Medicina difensiva

19 Dicembre 2016

La medicina difensiva consiste nella pratica di diagnostiche o di misure terapeutiche condotte principalmente, non per assicurare la salute del paziente, ma per garantirsi da eventuali responsabilità medico-legali susseguenti alle cure mediche prestate.

Inquadramento

BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

La medicina difensiva consiste nella pratica di diagnostiche o di misure terapeutiche condotte principalmente, non per assicurare la salute del paziente, ma per garantirsi da eventuali responsabilità medico-legali susseguenti alle cure mediche prestate. Della medicina difensiva si rinviene nella letteratura statunitense la migliore e più diffusa definizione.

IN EVIDENZA

La medicina difensiva è integrata quando i medici ordinano test, procedure e visite, oppure evitano pazienti o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non necessariamente) per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice. Quando i medici prescrivono extra testo procedure per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice, essi praticano una medicina difensiva positiva. Quando essi evitano certi pazienti o procedure, essi praticano una medicina difensiva negativa (OTA, Office of Technology assessment, USA Congress, 1994).

Le condotte di medicina difensiva negativa (o passiva o omissiva) si concretizzano, dunque, nell'astensione e nel rifiuto, da parte dei medici, di compiere azioni e interventi potenzialmente rischiosi per l'elevata probabilità di incorrere in una responsabilità civile o addirittura penale, connessa al loro operato. Diversamente, la tendenza all'adozione di pratiche di medicina difensiva positiva (o attiva o commissiva) si manifesta nell'opposto comportamento per cui i sanitari, proprio per evitare successivi addebiti di responsabilità, prescrivono esami diagnostici in eccesso, o sottopongono i pazienti ad indagini e terapie inutili, o comunque costose, o consigliano visite specialistiche non necessarie, o ricorrono a prescrizioni farmaceutiche non risolutive o inadeguate, o dispongono l'ospedalizzazione a fronte di trattamenti eseguibili per via ambulatoriale, per evitare di vedersi contestate in giudizio le scelte di cura effettuate. Nell'uno e nell'altro caso si determina un disservizio, anche se le due ipotesi si realizzano, almeno ordinariamente, con modalità ed effetti del tutto differenti. Mentre la cosiddetta medicina difensiva negativa è direttamente pregiudizievole per il paziente, che potrebbe incontrare difficoltà nella ricerca di un professionista o di una struttura adeguata, che siano disposti alla presa in carico del suo caso, la medicina difensiva positiva è, invece, destinata in linea di massima a produrre un pregiudizio quasi esclusivamente di natura finanziaria, perché consistente in una spesa inappropriata. I pregiudizi per il paziente sono invece solitamente indiretti. Non è escluso, però, che in alcuni casi particolari la tendenza alla sottoposizione del paziente a verifiche inutili e dispendiose possa arrecargli nocumento immediato, quando si dispongano esami clinici non indispensabili e, al contempo, rischiosi e/o dannosi per la sua salute ovvero si faccia ricorso a procedure invasive, come le biopsie, del tutto superflue rispetto alle concrete condizioni cliniche del paziente. Inoltre, la medicina difensiva positiva produce effetti pregiudizievoli anche sulla salute degli altri cittadini per le inevitabili ricadute negative che determina sulle liste d'attesa di pazienti che invece hanno effettivo ed immediato bisogno di esami, visite, ricoveri. Per converso, la predisposizione di un'accurata cartella clinica non soltanto non rappresenta una forma di medicina difensiva, ma è lo strumento principale attraverso il quale dare prova del proprio corretto operato. L'adozione di modelli di medicina difensiva rifugge dai compiti caratterizzanti dell'operato professionalmente corretto del medico, che dovrebbe avere di mira innanzitutto la cura del paziente e non la valorizzazione di condotte avulse dal contesto di specie ed esclusivamente connotate dal tentativo di minimizzare il rischio di contenziosi legali futuri. L'adesione a contegni di medicina difensiva esalta perciò una figura deteriore e burocratizzata di professionista sanitario, la cui principale attenzione (ed obiettivo) non è rivolta verso la tutela della salute delle persone che richiedono il suo aiuto tecnico (ossia verso gli altri), ma è indirizzata precipuamente alla protezione della propria persona da possibili grane legali (ossia verso se stessi). In effetti, non può non destare serie perplessità e preoccupazioni l'atteggiamento del medico che si accosti ad un modello difensivo puro, demandando in continuazione a terzi o a macchinari il compito di fornirgli conclusioni “preconfezionate” alle quali allinearsi senza alcuno sforzo ricostruttivo e professionale. Ed anche senza alcuna responsabilità. Ciò può nascondere, tra l'altro, un'ingiustificata, perché eccessiva, insicurezza del medico, se non una sua radicale incapacità di discernimento e valutazione del caso clinico. Con l'ulteriore aggravio che le condotte di medicina difensiva positiva importano altresì un consistente aumento della spesa sanitaria non legata a finalità terapeutiche che, secondo le stime aggiornate ed ufficiali rese dal Ministero della Salute (la cui fonte è tratta dalla Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori sanitari), ammonta annualmente a 10 miliardi di euro, pari allo 0,75% del prodotto interno lordo.

