MediazioneFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 103
22 Giugno 2017
Inquadramento BUSSOLA IN FASE DI AGGIORNAMENTO DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE La mediazione civile può essere definita come un sistema di risoluzione delle controversie civili alternativo al giudizio ordinario, caratterizzato dall'ausilio di un soggetto terzo imparziale, con cui si assistono due o più parti nella ricerca di un accordo amichevole per la composizione di una controversia, anche tramite la formulazione di una proposta per la risoluzione della stessa. L'ordinamento giuridico civile italiano distingue tre tipologie di mediazione: - la mediazione facoltativa, in cui le parti decidono spontaneamente di ricorrere alla procedura di mediazione per la risoluzione di qualsiasi controversia che verta su diritti disponibili; - la mediazione delegata, disciplinata dall'art. 5, comma 2 d.lgs. n. 28/2010, in cui è il giudice, prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni o prima della discussione della causa, a disporre l'esperimento del procedimento di mediazione alla luce della natura della causa, dello stato dell'istruzione e del comportamento delle parti. Nella suddetta ipotesi l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale; - la mediazione obbligatoria ex lege, ove il preventivo esperimento del procedimento di mediazione costituisce una condizione di procedibilità della successiva ed eventuale domanda giudiziale. Tale istituto opera in relazione alle controversie che interessano materie specificamente individuate nell'art. 5 comma 1-bis d.lgs. 28/2010, con le esclusioni e le eccezioni tassativamente previste dalla legge. Ai fini del presente elaborato, è sufficiente osservare che: 1) la funzione deflattiva e la natura di strumento di risoluzione delle controversie alternativo al giudizio civile non può che risiedere nell'identità tra fatti narrati in sede di mediazione e fatti esposti in sede processuale. Infatti costituirebbe un assurdo logico, prima ancora che giuridico, ipotizzare l'esistenza di un istituto finalizzato a risolvere una determinata controversia al di fuori del processo attraverso l'esame di fatti diversi da quelli che verrebbero poi introdotti nel giudizio di merito. In particolare, l'identità fra i fatti narrati deve essere valutata attraverso un giudizio comparativo tra il contenuto della domanda introduttiva del giudizio civile e i fatti esposti nel procedimento di mediazione. In relazione a tale considerazione, è utile operare un confronto tra l'art. 125 c.p.c. nella parte in cui dispone che la citazione e il ricorso debbono indicare le parti, l'oggetto, le ragioni della domanda e l'art. 4, comma 2 d.lgs. n. 28/2010 ove statuisce che l'istanza di mediazione deve indicare le parti, l'oggetto, le ragioni della pretesa. Appare evidente che l'utilizzo delle medesime espressioni terminologiche nelle due disposizioni di legge sopra citate rappresenti una precisa e consapevole scelta legislativa secondo cui il contenuto dell'atto introduttivo del procedimento di mediazione e del processo debbano possedere un nucleo di dati comuni (parti, oggetto e ragioni della domanda) e proprio rispetto a questi ultimi deve essere effettuato il giudizio di identità. Inoltre, si può sostenere che i suddetti dati comuni altro non siano che gli elementi identificativi dell'azione e cioè quegli stessi elementi (personae, petitum, cause petendi) che sottendono all'istituto della cosa giudicata in senso sostanziale attraverso il rispetto del principio del ne bis in idem e che garantiscono il doppio grado di giurisdizione, evitando la proponibilità in appello di domande diverse da quelle formulate in primo grado. 2) Nell'ipotesi di mediazione delegata e di mediazione obbligatoria ex lege, il mancato esperimento del procedimento di mediazione determina la giuridica conseguenza di rendere la domanda improcedibile e cioè di imporre al giudice il rigetto della domanda con una sentenza di rito senza affrontare il merito della controversia. Invero, in caso di mediazione ante causam, il giudice prima di dichiarare la domanda improcedibile, ove rilevi non oltre la prima udienza, d'ufficio o su eccezione di parte, il mancato esperimento della mediazione, è tenuto ad assegnare alla parti un termine di quindici giorni per la presentazione della relativa domanda e solo il mancato avvio della procedura de qua conduce alla pronuncia di rito. Diversamente, in caso di mediazione delegata, l'inottemperanza al provvedimento giudiziale con cui è assegnato alle parti un termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione comporta immediatamente una statuizione di improcedibilità, non trovando applicazione il meccanismo di sanatoria ex art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28/2010 