Commercialista (responsabilità del)Fonte: Cod. Civ. Articolo 1176
12 Dicembre 2016
Inquadramento BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE Il tema della responsabilità del commercialista è alquanto complesso e sfaccettato, poiché l'attività professionale in questione si caratterizza per la molteplicità e la complessità degli adempimenti e degli incarichi svolti. Basti una rapida lettura dell'art. 1 d. lgs. n. 139/2005 (al cui testo si rinvia) per avvedersi dell'ampiezza del campo di funzioni che può svolgere il professionista contabile (nelle due figure del dottore commercialista e dell'esperto contabile ovvero ragioniere), tenendo presente che il lungo elenco non è tassativo. La tipologia dell'attività del commercialista riguarda l'amministrazione o la liquidazione di aziende e/o patrimoni o singoli beni; le valutazioni, perizie e i pareri; le revisioni contabili; la tenuta di contabilità; la formazione di bilancio; la consulenza contrattuale ed economico-finanziaria; l'assistenza di procedure concorsuali; l'attività di sindaco e di revisore contabile di società; le operazioni societarie; l'assistenza, la rappresentanza e la consulenza tributaria. Se di regola il rapporto tra professionista e cliente è inquadrabile nel contratto d'opera intellettuale, bene possono accompagnarsi obbligazioni accessorie di mandato (si pensi alla rappresentanza processuale nei giudizi tributari, ovvero alla procura a compiere determinati atti giuridici o ad amministrare) oppure di deposito (ad esempio, il deposito fiduciario), con regole proprie di responsabilità. Quando si parla di responsabilità del commercialista occorre operare delle distinzioni, almeno su due piani: da una parte, occorre individuare il tipo di responsabilità nel quale il professionista può incorrere; dall'altra, all'interno della specifica responsabilità civile occorrerà individuare le regole di condotta, la cui violazione può dar luogo ad inadempimento, quindi a responsabilità. Innanzitutto, il professionista potrà incorrere in responsabilità penale (reati tributari, concorso nei reati di bancarotta fraudolenta, etc.), foriera pur sempre di profili risarcitori. La questione che ci interessa è la responsabilità civile (contrattuale ed extracontrattuale) del professionista per inadempimento degli obblighi connessi all'attività esercitata. In questo caso, però, il profilo di responsabilità non si esaurisce nell'inadempimento ad un contratto d'opera intellettuale, che di regola intercorre col cliente, poiché, proprio per l'ampiezza dell'attività del professionista, le regole di responsabilità civile potrebbero individuarsi in altre previsioni. Così vi possono essere profili di responsabilità connessi all'assunzione di cariche sociali, piuttosto che di incarichi giudiziari, oppure connessi alla normativa antiriciclaggio o in materia di tutela dei dati personali, che hanno regole proprie. Vi può essere, poi, una responsabilità amministrativa, foriera di sanzioni pecuniarie o anche interdittive (cancellazione dall'albo, divieto di esercitare determinate attività, etc.). Tale profilo può venire in considerazione indirettamente ai fini civilistici. Se l'illecito si fonda sui principî della presunzione di solidarietà del soggetto rappresentato con l'autore della violazione per il pagamento della sanzione irrogata, il cliente potrà invocare, nel giudizio tributario di impugnazione dell'atto impositivo, la disapplicazione nei suoi confronti delle sanzioni amministrative, provando la responsabilità esclusiva del professionista. Infine, non si può prescindere dalla responsabilità deontologica, che ripropone il noto problema se la violazione delle relative regole sia invocabile dal cliente e se l'illecito disciplinare possa dar luogo anche a responsabilità civile nei confronti del cliente.