IN EVIDENZA

I costi connessi all'uso di pratiche di medicina difensiva incidono nella misura del 10,5% della spesa sanitaria totale, con un'incidenza sulla spesa sanitaria pro capite di euro 165,00.

Altre voci aventi peso significativo:

  • farmaci 1,9%,
  • visite 1,7%
  • esami di laboratorio 0,7%,
  • esami strumentali 0,8%,
  • ricoveri 4,6%,
  • voci minori meno significative e non classificate restante 0,8%.

Sicché la prescrizione di farmaci non necessari, la predisposizione di visite mediche non utili, l'indicazione di esami di laboratorio e strumentali superflui per l'effettuazione della diagnosi, la disposizione di ricoveri verso pazienti gestibili per via ambulatoriale hanno, per un verso, incrementato la spesa pubblica, aggravando la situazione finanziaria del Paese e, per altro verso, sottratto risorse utili per le spese sanitarie destinate a produrre immediati effetti positivi sulla tutela della salute della collettività. Fanno da contraltare a questo eccesso alcuni specifici contegni di medicina difensiva negativa, come l'esclusione di alcuni pazienti a rischio da determinati trattamenti, oltre le normali regole di prudenza, ovvero l'omissione di procedure rischiose (diagnostiche o terapeutiche) nei confronti di pazienti che avrebbero potuto trarne beneficio. Nondimeno, dalle tecniche di medicina difensiva omissiva deve essere distinta la prudente gestione del caso clinico, come la condotta medica che, in quanto improntata a razionalità, diligenza e prudenza, comporti la rinuncia ad assumere la cura di un paziente a favore di un medico specialista o di altra struttura più idonea e attrezzata.

Limiti

In ogni caso, il medico che si facesse scudo della c.d. medicina procedurale (o assiomatica), che rischia di ingessare pericolosamente la prassi professionale dentro gli stereotipi dei comportamenti attesi (e proceduralizzati), con l'obiettivo di precostituire cause di giustificazione nelle attività sanitarie particolarmente rischiose, non verrebbe meno solo ai suoi doveri deontologici. È, infatti, fine precipuo del medico quello di assumere i trattamenti specifici per il malato, rispetto al caso concreto che si cristallizza, piuttosto che seguire astratte linee-guida, protocolli o standard legati all'emarginazione della malattia valutata acriticamente. È al riguardo circostanza nota che, a fronte della medesima malattia, le condotte cliniche da assumere possono mutare in ragione delle condizioni di fatto in cui versa il malato.

D'altro canto, la focalizzazione dell'attenzione su aspetti diversi da quelli della tutela della salute del paziente può provocare conseguenze ancora più devianti del sistema sanità, ancorando le scelte che vengono compiute in questo campo primariamente sul ritorno economico delle prestazioni. Occorre, in proposito, richiamare una recente giurisprudenza, che ha saputo anticipare il novum della normativa ora in vigore, nel senso di predicarne un uso accorto e prudenziale, allorché afferma che le linee guida non sono - da sole - la soluzione dei problemi, sicché un comportamento non è lecito perché è consentito, ma è consentito perché diligente (Cass. civ., Sez. III, 22 novembre 2011, n. 4391).