applicabile alla mediazione obbligatoria. In ultimo, si evidenzia che l'improcedibilità della domanda giudiziale verrà statuita solo nell'ipotesi in cui il convenuto ovvero la parte avente un interesse contrario alla declaratoria di improcedibilità non abbia partecipato alla mediazione. Appare logico, infatti, che il mancato svolgimento della procedura di mediazione per assenza ingiustificata del soggetto convenuto o avente interesse alla declaratoria di improcedibilità permetterà di considerare avverata la condizione, non potendo quest'ultimo beneficiare delle conseguenze favorevoli derivanti da una propria dolosa o colposa inerzia. Dalle considerazioni sopra effettuate, è chiaro come l'analisi dell'identità fra domanda giudiziale e fatti esposti in mediazione costituisca la premessa logico-giuridica per poter giungere ad una pronuncia di improcedibilità. Infatti, una domanda giudiziale deve essere considerata improcedibile non solo nell'ipotesi in cui nessuna mediazione sia stata esperita ma anche nell'ipotesi in cui quest'ultima, rispetto alla domanda giudiziale, sia svolta fra soggetti differenti, sia fondata su differenti titoli giustificativi ovvero abbia ad oggetto diverse pretese. Il presente elaborato si pone l'obiettivo di esaminare, con più completezza possibile, il rapporto tra domanda giudiziale e mediazione esclusivamente in relazione all'elemento soggettivo. Mediazione e potere di rappresentanza al difensore
In primo luogo, al fine di evitare incomprensioni terminologiche, per personae si devono intendere le parti del rapporto giuridico processuale sicché non sussiste alcuna differenza soggettiva nell'ipotesi in cui, nella fase di mediazione, sia concretamente intervenuto un rappresentante dell'attore o del convenuto. Sebbene, quindi, l'utilizzo dell'istituto della rappresentanza in mediazione non determini, in rapporto alla domanda giudiziale, alcuna modificazione in riferimento all'elemento “personae”, è comunque opportuno analizzare la questione relativa alla possibilità di conferire procura allo stesso difensore di parte. Infatti, se da un lato non sussiste alcuna ragione logico-giuridica per ritenere non operante l'istituto della rappresentanza in fase di mediazione sicché è pacifico il diritto delle parti di conferire ai propri procuratori speciali il potere di conciliare la controversia, dall'altro sono numerose nonché qualitativamente rilevanti le argomentazioni formulate dalla giurisprudenza al fine di escludere i difensori dal novero dei soggetti a cui tale potere possa essere attribuito. Le ragioni giustificatrici di siffatta esclusione possono essere così sintetizzate: 1) Interpretazione letterale dell'art. 5, comma 1-bis d.lgs. n 28/2010 nella parte in cui è statuito che colui che «intende esercitare in giudizio un'azione relativa a una controversia…è tenuto, assistito dall'avvocato, preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione» e dell'art. 8, comma 1 d.lgs. n. 28/2010 ove è affermato che «al primo incontro e agli incontri successivi, fino al termine della procedura, le parti devono partecipare con l'assistenza dell'avvocato». La previsione legislativa relativa alla necessaria assistenza legale lascerebbe intendere l'implicita presenza di un soggetto diverso dall'avvocato difensore. 2) Interpretazione logica dell'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 28/2010, nella parte in cui è prescritto che «durante il primo incontro il mediatore chiarisce alle parti la funzione e le modalità di svolgimento della mediazione». Viene sostenuto che qualora fosse possibile conferire procura anche ai difensori delle parti tale disposizione normativa sarebbe priva di senso poiché gli stessi difensori sono considerati mediatori di diritto e, pertanto, già a conoscenza della natura della mediazione e delle sue finalità. Detto in altri termini, sarebbe totalmente irrazionale imporre un incontro tra i soli difensori ed il mediatore affinché il secondo renda edotto i primi di un'informazione già da loro pienamente conosciuta. 3) Interpretazione teleologica e fisiologica della mediazione secondo cui la natura dell'istituto presuppone la presenza personale delle parti al fine di permettere, con l'ausilio del mediatore, una ripresa delle comunicazioni e una verifica in merito ad una possibile soluzione concordata del conflitto. L'assenza delle parti o di un proprio rappresentante, non permettendo un'interazione immediata dinanzi al mediatore, rende impossibile allo stesso la comprensione dei bisogni, degli interessi e dei sentimenti dei soggetti coinvolti, privando così l'istituto di una reale funzione. Un dialogo conciliativo fra difensori costituisce certamente un sistema di soluzione dei conflitti, che può avere anche una concreta utilità, ma non costituisce comunque una mediazione.