La natura del rapporto professionale, che lega il commercialista al cliente, è riconducibile al contratto d'opera professionale, in quanto implica sistematicamente scelte interpretative e valutazioni sulle modalità operative dell'attività da svolgere. Accanto al rapporto d'opera intellettuale possono sorgere obbligazioni tipiche di mandato. Si può discutere se siano individuabili autonomi contratti, oppure un unico contratto di opera intellettuale che assorbe i momenti gestori strumentali e non prevalenti sull'attività intellettuale. In entrambi i casi, l'eventuale giudicato formatosi sull'esistenza di un rapporto d'opera intellettuale non preclude la possibilità di accertare la sussistenza a carico del professionista di obbligazioni accessorie di mandato: Cass. civ. sez. II, 9 novembre 2012, n. 19503, secondo cui il giudicato formatosi sull'esistenza di un rapporto di prestazione libero professionale fra le parti (nella specie, contratto di prestazione d'opera intellettuale, concluso con un commercialista incaricato della costituzione di una società) non preclude di accertare la sussistenza a carico del medesimo professionista di accessorie obbligazioni di mandato (nella specie, di restituzione delle somme versate al commercialista, in conseguenza dell'abbandono dell'iniziativa imprenditoriale che ne aveva giustificato la consegna), sia in quanto connaturali al rapporto principale, sia in quanto comunque compatibili con le obbligazioni caratteristiche di tale tipo contrattuale. Un risvolto di tale precisazione si ha in tema di decorrenza del dies a quo di prescrizione, ove si configuri un illecito extracontrattuale. Con riferimento ad un caso di appropriazione indebita, si è osservato che «nell'affermare che risultando la prescrizione del reato di appropriazione indebita uguale a quella fissata nel primo comma dell'art. 2947 c.c. - e cioè anni cinque dalla commissione dei singoli fatti di reato fatto (…) "senza che possa avere alcuna rilevanza l'epoca della cessazione del mandato professionale" - la prescrizione dell'azione civile alla data della proposizione della domanda era ormai maturata, la corte di merito non ha correttamente valutato il dies a quo di decorrenza della prescrizione alla luce dei principi che regolano il rapporto di mandato. Occorre premettere che tra il commercialista ed il cliente intercorre un rapporto professionale che è equiparabile allo schema del mandato (…) le disposizioni codicistiche di cui alle predette norme (artt. 2230 - 2237 c.c.) trattano esclusivamente un modo (quello contrattuale) di attuarsi dell'attività professionale intellettuale, ma non esauriscono tutte le possibilità esplicazioni dell'attività professionale intellettuale, nei limiti delle leggi speciali che regolano ciascuna professione. Conseguenza di ciò è che accanto alla responsabilità contrattuale (con prescrizione decennale), per far valere l'inadempimento di obbligazioni tipicamente inerenti alle funzioni professionali conferite, può essere anche chiesto il risarcimento del danno provocato da atti di dissipazione del patrimonio, quali quelli cagionati dall'appropriazione di somme di cui si dispone per ragioni di servizio o comunque riferite ad operazioni inesistenti, che integra una violazione da illecito extracontrattuale (con prescrizione quinquennale). Il dies a quo del termine di prescrizione in questione - diversamente da quanto affermato dalla corte distrettuale - non può decorrere prima della cessazione del rapporto o comunque dell'adempimento da parte del professionista dell'obbligo di rendere il conto, a nulla rilevando che l'illecito rimonti ad un tempo anteriore, per il fondamentale principio che la prescrizione comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.). Non è conforme a diritto far decorrere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno dal fatto illecito lesivo anziché dal manifestarsi all'esterno della produzione del danno. In tema di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, sia per responsabilità contrattuale che per responsabilità extracontrattuale, questa Corte ha ripetutamente affermato che il termine di prescrizione ex art. 2935 c.c., inizia a decorrere non già dal momento in cui il fatto del terzo viene a ledere l'altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all'esterno divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile» (Cass. civ., sez. II, 7 aprile 2015, n. 6921). Tornando al campo