Se le linee guida sono state definite dall'Institute of Medicine un asserto o una serie di asserti svolti in modo sistematico allo scopo di aiutare le decisioni del medico professionista e/o del paziente sulle cure mediche più adatte in circostanze specifiche, è logico dedurne anche i relativi limiti. È evidente che un medico che ponga a fondamento dell'esercizio della propria professione e che agisca e si preoccupi esclusivamente di porsi al riparo dal rischio di essere coinvolto in controversie conseguenti al rapporto intrattenuto con i pazienti non può essere un buon modello di medico; inoltre, di tale atteggiamento non può che farne le spese soprattutto il cittadino. Ebbene, secondo la giurisprudenza di legittimità, i principi fondamentali che regolano nella vigente legislazione l'esercizio della professione medica richiamano, da un lato, il diritto fondamentale dell'ammalato di essere curato e rispettato come persona e, dall'altro, i principi dell'autonomia e della responsabilità del medico che di quel diritto si pone quale garante nelle sue scelte professionali.

Ne consegue che, nel praticare la professione sanitaria, il medico deve, in scienza e coscienza, perseguire un unico fine: la cura del malato, utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo dispone la scienza medica, senza farsi condizionare da esigenze di diversa natura, da disposizioni, considerazioni, valutazioni, direttive che non siano pertinenti rispetto ai compiti affidatigli dalla legge e alle conseguenti relative responsabilità. Pertanto, il rispetto delle linee-guida nulla può aggiungere o togliere al diritto del malato di ottenere le prestazioni mediche più appropriate né all'autonomia e alla responsabilità del medico nella cura del paziente. E ciò specie se tali linee-guida non siano improntate alla garanzia della salute del malato, ma siano piuttosto dirette a perseguire fini di economicità di gestione e siano perciò ispirate da logiche mercantili.

Sul rispetto di queste logiche non può non innestarsi e prevalere un contegno virtuoso del medico, che assuma secondo scienza e coscienza la scelta più conveniente per il paziente, non rinunciando al proprio compito e non degradando la propria professionalità e la propria missione a livello puramente ragionieristico. Sempre con riguardo agli studi statistici effettuati sull'argomento, è stato rilevato che il fenomeno della medicina difensiva varia, se pur leggermente, in base all'età del paziente (il medico si avvale di condotte di medicina difensiva soprattutto se il paziente è giovane), al ruolo del medico che vi fa ricorso (per lo più se riferito all'assistenza primaria), alla specializzazione acquisita dal medico che si avvale di tecniche difensive (maggiormente in medicina interna, nefrologia-urologia, neurologia e neurochirurgia, ortopedia, ostetricia-ginecologia, medicina d'urgenza, cardiologia) e alla localizzazione geografica (essendo il fenomeno più accentuato tra i residenti nelle regioni del Sud e delle Isole).

In proposito, discussa è la riconduzione di tali fenomeni deprecabili di involuzione della pratica medica all'orientamento giurisprudenziale espresso negli ultimi decenni in ordine alla qualificazione della responsabilità sanitaria, che avrebbe aggravato la posizione processuale dei medici a vantaggio dei pazienti danneggiati, tanto da indurre criticamente alcuni autori a qualificare la medicina che si avvale di detti metodi difensivi come medicina dell'obbedienza giurisprudenziale, in contrapposizione alla medicina delle evidenze e delle scelte.

Piuttosto, tra le cause di tali preoccupanti fenomeni di medicina difensiva, elaborate da varie commissioni di studio che hanno approfondito l'argomento, sono state menzionate lo stato della legislazione esistente, secondo alcuni eccessivamente sbilanciata a favore del paziente e a danno del sanitario, il timore del medico di essere citato in giudizio, lo squilibrio del rapporto medico-paziente, con eccessive richieste e/o pressioni e/o aspettative da parte del paziente e dei suoi familiari. A fronte di queste causali, una buona parte dei medici che pratica condotte di medicina difensiva ritiene che l'adozione di simili contegni abbia comunque una valenza positiva, poiché diminuirebbe le possibilità di errore medico.