Mediazione e successione
La successione, intesa come fattispecie sostanziale, può essere definita come il subentro di un soggetto (avente causa) ad un altro (dante causa) in una determinata situazione giuridica. Tale modificazione soggettiva del rapporto giuridico sostanziale può generare una divergenza tra le parti intervenute nel procedimento di mediazione e quelle partecipanti al giudizio di merito, potenzialmente idonea ad imporre l'esperimento di un nuovo tentativo di mediazione. Il nostro ordinamento prevede due forme di successione, la successione a titolo universale e la successione a titolo particolare, la cui trattazione, in rapporto alla problematica di cui sopra, deve essere affrontata separatamente per le caratteristiche peculiari di ciascun istituto.
Ponendo attenzione all'istituto della successione universale, si possono distinguere due ipotesi: 1) esperita la procedura di mediazione obbligatoria, il soggetto muore (o l'ente si estingue) nel corso del giudizio di merito. Tale fattispecie appare assai lineare: infatti, trovando applicazione l'art. 110 c.p.c., il processo verrà proseguito dal successore universale o in suo confronto sicché la mutazione soggettiva non produrrà alcuna ripercussione sull'identità dell'elemento personae in quanto è lo stesso ordinamento a fornire uno strumento processuale che consenta il proseguimento dell'azione senza soluzione di continuità; 2) esaurito il procedimento di mediazione, il soggetto che ha partecipato alla mediazione muore prima dell'instaurazione del giudizio di merito. In tale circostanza, tra la domanda esaminata in via stragiudiziale e quella avanzata in via giudiziale, non vi è identità soggettiva e non vi è alcuna norma processuale che affronti esplicitamente la questione. Nonostante ciò, la problematica può essere risolta attraverso il ricorso alla disciplina sostanziale civilistica che, postulando nei casi di successione a titolo universale mortis causa (l'unica vera ipotesi di successione universale inter vivos è rappresentata dalla fusione - e dalla trasformazione - tra società, in coerenza con la lettera dell'art. 2504-bis c.c.) il subentro dell'erede in tutte le posizioni giuridiche attive e passive del de cuius, ad eccezione dei rapporti intrasmissibili, rende il successore una sorta di continuazione stessa della persona del defunto. Alla luce di ciò, il subentro dell'erede nella sfera giuridica del de cuius si realizza sia rispetto alla situazione sostanziale dedotta in giudizio sia rispetto alla consequenziale situazione processuale, comprensiva altresì della situazione giuridica relativa al perfezionamento della condizione di procedibilità, e impedendo, dunque, qualsiasi necessità di rinnovazione del procedimento di mediazione. Per quanto attiene alla successione a titolo particolare nel diritto controverso, in cui l'avente causa subentra in uno specifico diritto del dante causa, è opportuno effettuare la medesima distinzione già operata in precedenza sicché: 1) nel caso in cui la successione intervenga a mediazione già esperita e a giudizio instaurato, nulla quaestio circa la corrispondenza soggettiva tra procedimento di mediazione e processo poiché, nonostante il trasferimento del diritto sia valido ed efficace, a norma dell'art. 111 c.p.c., il processo proseguirà tra le parti originarie ovvero, nell'ipotesi di trasferimento a titolo particolare mortis causa, sarà continuato dal o nei confronti del successore universale con eventuale possibilità per il successore a titolo particolare di intervenire o essere chiamato; 2) qualora il trasferimento del diritto contestato avvenga dopo la mediazione ma prima dell'instaurazione del procedimento di merito, affinché possa considerarsi avverata la condizione di procedibilità, è ragionevole ritenere che si debba esperire un ulteriore procedimento di mediazione nei confronti del nuovo titolare del diritto. Tale assunto trova fondamento, da un lato, nell'inoperatività dell'art. 111 c.p.c. ovvero nell'inesistenza di una norma positiva che regoli diversamente la fattispecie e, dall'altro, nella natura della successione a titolo particolare, profondamente diversa rispetto alla successione universale. In particolare, quanto al primo aspetto, la disposizione processuale relativa alla successione a titolo particolare nel diritto controverso non può trovare applicazione poiché, per espressa previsione normativa, essa si riferisce ad ipotesi di trasferimento del diritto nel corso del processo ed un processo può dirsi pendente solo dal momento della notifica al convenuto dell'atto di citazione ovvero dal deposito del ricorso sicché, prima di tali eventi, non sussiste alcun processo. In aggiunta, non può trovare condivisione neppure il pensiero secondo cui sia ammissibile applicare analogicamente una disposizione processuale ad un istituto extraprocessuale (la mediazione) con strutture, origini e scopi totalmente differenti rispetto a quelli in cui la norma processuale si innesta. Infine, in riferimento al secondo aspetto della natura della successione particolare, è sufficiente osservare che il trasferimento del diritto particolare genera il mutamento soggettivo in un determinato rapporto giuridico sostanziale e non anche il trasferimento della situazione giuridica processuale relativa al perfezionamento della condizione di procedibilità, che rimane qualcosa di giuridicamente distinto e diverso rispetto al trasferimento del diritto ex se. Mediazione ed intervento del terzo
Nel diritto processuale civile, l'intervento volontario ai sensi dell'art. 105 c.p.c. - nelle forme dell'intervento principale (o ad excludendum), dell'intervento adesivo autonomo (o litisconsortile) e dell'intervento adesivo dipendente (o adesivo o ad adiuvandum) – nonché l'intervento coatto ad istanza di parte ex art. 106 c.p.c. o per ordine del giudice ex art. 107 c.p.c., sono istituti attraverso il quale un terzo è introdotto in un processo già pendente fra altri soggetti. Poiché la partecipazione del terzo si perfeziona nel corso del giudizio, è ragionevole ritenere che, nella quasi totalità delle fattispecie, l'interveniente non abbia partecipato in alcun modo alla procedura di mediazione sicché occorre verificare se tale circostanza configuri o meno una divergenza soggettiva tra le parti coinvolte nel procedimento di mediazione e quelle partecipanti al giudizio di merito, tale da imporre l'esperimento di un nuovo tentativo di mediazione al fine di ritenere soddisfatta la condizione di procedibilità di cui al d.lgs. n. 28/2010. In riferimento al tema in discussione, l'esistenza di elementi di comunanza fra alcune tipologie di intervento permette un'analisi congiunta di alcuni istituti mentre altri necessitano di una trattazione separata in ragione delle proprie peculiarità. È pertanto possibile pertanto distinguere: 1) intervento adesivo dipendente (ipotesi in cui l'interveniente sostenga le ragioni di una delle parti senza far valere un diritto autonomo). In tale ipotesi si può pacificamente affermare che nessuna nuova procedura di mediazione deve essere espletata in ragione del fatto che:
2) intervento principale (ipotesi in cui l'interveniente fa valere nei confronti di tutte le parti del processo un diritto incompatibile con quello vantato da ciascuna di esse); intervento adesivo autonomo (ipotesi in cui l'interveniente fa valere un diritto compatibile con quello affermato in giudizio a cui risulta connesso per l'identità del fatto costitutivo); intervento su istanza di parte compresa l'ipotesi di laudatio auctoris (caso in cui il convenuto chiami in giudizio un terzo asserendo che lo stesso sia il reale soggetto passivo del rapporto dedotto in giudizio dall'attore) ed escluso il caso della chiamata in garanzia; intervento coatto iussu iudicis. In tali fattispecie la necessità di esperire un nuovo procedimento di mediazione è questione controversa in giurisprudenza e dottrina e vede intrecciarsi, nel raffronto tra domanda giudiziale e fatti esposti in mediazione, l'elemento soggettivo con profili attinenti al petitum e alla causa petendi. A favore della tesi negativa si può evidenziare:
Diversamente, la tesi favorevole all'esperimento di un nuovo tentativo di conciliazione in relazione ad ogni nuova domanda proposta in giudizio trova fondamento:
Aderendo all'impostazione favorevole all'esperimento di un nuovo tentativo di mediazione, è utile evidenziare l'opportunità di demandare in mediazione non solo la nuova domanda formulata bensì l'intera controversia in considerazione del fatto che la mediazione, per sua natura, coinvolge il rapporto nella sua interezza e la valutazione di tutti gli interessi coinvolti è sicuramente più idonea a favorire una risoluzione extragiudiziale del conflitto. Una specifica osservazione va, infine, formulata in merito all'ipotesi di chiamata in causa del terzo per ordine del giudice. Infatti, se per le altre forme di intervento, l'eventuale statuizione di improcedibilità interesserà esclusivamente le domande non esaminate in mediazione, nella suddetta fattispecie una tale soluzione non appare accettabile in quanto, così opinando, si fornirebbe alle parti uno strumento per eludere l'ordine del giudice ex art. 107 c.p.c. sicché è preferibile sostenere la tesi secondo cui l'improcedibilità atterrà alla totalità delle domande processuali. 3) chiamata del terzo in garanzia In riferimento alla chiamata del terzo in garanzia, preliminarmente, è opportuno ricordare che, a seguito della nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 24707/2015, la distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria, dovendosi considerare più apparente che reale, deve essere mantenuta soltanto a livello descrittivo e non può dispiegare effetti a livello applicativo sicché non è condivisibile l'orientamento secondo cui sussista un regime processuale differente a seconda che la chiamata del terzo interessi fattispecie di garanzia propria od impropria. In sintesi, la chiamata in garanzia propria ed impropria devono generare sempre le medesime conseguenze processuali mentre ciò che può invece generare differenze è il contenuto della chiamata del terzo in garanzia. Infatti:
In aggiunta, anche volendo assimilare la posizione del garante a quella dell'interveniente adesivo autonomo, e non a quella dell'interveniente adesivo dipendente, premesso l'insuccesso della mediazione già effettuata, non si spiegherebbe quale utilità deriverebbe dall'esperimento di nuova procedura di mediazione dal momento che gli incontri avrebbero ad oggetto gli stessi fatti rispetto ai quali attore e convenuto hanno già constatato l'impossibilità di giungere ad una conciliazione e la partecipazione del terzo, privo del potere di definire la lite con un accordo transattivo con l'attore, per le considerazioni sopra svolte, sarebbe per natura inidonea a modificare la posizione assunta in precedenza dalle parti.
Mediazione e litisconsorzio
In relazione alla coincidenza soggettiva tra domanda giudiziale e procedimento di mediazione, occorre, infine, analizzare il fenomeno della pluralità di parti attive e/o passive ab orgine; sotto questa definizione rientrano le ipotesi del litisconsorzio necessario e del litisconsorzio facoltativo. Il litisconsorzio necessario, disciplinato dall'art. 102 c.p.c., interessa rapporti giuridici sostanziali plurisoggettivi concettualmente unici o inscindibili rispetto ai quali la sentenza, pronunciata solo nei confronti di alcune parti del rapporto, sarebbe inutiliter data in quanto inidonea al raggiungimento dello scopo a cui è destinata sicché, in caso in cui uno o più litisconsorti necessari siano pretermessi, il giudice d'ufficio deve ordinare alle parti presenti l'integrazione del contraddittorio, pena l'estinzione del processo. Esso si risolve pertanto in una legittimazione ad agire (o a resistere) necessariamente congiuntiva da cui discende consequenzialmente l'inoperatività dell'istituto della separazione delle cause. Rispetto a tale fattispecie, qualora la mediazione non abbia coinvolto tutti i litisconsorti necessari, si distinguono due orientamenti: 1) secondo un primo indirizzo non vi è necessità di esperire una nuova mediazione e la condizione di procedibilità si intende comunque realizzata. I fautori di questa tesi argomentano con considerazioni di stampo spiccatamente pratico e di economia processuale, secondo le quali il rinvio ad un nuovo tentativo di conciliazione che comprenda anche il litisconsorte necessario pretermesso non ha alcuna utilità poiché la possibilità di un successo della conciliazione “a contraddittorio pieno” è già minata in radice dal fatto che alcune delle parti, portatrici di medesimi interessi e analoghi poteri, l'hanno già vanamente esperita ed hanno manifestato la volontà di sottoporre la lite alla decisione del giudice. 2) In adesione ad una diversa corrente di pensiero, una volta disposta l'integrazione del contraddittorio in giudizio ai sensi dell'art. 102 comma 2 c.p.c., dato atto dell'impossibilità di scindere la posizione processuale dei litisconsorti necessari, è necessario esperire una nuova procedura di mediazione che coinvolga tutti i soggetti interessati dal momento che ci si trova dinanzi ad un'estensione dell'ambito soggettivo della lite. Infatti, se è vero che, nonostante la natura inscindibile della causa, ciascun litisconsorte necessario conserva la titolarità della propria posizione processuale, la quale non segue passivamente le sorti di quella altrui, (come confermato, per esempio, dalla sanzione di inesistenza che affligge la sentenza emanata in mancanza di integrazione del contraddittorio), allora ne consegue che la mancata partecipazione del litisconsorte necessario al procedimento di mediazione non permette di considerare avverata, rispetto a quest'ultimo, la condizione di procedibilità. Tale tesi trova altresì sostegno in un arresto giurisprudenziale in materia di contratti agrari ove è stata sostenuta l'improcedibilità della domanda giudiziale di rilascio del fondo, per cessazione del rapporto associativo di mezzadria, qualora il tentativo di conciliazione non avesse coinvolto tutti i membri della famiglia colonica in quanto da considerarsi tutti litisconsorti necessari (Trib. Sala Consilina, 20 novembre 1991). Altri elementi a sostegno si possono rinvenire nel carattere strettamente personale della mediazione che considera indispensabile la presenza e l'interazione di tutti i soggetti interessati e nei regolamenti di alcuni organi di mediazione che sottolineano in più punti la necessità di prestare attenzione alla corretta instaurazione del contraddittorio e conferiscono al mediatore poteri di integrazione dello stesso molto simili a quelli del giudice nel processo. Si parla invece di litisconsorzio facoltativo ai sensi dell'art. 103 c.p.c. quando la trattazione simultanea di varie cause scindibili si fondi su un vincolo di connessione materiale per l'oggetto o per il titolo (litisconsorzio facoltativo proprio) ovvero si basi su un rapporto di mera affinità fra le cause derivanti dalla sussistenza di qualche comune questione controversa la cui soluzione è necessaria per giungere alla decisione (litisconsorzio facoltativo improprio). Ivi, non è previsto alcuno strumento di integrazione del contraddittorio dal momento che, da un lato, il litisconsorzio facoltativo ha la funzione di promuovere l'unità formale del processo per esigenze di celerità e per evitare decisioni discordanti e, dall'altro, le domande formulate nello stesso processo rimangono comunque distinte ed autonome. Ciò è reso manifesto, per esempio, dall'esplicita previsione della possibilità di separazione delle cause ex art. 103 comma2 c.p.c. ovvero dalla necessità di valutare separatamente i presupposti processuali per ogni causa connessa. Dato atto, dunque, che rispetto al procedimento di mediazione, nella fase di giudizio ci si troverà innanzi ad un'estensione sia dell'ambito soggettivo che oggettivo della lite, è ragionevole sostenere che, in caso di mancato esperimento del procedimento di mediazione nei confronti di tutte le parti processuali, sia possibile adottare una delle seguenti soluzioni: 1) rinnovare la mediazione nei confronti di tutti i soggetti processuali al fine di permettere una valutazione congiunta degli interessi coinvolti. Infatti, la continuazione del processo sic et simpliciter non è certamente ammissibile poiché, come già in precedenza osservato, le cause, benché introdotte congiuntamente, restano autonome e la posizione processuale dei singoli litisconsorti rimane indipendente sicché le vicende processuali di uno di essi, e nel caso di specie la verificazione della condizione di procedibilità, non possono comunicarsi fra le parti; 2) disporre la separazione dei giudizi ed invitare le parti precedentemente escluse ad esperire un tentativo di conciliazione. Tale soluzione è certamente percorribile poiché, per un verso, il ritardo che genererebbe dalla trattazione congiunta della causa legato alle tempistiche proprie della mediazione, permette di sussumere la fattispecie all'interno delle ipotesi in cui è possibile la separazione dei giudizi ai sensi dell'art. 103 c.p.c, e, dall'altro, la natura scindibile del giudizio consente sia la proposizione disgiunta ab origine delle domande processuali sia la continuazione autonoma delle stesse. Casistica
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