contrattuale, l'oggetto dell'obbligazione del commercialista non comprende, di necessità, l'interesse ultimo o il fine economico del cliente. Pertanto, l'obbligazione del professionista è, di regola, qualificata obbligazione di mezzi e non di risultato. Può divenire obbligazione di risultato ove il professionista si sia obbligato ad un certo opus. In effetti, occorre dar conto della tendenza ad ampliare la categoria delle obbligazioni professionali da considerarsi di risultato, ove l'utilità delineata dal professionista sia l'unica ragione e lo scopo determinante del conferimento dell'incarico stesso (in termini generali Cass. civ. sez. II,21 febbraio 1989 n. 3476) oppure attraverso l'individuazione di doveri di informazione e di avviso accessorî, ma integrativi rispetto all'obbligo primario di prestazione ed ancorati al principio di buona fede, quali obblighi di protezione, indispensabili per il corretto adempimento della prestazione professionale in senso proprio (in termini generali, Cass. civ., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15781, che espressamente parla di “metamofosi dell'obbligazioni di mezzi in quella di risultato”). Il professionista ha l'obbligo c.d. “integrativo strumentale” di informare il cliente dei rischi connessi all'incarico affidato, sia nella fase preliminare dell'affidamento dell'incarico sia durante il rapporto in relazione agli avvenimenti che possono accadere. Ancora può configurarsi un'obbligazione di risultato nel caso in cui il commercialista si sia impegnato ad un certo opus, cioè ad una mera attività materiale, come il mero invio telematico della dichiarazione dei redditi. Al di là di tali ipotesi, di regola l'obbligazione del commercialista è di mezzi. Consegue che il professionista dovrà adottare quella diligenza che la fattispecie richiede, usando tutte le cognizioni specifiche della materia, al fine di apprestare tutti i mezzi utili a raggiungere lo scopo, alla stregua dell'art. 1176, comma 2 c.c. Pertanto, il grado di diligenza dovuto va ancorato non al criterio generale del buon padre di famiglia (comma 1), ma con riguardo alla natura dell'attività esercitata (art. 1176, comma 2, c.c.), dunque con riferimento alla diligenza del buon commercialista. Se in termini generali, la diligenza del professionista è “qualificata”, si potrà parlare di inadempimento ove il commercialista abbia tenuto un comportamento non rispettoso delle norme necessarie allo svolgimento dell'incarico, abbia operato senza diligenza, perizia e prudenza, che ci si aspetta dal medio professionista. La perizia professionale, poi, presenta un contenuto variabile, che dovrà essere accertata caso per caso, in relazione alla condotta effettivamente tenuta dal professionista, alla natura e al tipo di incarico, nonché alle circostanze concrete nelle quali l'incarico si svolge. Così si potrà configurare colpa professionale nei casi di disattenzione o mancanza di dovuta attenzione o sollecitudine (negligenza omissiva o commissiva), di superficialità o leggerezza di comportamento (imprudenza), di ignoranza o mancata applicazione in concreto di regole tecniche che la natura della professione esercitata richiede compresa l'assunzione di un incarico per il quale non si ha una adeguata preparazione tecnica (imperizia), di inosservanza di disposizioni normative ed anche delle disposizioni impartite dal cliente. In tali ipotesi, infatti, non viene realizzata la diligenza del buon professionista, che si sostanzia, di converso, nell'attenzione spesa al soddisfacimento dell'interesse del cliente (diligenza), nell'osservanza delle cautele idonee ad evitare che soddisfacimento dell'interesse del cliente sia impedito o che siano pregiudicati altri interessi del cliente medesimo (prudenza), nell'impiego di adeguate nozioni e strumenti tecnici richiesti dalla conoscenza e dall'attuazione delle regole proprie della professione (perizia), nell'osservanza delle disposizioni di legge e del cliente. In questo quadro normativo occorre, poi, tener presente un'altra regola, dettata specificatamente per il contratto d'opera intellettuale, ossia l'art. 2236 c.c., secondo cui se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore l'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave. Le regole degli artt. 1176, comma 2 e 2236 c.c., sono tra loro integrative: di norma è richiesta la diligenza del buon professionista con la conseguenza che costui risponderà anche per colpa live; in presenza