Rimedi

Dinanzi a questa involuzione della medicina, sono stati suggeriti plurimi rimedi potenzialmente efficaci al fine di ridurre i comportamenti di medicina difensiva, essenzialmente riferiti al piano personale e a quello organizzativo: sotto il primo profilo, è stata valorizzata la necessità che il personale sanitario si attenga alle evidenze scientifiche e compia responsabilmente le conseguenti scelte; sotto il secondo profilo, è stato proposto di riformare le norme che regolano la responsabilità professionale. Ed invero uno dei risvolti negativi più evidenti della medicina difensiva è l'attenzione esasperata per i profili meramente formali della prestazione professionale fornita dalla struttura e dal personale sanitario, trascurando, il più delle volte, il necessario dialogo con il paziente e i suoi familiari, che porti a instaurare un rapporto fiduciario tra medico e paziente e ad acquisire un valido ed effettivo consenso informato da parte di quest'ultimo. L'omessa o carente informazione è, infatti, frequentemente all'origine di possibili incomprensioni, che possono dar luogo a denunzie e azioni civili e/o penali, in caso di insuccesso del trattamento terapeutico o di insorgenza di complicanze. Da ciò discende l'ingiustificabile tendenza dei medici, soprattutto a fronte della necessità di gestire le emergenze cliniche, di porre in secondo piano la comunicazione con il paziente, precludendo così a quest'ultimo di autodeterminarsi in rapporto al percorso diagnostico-terapeutico programmato e pregiudicando l'effettiva comprensione delle motivazioni che sottendono a determinate scelte mediche, talvolta indispensabili, ancorché non corrispondenti alle aspettative del paziente. È stato sul punto evidenziato, all'esito di un'analisi comparata con le azioni legislative intraprese da altri Paesi, che l'Italia, in confronto agli Stati Uniti d'America, alla Gran Bretagna, alla Nuova Zelanda, all'Irlanda e alla Francia, che tra il 2000 e il 2003 hanno adottato riforme strutturali sul tema, è in ritardo di almeno un decennio. Il legislatore italiano è da ultimo intervenuto con la l. 6 agosto 2015, n. 125 (di conversione del d.l. 19 giugno 2015, n. 78), entrata in vigore il 15 agosto 2015. Il nuovo provvedimento normativo — al fine dichiarato di contrastare il fenomeno della medicina difensiva c.d. positiva e il relativo spreco di risorse pubbliche — prevede l'emanazione di due distinti decreti da parte del Ministro della Salute: l'uno per individuare le condizioni di derogabilitàe le indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale; l'altro per individuare i criteri di appropriatezzadei ricoveri di riabilitazione ospedaliera. In caso di comportamento prescrittivo non conforme alle condizioni di erogabilità e alle indicazioni di appropriatezza prescrittiva dettate dal primo di detti decreti, il medico prescrittore rischia sanzioni di carattere economico; in caso di ricoveri ordinari e diurni non conformi ai criteri di appropriatezza di cui al secondo dei menzionati decreti, è previsto un taglio dei rimborsi pubblici a favore della struttura sanitaria. Il nuovo intervento normativo è, dunque, destinato ad incidere sugli sprechi della medicina difensiva, non sulle cause che l'hanno determinata: il regime della responsabilità sanitaria, quale emerso dalla più recente evoluzione giurisprudenziale, rimane, infatti, del tutto inalterato. Ma, così facendo, si è venuti, ancora una volta, ad incidere in termini ulteriormente negativi sulla posizione del medico che, in buona sostanza, viene a trovarsi ristretto in un'alternativa alquanto inappagante: rinunciare a pratiche diagnostiche e/o terapeutiche, la cui omissione — stante l'attuale sistema della responsabilità sanitaria — potrebbe un domani essergli, nel caso concreto, imputata dal paziente insoddisfatto dagli esiti del suo intervento; ovvero esporsi al rischio di dover rispondere in proprio con il suo patrimonio personale verso il Servizio Sanitario Nazionale per non avervi rinunciato. Ancora, nel mese di marzo 2015, si è insediata presso il Ministero della Salute una Commissione tecnica — presieduta da Guido Alpa — con l'incarico di elaborare proposte di soluzioni normative volte non solo ad arginare il fenomeno della medicina difensiva (cioè, l'effetto), ma anche a ripensare l'intero sistema della responsabilità sanitaria (che, del fenomeno della medicina difensiva, è la causa principale). La Commissione così istituita ha nel frattempo consegnato al Ministro le proprie proposte. La linea di tendenza che emerge dai suggerimenti della Commissione è quella della necessità di arginare un regime di responsabilità civile sanitaria che si reputa essere andato oltre il segno, a favore del paziente e in danno di medici e strutture sanitarie. Linea di tendenza, quest'ultima, che connota anche un disegno di legge in materia di responsabilità professionale del personale sanitario, che — sortito dall'unificazione di ben otto distinti progetti presentati alla Camera dei Deputati — è attualmente in discussione in Parlamento.

