioni patrimoniali e preclude un incontrollato soggettivismo giudiziario».

E non basta. Anche laddove ammesso (si ripete, da norme speciali che lo riconoscano espressamente) il potere sanzionatorio soggiace anche ad un ulteriore limite invalicabile: quello di una proporzionalità che potremmo definire “a doppia mandata”. È infatti necessario che vi sia, da un lato, un rapporto proporzionato tra componenti riparatorio/compensative e componenti punitive. Dall'altro che la “sanzione” sia commisurata (e, dunque, ancora una volta “proporzionata”) alla condotta censurata. Il che, del resto, evoca meccanismi di riconduzione ad equità che il nostro diritto positivo già ben conosce, come ad esempio in relazione alla clausola penale, ove manifestamente sproporzionata, (ex art. 1384 c.c.).

Anche nel sistema statunitense dei punitive damages, peraltro, la regola proporzionale funge da preciso limite al potere sanzionatorio del Giudicante: «the usual doctrinal requirements are that the amount should not be disproportionate to the compensatory damages and should be commensurate with the defendant's acts and wealth. Obviously these considerations give a great deal of discretion to the decisionmaker». (M. Galanter & D. Luban POETIC JUSTICE, cit. e D. D. Ellis, Jr., Fairnessand Efficiency in the Law of Punitive Damages, 56 S. CAL. L. REV. 1, 58, 1982)

Insomma, e in ultima analisi: la funzione sanzionatoria della responsabilità non costituisce espressione di una clausola generale del nostro ordinamento ma ne integra, dopo tutto, un'eccezione, richiedendo – al netto della regola proporzionale – l'esistenza di norme speciali che consentano di farvi ricorso.

Tornando poi al tema delibatorio, la Cassazione chiude il proprio percorso stendendo il seguente, “rotondo”, principio di diritto:

«Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi incompatibile con l'ordinamento italiano dell'istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell'ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unitamente agli effetti dell'atto straniero e alla loro compatibilità con l'ordine pubblico».

Un ordine pubblico che, a sua volta, va inteso in senso in qualche modo dinamico e non eccessivamente geolocalizzato essendo «divenuto il distillato del "sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali dalla Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell'Unione europea dall'art. 6 TUE» pur «nel rispetto dei diversi ordinamenti giuridici e delle diverse tradizioni giuridiche degli Stati membri».

Ci sia concesso, prima di proceder oltre sullo specifico tema assicurativo che ci proponiamo di indagare, come il principio di diritto poco sopra riportato consenta di svolgere una ulteriore riflessione di ordine generale.

È certamente vero che il sistema della responsabilità civile – e più genericamente, il nostro ordinamento - pur normalmente incline al risarcimento, alla deterrenza e non invece alla sanzione – conosce un sempre maggior ricorso a pene pecuniarie civili, espressamente previste dal legislatore in correlazione (o meglio, in risposta) a determinate condotte biasimevoli.

Non è dunque errato sostenere, facendo proprie le parole della sentenza in commento, che accanto alla preponderante e primaria funzione compensativo riparatoria della responsabilità civile possano emarginarsi anche una mozione «preventiva (o deterrente o dissuasiva) e quella sanzionatorio-punitiva».

Ma se tale polifunzionalità può essere, lato sensu, riferita al sistema della responsabilità civile, non altrettanto può dirsi, a nostro parere, con riferimento all'istituto del risarcimento del danno.

Il danno deve essere risarcito, in forma specifica o per equivalente. Nulla di più e, semmai, qualcosa di meno, laddove il legislatore ritenga che taluni pregiudizi possano esser sopportati, in un'ottica di sistema, da coloro i quali li hanno patiti. Lo stesso sintagma di “risarcimento punitivo” esprime un'idea ossimorica, per nulla condivisibile. E in questo senso è interessante prendere atto del fatto che il Considerando 32 del regolamento (CE) n. 864/2007 del parlamento europeo e del consiglio dell'11 luglio 2007 parli non di danni punitivi ma di danni non risarcitori aventi carattere esemplare..