di particolari problemi tecnici di speciale difficoltà risponderà per dolo o colpa grave. In concreto la locuzione “problemi tecnici di speciale difficoltà” viene intesa come nozione che ricomprende non solo la necessità di risolvere problemi insolubili o assolutamente aleatori, ma anche l'esigenza di affrontare problemitecnici nuovi, di speciale complessità, che richiedano un impegno intellettuale superiore alla media, o che non siano ancora adeguatamente studiati dalla scienza (Cass. civ., sez. III, 31 luglio 2015, n. 16275). Di converso, si potrà parlare di errore scusabile, ove il professionista abbia comunque agito in modo diligente nell'applicazione di norme, sussistendo condizioni obiettive (come le incertezze interpretative, la novità normativa, la contraddittorietà o l'equivocità dei provvedimenti applicativi delle disposizioni) idonee ad indurre in erroneo convincimento e tali da escludere la superficialità e la trascuratezza nel comportamento dell'interprete. Presupposto per un'azione di responsabilità contrattuale è la prova del suo fondamento, ossia del conferimento dell'incarico. Non essendo prevista la forma scritta del contratto ad substantiam o ad probationem, la prova potrà essere fornita mediate testimoni, pagamenti di compensi, ricevute, corrispondenza, etc. Pertanto, la mera domiciliazione della contabilità non implica il conferimento dell'incarico (Cass. civ., sez. III, 26 aprile 2010, n. 9917, che valorizza le contraddizioni del preteso cliente danneggiato). Quanto alla colpa, sarà il professionista a dover dimostrare di aver agito in modo diligente secondo le regole degli artt. 1176, comma 2 e 2236 c.c. Spetta, invece, al creditore danneggiato provare il danno e il nesso di causa alla stregua delle regole ordinarie. Il creditore danneggiato dovrà provare il danno. Con particolare riferimento al danno patrimoniale, varranno le consuete regole sul danno emergente e il lucro cessante. Solo un breve cenno merita il profilo della colpa professionale per procurata perdita di chance per responsabilità derivante dall'assistenza avanti le Commissioni Tributarie. Rinviando alle regole elaborate in materia di responsabilità del professionista per condotta omissiva con particolare riferimento alla responsabilità dell'avvocato, si dovrà ricorrere ad un giudizio prognostico basato sulle concrete e ragionevoli possibilità di risultati utili. Il danneggiato, tra l'altro, dovrà necessariamente provare il conferimento dell'incarico e dimostrare i vizi dell'accertamento fiscale e le connesse probabilità di successo del ricorso, ovvero che molto probabilmente avrebbe ottenuto il risultato desiderato, nel caso in cui il professionista fosse stato adempiente.
Diligenza e responsabilità connessa alla verifica dei dati forniti dal cliente e agli accordi col cliente
Il professionista contabile si trova a dover elaborare i dati forniti dal cliente e spesso anche a confrontarsi con una precisa richiesta di ottenere il massimo risparmio fiscale, più o meno dovuto. Al di là di situazioni estreme di illiceità, si pone il problema della diligenza dell'apprestare la propria opera intellettuale, ossia nel predisporre i mezzi adeguati per il soddisfacimento dell'interesse del cliente. La verifica dei dati forniti dal cliente è un obbligo per il commercialista derivante dalla diligenza imposta dalla normativa civile e dalla disciplina deontologica. Il professionista è tenuto a fornire una prestazione “a regola d'arte”, osservando anche i canoni deontologici di agire nell'interesse pubblico, con integrità, obiettività, competenza, diligenza e qualità delle prestazioni, nonché con indipendenza (artt. 5 - 9, 22 Cod. Deont. Commercialisti). Pertanto, il commercialista è tenuto ad escludere dalla dichiarazione dei redditi eventuali costi o oneri sprovvisti di giustificativi o non inerenti all'anno impositivo e non può assecondare diverse richieste o istruzioni del cliente in tal senso. A fronte di tale situazione di chiara illiceità delle pretese del cliente, miranti a conseguire un vantaggio fiscale non dovuto, si possono porre delle situazioni più sfumate. Al di là di casi di dubbia interpretazione (che, però presuppongono la veridicità del dato fattuale), potrebbe darsi il caso che il cliente non sia in grado di fornire gli originali delle pezze giustificative, a ridosso della scadenza fiscale, nonostante ne avesse avuto il tempo e nonostante i mezzi di comunicazione e trasmissione