Novità della legge Balduzzi

La c.d. legge Balduzzi ha perseguito l'obiettivo dichiarato di contenere la spesa pubblica e di arginare il fenomeno della medicina difensiva attraverso la riduzione dell'ambito di operatività della responsabilità medica.

In specie, l'art. 3, comma 1, della l. 8 novembre 2012, n. 189, che ha convertito in l., con modificazioni, il d.l. 13 settembre 2012, n. 158, per un verso, ha introdotto una limitazione della responsabilità penale del sanitario, che non risponde quando versi in colpa lieve, ancorata al rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; per altro verso, ha previsto un sibillino richiamo all'obbligo di cui all'art. 2043 c.c. ed un altrettanto poco illuminante riferimento alla rilevanza della condotta dell'operatore sanitario nella determinazione del risarcimento del danno.

Quanto all'ambito operativo, la rubrica dell'art. è intitolata alla “Responsabilità dell'esercente le professioni sanitarie”, sicché deve dedursi che la normativa ha come destinatari senza dubbio ed in primo luogo i medici (e non le strutture sanitarie). E poi tutti i medici: senza distinzioni di sorta tra liberi professionisti e dipendenti di strutture pubbliche o private accreditate o case di cura private. Secondo Trib. Firenze 12 febbraio 2014, non vi è traccia nel testo di legge della delimitazione della riforma al solo ambito ospedaliero pubblico quanto ai profili penali, sicché non si comprende perché solo nella ricaduta civilistica si dovrebbe avallare una simile lettura, ossia l'estensione a tutti gli ambiti in cui il professionista sanitario ha operato. Il riferimento all'art. 2043 c.c. ha aperto un dibattito molto accesso in giurisprudenza in ordine alla natura della responsabilità del medico.

Secondo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, non è dato rinvenire alcuna opzione da parte del legislatore per la configurazione della responsabilità civile del sanitario come responsabilità necessariamente extracontrattuale, dal momento che il menzionato inciso si presta a essere spiegato con l'intento di escludere, nell'ambito aquiliano, l'irrilevanza della colpa lieve (Cass. civ., Sez. VI-III, 17 aprile 2014, n. 8940). Lo stesso concetto è stato reiterato da una successiva pronuncia che ha dichiarato l'applicabilità del criterio del foro del consumatore in una controversia risarcitoria promossa dal paziente del servizio sanitario nazionale nei confronti della struttura sanitaria pubblica in cui gli era stato praticato un intervento chirurgico, eseguito da un medico scelto dal paziente stesso e operante come libero professionista, sebbene nell'espletamento di attività intramuraria (Cass. civ., Sez. VI-III, 24 dicembre 2014, n. 27391). Ma la legge Balduzzi puntualizza anche altri aspetti di rilievo della responsabilità sanitaria.

Il comma 2 concerne il profilo assicurativo. Unitamente alla l. n. 148 del 2011 prevede l'obbligo per i professionisti sanitari di assicurarsi in ordine ai danni procurati verso i clienti.

Inoltre, il comma 3 estende al settore sanitario l'applicazione delle tabelle per il risarcimento del danno biologico di cui agli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto art. 138 allo scopo di tenere conto delle fattispecie non previste. Apprezzabile è anche la disposizione relativa all'aggiornamento degli albi dei consulenti tecnici d'ufficio, con la previsione di specifiche competenze medico-cliniche accanto alla ineludibile competenza medico-legale. Su questo punto, alcuni hanno colto anche un auspicabile suggerimento nella direzione della collegialità dell'incarico peritale conferito in tema di responsabilità medica, ove necessaria.

Profili rilevanti del d.d.l. Gelli

Negli ultimi tempi, sono stati elaborati vari progetti normativi volti a innescare circuiti virtuosi finalizzati a scongiurare politiche di medicina difensiva e di spreco di risorse e a rimettere in modo efficiente la tutela della salute e l'alleanza terapeutica tra medico e paziente al centro del dibattito in materia di responsabilità sanitaria. E ciò perché dagli anni ‘90 si sono registrati diversi mutamenti nelle regole giuridiche e nella percezione delle responsabilità connesse ad una mancata guarigione. Come noto, la crescita esponenziale delle possibilità di cura dovute all'innovazione scientifica e tecnologica ha portato ad aumentare le possibilità di sopravvivenza di soggetti malati o infortunati. Questo risultato positivo ha amplificato la percezione sociale che la sanità possa sempre più non solo curare ma anche guarire.