Ben altra cosa è, invece, sostenere che il sistema della responsabilità civile possa contemplare, accanto al risarcimento, la possibilità di irrogare pene pecuniarie che, davvero eccentriche alla teoretica del risarcimento del danno, presidiano una funzione punitiva a sé stante; si tratta di vere e proprie sanzioni, davvero lontane da quel principio cardine dell'equivalenza riparatoria che informa il sistema risarcitorio aquiliano. Pare dunque che ci si trovi innanzi, più che ad una distorsione della funzione tipica dell'istituto aquiliano, ad un istituto a sé stante, in qualche modo ibrido in quanto volto a punire condotte ritenute disdicevoli sul piano pubblicistico (tanto più nel caso in cui le stesse rimarrebbero altrimenti – per l'ordinamento – indifferenti, in quanto penalisticamente irrilevanti) pur destinando la sanzione alla tasca privata (e non invece all'erario).

Ciò posto, in termini generali, proviamo a comprendere quali siano, se vi sono, gli impatti della pronuncia delle Sezioni Unite sul mercato assicurativo e, prima ancora, sui due sistemi di responsabilità obbligatoriamente assicurati oggi più rilevanti.

Quali impatti, dunque, sui risarcimenti della rc auto?

Il mercato assicurativo attendeva la sentenza con una certa apprensione, temendo che l'affermazione di una qualche funzione punitiva del risarcimento potesse, di fatto, scardinare gli argini della personalizzazione tabellare, consentendo al Giudicante di sfuggire ai limiti di personalizzazione previsti dagli rtt. 138 e 139 e di alzare la posta delle condanne in funzione della propria percezione della gravità della condotta. Preoccupazione, tale ultima, certamente più viva nei settori maggiormente impattati dalla tematica, e quindi nel campo del danno alla persona da rc auto e – dopo la Legge Gelli – della responsabilità sanitaria. Un campo in cui proprio l'insofferenza ai tetti tabellari aveva di per sè costituito, almeno fino alla sentenza n. 235/2014 della Corte Costituzionale (v. M. HAZAN, La Consulta e il danno alla persona nella r.c. auto: così è così pare; D. SPERA, Riverberi sulla tabella milanese della pronuncia costituzionale sull'art. 139, entrambi in Ridare.it; A. Frigerio, La legittimità costituzionale dell'art. 139 cod. ass, in Danno e Resp., 2014, p. 1024) uno dei motivi di maggiore discussione tra gli interpreti.

L'allarme merita, invero, di esser ammortizzato da una più serena lettura della sentenza, in sincrono con l'attuale stato del nostro ordinamento.

Ben al contrario di quanto da taluni preconizzato la pronunzia delle Sezioni Unite offre un decisivo contributo di chiarezza proprio in relazione alla rc auto, escludendo, secondo noi – ed allo stato della legislazione vigente - qualsiasi aggravio risarcitorio punitivo.

Come poc'anzi evidenziato, infatti, la condizione imprescindibile del danno punitivo (e quindi di una comminatoria aggiuntiva di tipo sanzionatorio al risarcimento civilistico) risiede nell'esistenza di una norma speciale che non solo la consenta ma la renda ex ante prevedibile.

Se si ammette una funzione sanzionatoria della responsabilità civile, la stessa dovrà essere dunque ancorata agli stringenti parametri previsti per la materia penale e amministrativa in tema di sanzioni. Non qualsiasi condotta, peraltro, può essere oggetto di sanzione, ma quella che risulta chiaramente tipizzata in una norma (il fatto deve essere conforme al tipo) che permetta al danneggiato di conoscere a priori le conseguenze del proprio agire.

E ciò, nel settore della rc auto, non accade, essendo lo stesso presidiato, sotto il profilo del risarcimento, dalle convenzioni tabellari di cui ai citati artt. 138 e 139 cod. ass.: disposizioni la cui portata sostanzialmente omnicomprensiva, e non ulteriormente dilatabile al di là dei tetti di personalizzazione dalle stesse rispettivamente stabiliti, risulta sancita (almeno per le lesioni di lieve entità) dalla Consulta (C. Cost. n. 235/2014) e confermata, in via prospettica, dal DDL Concorrenza (di cui si vocifera l'imminente trasmutazione in legge).

Insomma, nel settore della rc auto manca – allo stato – qualsiasi disposizione che autorizzi la comminatoria di sanzioni civili pecuniarie in aggiunta al risarcimento. Laddove il legislatore ha voluto punire più severamente determinate condotte lo ha fatto intervenendo nel comparto penale, come recentemente accaduto con la declinazione del reato di omicidio stradale (art. 589-bis c.p.). Il risarcimento del danno civilistico continua invece ad essere informato ai principi contenitivi e predittivi che stanno alla base della liquidazione tabellare del danno, propria dei sistemi obbligatoriamente assicurati.

Se ciò è vero possono, definitivamente, rispedirsi al mittente le suggestioni di chi, facendo leva su di una equivoca lettura del combinato disposto dell'art. 2059 c.c. e dell'art. 185 c.p. vorrebbe agganciare ad ogni fatto integrante reato, se connotato da una particolare gravità della condotta dell'agente, una componente risarcitoria aggiuntiva alle voci di danno non patrimoniale, di per loro considerate. Ben al contrario, la logica presidiata dall'art. 2059 c.c.,– certamente correlata, almeno in origine, alla rilevanza anche penale dell'illecito – non apriva la via a punizioni bensì – come sopra già precisato - al ristoro di danni (non patrimoniali ma effettivi) altrimenti non risarcibili, in quanto ritenuti dall'ordinamento non meritevoli di tutela in assenza di idonea e specifica previsione legislativa. In questa diversa ottica nulla vieterebbe di ritenere che la gravità della condotta possa aver influito sulla cifra sofferenziale patita dal danneggiato: ma non si tratterebbe in questo caso di sanzione ma di diversa e miglior valorizzazione dei patimenti, e dunque dei danni, effettivamente sofferti dal danneggiato (si pensi al caso del prossimo congiunto che assista all'omicidio brutale della vittima primaria).

E dunque, e per concludere sull'argomento, il sistema della liquidazione della rc auto non consente di sanzionare alcunché, in aggiunta al risarcimento civilistico (pur declinato nel modo più ampio, tenendo conto dell'eventuale incidenza della condotta sulla misura del danno e della sofferenza della vittima).

De iure condendo, ben si potrebbe immaginare che quel peculiare sistema risarcitorio – fondato su regole proprie, a loro volte imbastite attorno all'idea di una necessaria sostenibilità generale – incontri dei correttivi a fronte di condotte extravaganti, eccentriche e particolarmente odiose. Si potrebbe, cioè, ritenere che quel principio di solidarietà che consente di accettare risarcimenti “calmierati” rispetto a quelli di diritto comune non possa spingersi così in là dal neutralizzare mutualisticamente comportamenti troppo distanti rispetto a quelli che integrano il rischio tipico e connaturato alla circolazione stradale. Insomma, in un futuro forse prossimo il sistema para/indennitario quale quello della rc auto potrebbe essere integrato da un set di norme sanzionatorie civili volte a consentire di porre a carico di chi, ad esempio, si sia messo alla guida in stato di ubriachezza, paghi un dazio più alto, vuoi escludendolo dal regime tabellare privilegiato del Codice delle Assicurazioni, vuoi prevedendo comminatorie civilistiche pecuniarie ad hoc.

Ma si tratta, ripetesi, di scenari futuri, allo stato null'altro che suggestivi

Segue: danno punitivo e responsabilità sanitaria, dopo la legge Gelli

Qualche più rilevante impatto potrebbe prodursi nel campo della responsabilità sanitaria.

Al riguardo è appena il caso di rilevare come la sentenza in commento non abbia citato, nell'ambito della vastissima casistica esemplificativa dalla stessa passata in rassegna, la nuova legge sulla sicurezza delle cure e sulla responsabilità sanitaria (l. n. 24/2017 c.d. Legge Gelli); norma, tale ultima, che contiene più di una disposizione a contenuto effettivamente, od almeno potenzialmente, sanzionatorio.

Il pensiero corre, anzitutto, all'art. 8 comma 4, nella parte in cui prevede che il Giudice condanni le parti che non hanno partecipato al procedimento di consulenza tecnica preventiva (od alla mediazione conciliativa, ove optata in alternativa) al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall'esito del giudizio; il tutto oltre «ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione». Il testuale riferimento al concetto di pena pecuniaria risulta non solo eloquente ma straordinariamente utile a sostenere una tesi forse diversa da quella predicata dalle Sezioni Unite. Quella a cui abbiano fatto cenno prima, volta a sostenere che ci si trovi innanzi non tanto ad un risarcimento punitivo ma ad un istituto a sé stante, in qualche modo ibrido, gravitante nell'orbita della responsabilità civile ma scevro da qualsiasi intenzione risarcitoria e, invece, infiltrato da mozioni giuspubblicistiche.

Vi è poi da chiedersi quale impatto la sentenza in commento potrà produrre in relazione alla previsione dell'art. 7 comma 3 della legge 24/2017, a mente della quale «L'esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1 e 2 risponde del proprio operato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Il giudice nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'articolo 5 della presente legge e dell'articolo 590-sexies del codice penale, introdotto dall'articolo 6 della presente legge».

L'idea introdotta dalla Legge Gelli pare, a prima vista, volta ad importare nella criteriologia risarcitoria civilistica un potere di graduazione tipico della valutazione erariale presso la Corte dei Conti: il tutto in coerenza con una tendenza ad attenuare, ove possibile, i gravami posti a carico del medico (recte: dell'esercente), il recupero della cui serenità professionale costituisce, lo abbiamo detto, uno dei trade mark della riforma. E non è un caso che la norma riguardi proprio, e solo, la responsabilità del medico “strutturato”, e cioè di colui il quale risponde ex art. 2043 c.c. non avendo agito in forza di un rapporto contrattuale diretto con il paziente. Analoga regola non vale, dunque, nel campo della responsabilità contrattuale (del medico libero professionista o della struttura, nemmeno allorquando la stessa sia chiamata a rispondere direttamente, ai sensi dell'art. 1228 c.c.). A nostro parere, dunque, la norma esprime soltanto un potere riduttivo in capo al giudice in funzione dell'osservanza o meno delle linee guida (di cui all'art. 5 della legge e della conseguente applicabilità della causa di non punibilità di cui all'art. 590-sexies c.p.); potere riduttivo che si giustifica come ulteriore temperamento di una responsabilità aquiliana alleggerita (quella dell'esercente strutturato) e che, in quanto tale, non si applicherebbe laddove il regime di responsabilità si riespanda (abbracciando gli schemi contrattuali).

D'altra parte è proprio la franca collocazione topografica della norma (nel comma dedicato agli esercenti strutturati) a far propendere per l'interpretazione contenitiva: diversamente opinando - e ipotizzando che il potere di graduazione sia esercitabile anche in aumento, onde punire il mancato rispetto delle linee guida – dovremmo dire che il regime astrattamente peggiorativo riguardi soltanto gli esercenti strutturati e non invece i medici liberi professionisti. Ma tal conclusione avrebbe davvero pochi appigli sistematici e razionali, risultando antinomica rispetto agli scopi della legge Gelli ed all'obiettivo di rinforzare la responsabilità di posizione di chi disponga del potere di governo del rischio clinico rispetto a quella di coloro i quali non ne dispongano in quanto calati in un sistema organizzato eterodiretto.

Non riteniamo, quindi, possibile sostenere – come forse qualcuno sarà indotto a fare – che la sentenza delle Sezioni Unite sdogani la possibilità di sanzionare civilisticamente la condotta dell'esercente strutturato, ove questi non abbia osservato le linee guida: l'esistenza di una norma ad hoc (il citato art. 7 comma 3) non soddisfa, infatti, alla bisogna, non potendo tal norma ragionevolmente interpretarsi in senso accrescitivo ma soltanto riduttivo del compendio risarcitorio in concreto liquidato.

È comunque interessante osservare come la legge di riforma sanitaria rinforzi l'idea della autonomia del sistema rispetto a quello civile, dal momento la condotta imperita, pur osservante delle linee guida e delle buone pratiche clinico-assistenziali (e quindi scriminata penalisticamente), potrebbe comunque generare la responsabilità civile del medico con conseguente obbligo di risarcimento del danno. È infatti la stessa impostazione dell'art. 7 comma 3 a dar per pacifica la possibilità che la responsabilità civile sia comunque implicata, anche laddove, in caso di imperizia, siano state osservate le linee guida e, ciò non dimeno, sia stato causato un danno (F. GELLI, M. HAZAN, D. ZORZIT, La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione, cap. 12,; M. HAZAN, A. CASSANO CICUTO, M. RODOLFI, Il risarcimento del danno da responsabilità sanitaria, p. 361).

Sanzioni e assicurazione

Alla luce di quanto sopra e tornando ai temi assicurativi, proviamo a trarre qualche conclusione circa le potenziali ricadute della sentenza sui risarcimenti (e più in generale, sulle liquidazioni) nell'ambito dei sistemi obbligatoriamente assicurati).

In via preliminare, spostando per un attimo l'angolo visuale, può essere interessante osservare come negli Stati Uniti il rimedio punitivo sia stato coltivato sovente proprio a carico delle imprese di assicurazione, il cui comportamento fraudolento ha talvolta giustificato “l'applicazione del rimedio in base alla violazione di un impegno di buona fede (covenant or implied duty of good faith), implicito in ogni regolamento negoziale, ma particolarmente importanti nei rapporti caratterizzati da profonda disparità economica delle parti, con la conseguente necessità di verificare il c.d. “bargaining power” posseduto dai contraenti al momento della conclusione del contratto” (si veda F. Giovagnoli: I punitive damages nell'esperienza statunitense, consultabile sul sito http://digilander.libero.it/fabiogiovagnoli/danni%20punitivi.pdf e si consideri il leading case Wetherbee v. United Ins. Co., 1968), avente ad oggetto proprio l'irrogazione di sanzioni esemplari verso una Compagnia assicurativa che aveva abusato della forza del proprio potere contrattuale nella stipula della polizza, a danno dell'assicurato). Pur trattandosi di tema eccentrico rispetto a quello del risarcimento dei danni derivanti da responsabilità assicurate, non vi è dubbio che l'argomento rivesta di una sua assoluta attualità, tenuto conto della sempre maggior vocazione sociale dell'istituto assicurativo e dei correlati (rilevantissimi) obblighi di “protezione”, buona fede e di servizio posti a carico delle imprese e degli intermediari verso i propri assicurati e verso gli aventi diritto in generale (si veda l'art. 3 cod. ass. come modificato da Solvency II e la direttiva IDD 2016/97/UE).

Ciò posto, e tornando al tema dei risarcimenti assicurati, è opportuno osservare come l'istituto dell'azione diretta, tipico della rc auto e, dopo la legge Gelli, dell'assicurazione obbligatoria del rischio clinico, ponga invero il mercato assicurativo innanzi alla possibilità di un aumento dei compendi monetari da riconoscersi (in via diretta, appunto) ai danneggiati, laddove gli stessi venissero “caricati” di eventuali aumenti di carattere punitivo e/o sanzionatorio. Il che finirebbe per riverberarsi sul livello dei premi posti a carico, sia pur pro capite, della collettività assoggettata all'obbligo di assicurarsi.

Ora, se quanto sin qui abbiano ipotizzato fosse corretto, tale preoccupazione sarebbe infondata.

Nel sistema della rc auto, lo abbiamo visto, manca quel riferimento normativo (quell'intermediazione legislativa, per usar le parole delle Sezioni Unite) a cui la sentenza vincola la possibilità, per il Giudice, di irrogare sanzioni aggiuntive al vero e proprio risarcimento. In altre parole, i riferimenti tabellari di cui agli artt. 138 e 139 cod. ass. paiono destinati a rimanere fermi nella loro teorica onnicomprensività, senza che il limite della personalizzazione possa essere superato in relazione alla particolare gravità della condotta. Condotta che in tanto potrà rilevare in quanto la stessa possa aver aggravato, in modo effettivo e comprovabile, il danno conseguenza. Situazione, tale ultima, che pare a maggior ragione confermata nell'impianto (allo stato solo prospettico ma probabilmente prossimo a divenir definitivo) del citato DDL Concorrenza.

Tutto dovrebbe perciò rimanere come prima.

Analoghi ragionamenti sembrano sostenibili anche nel settore del rischio clinico, nell'ambito del quale, semmai, il sistema dei risarcimenti (anch'esso ancorato all'applicazione degli artt. 138 e 39 cod. ass.) potrebbe conoscere una tendenziale contrazione quantitativa, per effetto del potere riduttivo affermato dall'art. 7 comma 3 l. 24/2017 (in relazione al rispetto, o meno, delle linee guida di cui all'art. 5 della medesima legge).

Al più, la questione potrebbe riguardare l'assicuratore della struttura o del libero professionista nel caso in cui ai rispettivi assicurati siano state comminate le pene pecuniarie di cui all'art. 8, ultimo comma, per non aver partecipato alla procedura conciliativa (che costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziale). Si tratta, forse, di un caso di scuola, dal momento che la partecipazione di tali soggetti dovrebbe esser surrogata, sul piano sostanzialistico, da quella dei loro assicuratori, anch'essi obbligati ex lege non solo a prender parte alla procedura ma anche a formulare una congrua offerta (od un motivato diniego). Vi è peraltro da chiedersi se la partecipazione degli assicurati possa anch'essa esser delegata alle imprese di assicurazione, nell'ambito di quel patto di gestione della lite che normalmente integra il contratto di assicurazione della responsabilità civile (specie nel caso in cui non vi sia l'azione diretta, come accade ad esempio per la copertura degli esercenti “strutturati”).

In ogni caso è bene osservare, in termini più generali, come si possa fondatamente dubitare che l'eventuale addossamento all'assicurato/responsabile di pagamenti ulteriori a titolo di sanzione civili (para) risarcitorie sia ribaltabile, tout court, sulla compagnia assicurativa della rc.

Al riguardo corre l'obbligo di ricordare il disposto dell'art. 12 cod. ass., in base al quale «Sono vietate le assicurazioni che hanno per oggetto il trasferimento del rischio di pagamento delle sanzioni amministrative e quelle che riguardano il prezzo del riscatto in caso di sequestro di persona». Per quanto sembri espressamente limitata alle sanzioni di tipo amministrativo, tale norma esprime un principio saldo: quello della assoluta inopportunità di trasferire sull'assicuratore, e quindi di liberarsene dietro il pagamento di un premio, il peso di sanzioni di tipo personale, il cui effetto deterrente e punitivo verrebbe meno ove ammortizzato facilmente attraverso la copertura del relativo rischio. Di fondo, quel che si vuol evitare è che lo strumento assicurativo sia piegato sino a neutralizzare condotte disdicevoli, delle cui conseguenze gli autori devono rimanere (eticamente, prima che giuridicamente) pienamente responsabili. Analogo ragionamento presiede il principio cardine della non assicurabilità (integrale) del dolo e (relativa) della colpa grave, ex art. 1900 c.c.

In forza di quanto sopra, potrebbe dunque opinarsi che i “danni punitivi”, anche per come configurati dalle Sezioni Unite, non siano mai – comunque e, diremmo, ontologicamente - schermabili con la polizza assicurativa.

L'argomento, certo, non è nuovo. Vi è già chi, in dottrina, ha sostenuto che non sia possibile assicurarsi contro il rischio della condanna al pagamento di punitive damages: se così non fosse, le conseguenze del comportamento punito ricadrebbero sull'assicuratore e non sull'assicurato facendo venire meno la finalità preventiva dell'istituto (Gotanda, Punitive Damages: A Comparative Analysis, in Columbia Journal of Transnational Law, 2004, p. 392 ss., spec. p. 421 ss).

In realtà l'orientamento delle corti americane é pressoché unanime nel considerare ammissibile l'assicurabilità dei punitive damages tranne in California e in Minnesota dove la questione della assicurabilità dei punitive damages non è ancora stata oggetto di decisioni. E ad avallare la tesi dell'assicurabilità dei punitive damages nelle corti statunitensi vi è chi ha osservato che il pagamento di ingenti premi assicurativi, quanto la perdita di reputazione che indefettibilmente accompagna la condanna, assolvono, seppure in misura indiretta alle suddette esigenze di sanzione e deterrenza (nel settore della product liability la funzione deterrente sarebbe ulteriormente assicurata dall'aumento dei prezzi, determinando così un fenomeno di avversione al rischio di condanne per le società assicurate Owen, Punitive damages, in Product Liability Litigation. Sul punto si vedano gli orientamenti contrastanti di G.Ponzanelli, I punitive damages, op.cit, pp. 461-466 eG. Calabresi, Le pene private e il carattere misto della responsabilità civile, in Le pene private, pp. 415-416 e contra).

Il tema, dunque, rimane potenzialmente aperto.

Ma anche voler accordare all'art. 12 un'interpretazione rigorosamente letterale e non finalistica, riterremmo comunque legittimamente escludibile ogni danno punitivo dal rischio coperto in polizza, senza che lo stesso rientri tra le eccezioni non opponibili al danneggiato. E di ciò il “regolatore” potrebbe tener conto nella redazione dei decreti attuativi di cui all'art. 10 comma 6 l. n. 24/2017.

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