dati che la tecnologia oggi ci offre. O ancora si pensi al caso che il cliente abbia solo un dettaglio di fattura (che non è un documento fiscale non presentando gli elementi richiesti dal d.P.R. n. 633/1972 art. 21) e abbia perso la fattura, della quale deve chiedere un duplicato che non avrà immediatamente. In tali casi, il professionista si potrà quanto meno cautelare formalizzando la richiesta dei documenti necessarî ed acquisendo l'istruzione del cliente, nonché la relativa assunzione di responsabilità. In questi termini, l'eventuale accordo col cliente non manderà esente il professionista da responsabilità, se in danno all'erario e non troverà applicazione l'art. 1227, comma 1 c.c.; viceversa, può conservare una sua rilevanza se non ha quella finalità, da valutare caso per caso. Anche in presenza di un provato accordo illecito, ove il cliente fosse stato debitamente informato e abbia voluto assumersi il rischio manlevando il commercialista, non potrà poi rivalersi sul secondo per riallocare le conseguenze della sua volontà, ferma la grave responsabilità deontologica e amministrativa del commercialista. In materia di invalidità negoziale, ove essa derivi dalla violazione di una norma imperativa o proibitiva di legge, o di altre norme aventi efficacia di diritto obiettivo, cioè tali da dover essere note, per presunzione assoluta, alla generalità dei cittadini, ovvero tali, comunque, da potere essere conosciute attraverso un comportamento di normale diligenza, non si può configurare colpa contrattuale a carico dell'altro contraente, che abbia omesso di far rilevare alla controparte l'esistenza delle norme stesse (Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2016, n. 10156). L'ulteriore interrogativo, però, riguarda l'ipotesi di concorso di persone nell'illecito amministrativo, specie sotto il profilo morale. È il caso dei suggerimenti o dei consigli tecnici che possono determinare un accertamento fiscale per violazione della norma tributaria e il contribuente sostiene di aver appunto seguito le indicazioni del consulente. In realtà, l'eventuale responsabilità del commercialista non potrà prescindere dalla valutazione della colpevolezza, quindi, se si trattava di soluzione di problemi di speciale difficoltà, del dolo (istigazione o accordo a violare la norma tributaria) oppure della colpa grave ai sensi dell'art. 2236 c.c. In generale, poi, può trovare applicazione l'art. 1227, comma 2 c.c., secondo cui il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando la diligenza ordinaria. Così, ad esempio, se il cliente avesse potuto accedere ancora a strumenti agevolativi di riduzione delle sanzioni fiscali, la somma da risarcire al cliente potrà essere individuata non nell'itero importo delle sanzioni fiscali, ma nel minor importo derivante dagli strumenti agevolativi. In materia di redazione di bilancio si è ritenuto che il professionista non abbia l'obbligo di verificare la corrispondenza alla realtà dei dati contabili forniti dagli amministratori (Cass. civ., n. 15029/2013, infra casistica). Il decisum solo apparentemente pare deviare dai principî appena espressi. La responsabilità inerente la formazione del bilancio spetta all'organo amministrativo (art. 2423 e ss. c.c.) e il controllo di regolarità e corrispondenza al collegio sindacale (art. 2403 c.c.). In tale contesto, il commercialista non ha un obbligo di verifica dei dati forniti, se non vi sono anomalie o incongruenze particolari e se ha ricevuto l'incarico di mera redazione del bilancio e non anche di accertamento dell'attendibilità dei bilanci (diverse voci di onorari previste rispettivamente dagli artt. 34 e 32 del d.P.R. n. 645/1994 sulle tariffe allora vigenti). Fino ad ora abbiamo analizzato il profilo della responsabilità da inadempimento contrattuale alla luce del canone della diligenza che il professionista deve osservare nell'eseguire la prestazione, anche con riguardo all'assolvimento degli obblighi informativi. Tuttavia, in via generale, l'affermazione di responsabilità deriva dall'individuazione di specifici obblighi imposti dal contratto o dalla legge. Al riguardo v'è da osservare che il professionista può incorrere in responsabilità in quanto riveste una specifica qualità che l'attività professionale gli consente di svolgere. Non si può, dunque, prescindere dall'analizzare il tipo specifico di incarico oggetto della prestazione del professionista. Così può esservi responsabilità derivante dall'assunzione di cariche societarie, in primo luogo di amministratore di società di capitali (artt. 2392 ss. c.c.). In particolare, l'art. 2392 c.c., nel disciplinare l'azione di responsabilità verso gli amministratori di società di capitali, individua i criterî per definire il grado di diligenza richiesto, considerando la “natura dell'incarico”, le “specifiche competenze” e le condizioni di esonero di responsabilità in caso di dissenso. Tali criteri, invero, implicano un richiamo alla disciplina generale vista dell'art. 1176, comma 2, c.c. Da notare che la responsabilità verso i creditori sociali e terzi non creditori integra ipotesi di responsabilità extracontrattuale. Del pari potrà configurarsi una responsabilità derivante dalla qualità di sindaco di società di capitali (art. 2407 c.c.), dove ancora una volta si fa riferimento ai criterî di professionalità e diligenza richiesti dalla natura dell'incarico, dovendosi, peraltro, distinguere il tipo di controllo oggetto dell'incarico (controllo legale e della gestione o anche controllo contabile). Vi è una responsabilità “diretta” dei sindaci per violazioni relative al dovere di verità nelle loro attestazioni; per violazioni relative al dovere di tenere il riserbo sui documenti e sui fatti di cui hanno conoscenza in ragione del loro ufficio; per violazioni degli obblighi imposti dalla legge sui sindaci (art. 2407, comma 1, c.c.). Si aggiunge, poi, una responsabilità “indiretta” per inottemperanza al dovere di vigilanza sugli amministratori (comma 2). Vi è la responsabilità connessa alla qualità di revisore dei conti per violazione dei loro doveri (art. 15 d. lgs. n. 39/2010). Infine, non si può dimenticare la responsabilità derivante dall'assunzione di incarichi giudiziari nell'ambito di procedure concorsuali, in qualità di consulente tecnico e in altri ipotesi (custode giudiziario, arbitro, etc.). Rinviando queste questioni specifiche alle relative bussole, si evidenzia solo la complessità e l'eterogeneità del titolo di responsabilità in cui il commercialista può incorrere, da una responsabilità contrattuale ad una extracontrattuale con le rispettive regole probatorie e di prescrizione. Un'ultima questione riguarda l'interrogativo se la violazione di norme deontologiche possa condurre ad un'affermazione di responsabilità civile. Il tema è troppo ampio per essere affrontato in questa sede (per una prima ricognizione, Chiaromonte, L'obbligazione del professionista intellettuale tra regole deontologiche, negoziali e giuridiche, Padova, 2008), dovendosi stabilire se le regole deontologiche siano o meno norme giuridiche ed eventualmente la natura (norme, specificazioni dei doveri di diligenza e correttezza, condizioni generali di contratto, usi normativi, usi contrattuali), nonché se il cliente possa giovarsene. Spesso, i doveri informativi deontologici sono comunque riconducibili a violazioni rilevanti ai sensi degli artt. 1218 e 1174 c.c. Nel caso di rinunzia al mandato l'obbligo di informare delle comunicazioni successive (art. 23 cod. deont. commerc.) si può ricondurre al principio generale di buona fede (art. 1375 c.c.). In tal senso le norme deontologiche possono essere, ad una prima considerazione, integrative di disposizioni di legge. Il problema si pone quando le regole contrattuali sono ispirate a criteri non univoci. Per esemplificare, si pensi al caso di recesso del professionista: l'art. 2237, commi 2 e 3, non detta forme e tempi (non deve essere esercitato in modo pregiudizievole per il cliente), mentre l'art. 23 cod. deont. prevede degli adempimenti e dei termini, se il cliente è irreperibile. Il loro mancato rispetto è foriero anche di responsabilità civile? Oppure si faccia il caso del deposito fiduciario, per cui il professionista è tenuto a richiedere al cliente istruzioni scritte (art. 24 cod. deont.), forma non prevista nel rapporto contrattuale. Quid iuris se il professionista esegue gli ordini impartiti verbalmente o si rifiuta di eseguirli e si verifica un evento dannoso? Per quanto integrative di disposizioni normative e per quanto poste a tutela di interessi generali e del cliente, l'eventuale responsabilità fondata sulla violazione di norme deontologiche dovrà sempre confrontarsi con le regole dell'illecito civile, quindi il danneggiato dovrà pur sempre provare il danno e il nesso di causalità ed allegare, individuandolo, l'inadempimento. Casistica
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