Un primo progetto è quello elaborato dal Centro studi Federico Stella. Il suo indubbio merito è quello di riposare su uno studio quali-quantitativo della percezione del problema in ambito sanitario tra la classe medica.

Per converso, un limite vistoso riposa nell'attenzione riposta quasi esclusivamente al profilo penale del problema ed alle sue implicazioni. Gli obiettivi dei 30 articoli che lo compongono sono riassunti dagli autori nel senso: di ridurre gli effetti negativi della medicina difensiva e del contenzioso legato al rischio clinico, con l'obiettivo di tutelare il paziente con percorsi di “giustizia ripartiva”; di prevedere l'obbligo assicurativo in capo alle aziende ed una revisione delle regole del processo penale. Per converso, il disegno di legge elaborato dalla SISDIC (Società italiana degli studiosi di diritto civile), recante «Norme sulla riparazione e prevenzione dei danni da attività sanitaria», assume una prospettiva in parte convergente con quella del precedente progetto, ma muove in tutta evidenza da una logica rigorosamente e attentamente civilistica, cui potrebbe essere imputato il peccato originale opposto imputato al precedente progetto: quello di essere in questo caso eccessivamente imperniato sui profili di diritto civile e quindi esclusivamente sul tema del risarcimento del danno.

Da ultimo, il disegno di legge Gelli, che prende il nome dal suo relatore, è già stato licenziato dalla Camera dei Deputati il 28 gennaio 2016 e attualmente è all'esame del Senato.

Le novità proposte da tale disegno si muovono sostanzialmente secondo le seguenti direttrici: a) per un verso, la responsabilità principale si accentra sulla struttura, a fronte di una responsabilità sussidiaria del medico operante;

b) dinanzi a questo quadro ricostruttivo, la responsabilità della struttura è inserita nell'ambito contrattuale, mentre quella del sanitario è contemplata in termini aquiliani;

c) ancora, è specificamente prevista l'azione di rivalsa della struttura verso il sanitario responsabile nei soli casi di dolo o colpa grave;

d) infine, a fronte della copertura assicurativa obbligatoria per la responsabilità civile delle strutture sanitarie, è ammessa l'azione diretta del danneggiato verso le assicurazioni.

Segnatamente, l'art. 6 introduce una nuova fattispecie incriminatrice, inserendo nel c.p. l'art. 590-ter (in realtà l'art. 590-quater), rubricato «Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario»: il sanitario risponde a titolo penale solo per colpa grave. Segnatamente, è esclusa la colpa grave quando, salve le rilevanti specificità del caso concreto, sono rispettate le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge. Sicché il medico dovrebbe rispondere per negligenza o imprudenza ma non per imperizia.

L'art. 7 recepisce il doppio binario: da un lato, la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., delle loro condotte dolose o colpose; e così accade per le prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina; dall'altro, l'esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato a titolo di responsabilità extracontrattuale.

L'art. 8 è dedicato alla disciplina di una condizione di procedibilità: precisamente, chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell'art. 696-bis c.p.c. dinanzi al giudice competente, a pena di improcedibilità della domanda.

L'art. 9 dispone che l'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria possa essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave. In caso di accoglimento della domanda proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria privata, la misura della rivalsa, in caso di colpa grave, non può superare una somma pari al triplo della retribuzione lorda annua.

Ai sensi dell'art. 10, la copertura assicurativa per la r.c. è obbligatoria a carico delle strutture sanitarie. Così avviene per l'esercente la professione sanitaria che operi fuori della struttura. Anche i sanitari dipendenti devono essere muniti di idonea polizza assicurativa.

Secondo l'art. 12, spetta al danneggiato azione diretta verso l'assicurazione: il soggetto danneggiato ha diritto di agire direttamente, entro i limiti delle somme per le quali è stato stipulato il contratto di assicurazione, nei confronti dell'impresa di assicurazione che presta la copertura assicurativa all'azienda, struttura o ente e all'esercente la professione sanitaria. Su questo punto, vi è un chiaro accostamento all'azione diretta regolata in tema di responsabilità per infortunistica stradale.

Ancora, per effetto dell'art. 14, è costituito un apposito fondo di garanzia per le vittime della responsabilità sanitaria.

In ultimo, la novella in fase di discussione si chiude con la previsione di una clausola di invarianza finanziaria.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario